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Autore: _Frame_    21/08/2016    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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93. Per lui e Per te

 

 

L’auto scivolò lungo l’asfalto, briciole di sterrato scricchiolarono sotto gli pneumatici che passarono sopra un piccolo dosso e procedettero in linea attraverso la lunga lingua nera che trapassava i campi ingialliti dall’autunno. Un sole basso toccava l’orizzonte, stendeva i raggi lungo la superficie del campo, colorava i filoni d’oro, e batteva sui vetri e sulla carrozzeria tirata a lucido dell’auto che scorreva lenta attraverso la strada.

Uno dei raggi entrava dal finestrino posteriore, un riverbero basso che non faceva male agli occhi, riempiva l’abitacolo e batteva sullo sguardo di Romania rivolto ai campi che scorrevano fuori dal vetro. Le palpebre basse, gli occhi spenti riempiti solo della luce del pallido sole d’autunno, profondi segni di stanchezza a cerchiargli le orbite. Il gomito piegato contro lo sportello, e la mano schiacciata sulla guancia, a sostenergli il capo. L’auto in corsa vibrava sotto i suoi piedi, gli rilassava i muscoli. Il profondo e costante ronzio del motore, la luce così bassa e il pesante profumo di pelle gli suscitarono un senso di assopimento che andò a riempirgli la testa come ovatta.

Romania sospirò. Le spalle si alzarono e si abbassarono, il viso si distese e le nocche piegate contro la guancia sprofondarono nella pelle rigonfia sotto lo zigomo. Quello fu il primo sibilo a spargersi nell’abitacolo. L’auto era rimasta in silenzio fin dall’inizio del viaggio.

Gli occhi di Romania squadrarono la sagoma dell’autista celata dallo schienale del sedile di fronte a lui.

Immobile e muto come un manichino.

“Ti senti offeso?”

La voce di Germania gli fece stringere le unghie contro il palmo, la fronte si increspò in una fitta piega di nervosismo, gli occhi bagnati dal sole si restrinsero, scintillarono di rosso, e le punte dei canini premettero sulla carne del labbro. Gli angoli della bocca lievemente storti verso il basso.

Romania ruotò lo sguardo, rivolse a Germania un’occhiata di striscio, riuscendone solo a vedere il profilo bordato di luce, seduto accanto all’altro finestrino.

Tornò a guardare fuori dal suo. Arricciò il naso, grugnì una smorfia seccata. “Strano che tu me lo chieda solo ora.” Un boschetto nero e fitto riempì la linea d’orizzonte, si aprì davanti al disco del sole rosso. I raggi si incastrarono in mezzo alle sagome degli alberi e un’ombra scura si impadronì della distesa di campi.

Anche Germania voltò lo sguardo, distolse gli occhi dal lato del suo finestrino, e il viso entrò nella penombra. Le iridi scurirono, divennero di un azzurro fumo. “Lo sei?” domandò. Il tono acquistò una punta di insistenza, divenne rigido come quando perdeva la pazienza.

Le labbra di Romania ebbero un fremito, il palmo dentro cui aveva infilato le unghie iniziò a bruciare come il formicolio che premeva sul petto. Romania si pizzicò il labbro inferiore, ma trattenne i bollori in gola, dove sentiva un grumo di sapore amaro addensarsi e torcergli lo stomaco.

Abbassò la fronte toccando il vetro freddo, e chiuse le palpebre annerite di stanchezza. Sospirò. “No.” Un piccolo soffio di condensa appannò il vetro a uno sfioro dalle sue labbra.

Romania schiuse le ciglia, si lasciò abbagliare dal colore dei campi che erano tornati sommersi dalla luce del sole, la forma piatta del boschetto era rimasta indietro. Gialli e aranci si mescolavano nella distesa di prato, ondate d’oro fluivano come schiuma trasportata dal mare, il vento le spingeva e le ingrandiva attraverso i filoni. La tonalità così calda e morbida lo calmò. “E, anche se lo fossi, non credo che potrei risolvere o cambiare qualcosa.” Tolse le nocche da sotto lo zigomo, aprì il palmo e stese le dita lungo la guancia, infilandone le punte in mezzo ai capelli. Lo sguardo divenne triste, nebbioso e sconfortato. Romania parlò così piano che lui stesso fece fatica a udire le sue parole. “Temo di avere perso anche l’ultimo briciolo di volontà che mi è rimasto, ormai.”

Germania sollevò un sopracciglio, incrinò l’espressione di marmo. “Come?”

Romania fece roteare gli occhi al tettuccio dell’auto. “Niente,” mugugnò. E tornò a guardare fuori dal finestrino.

La piana del campo si assottigliò, divenne una striscia più corta sulla linea dell’orizzonte, e davanti alle nubi grigie e rossicce si addensarono i profili scuri delle case di campagna. Le forme dei tetti increspavano il cielo, trattenevano la luce del sole che si era fatta più buia, cosparsa del fumo che serpeggiava fuori dai comignoli e si spargeva sopra i campi in una nebbia sottile.

Romania aprì un palmo sul finestrino freddo e subito una cornice di condensa contornò la mano fino all’altezza del polso. Si spinse più in avanti, il sedile di pelle scricchiolò sotto il suo movimento, e sfiorò il vetro con la fronte. Gli occhi si animarono di una luce più viva.

La vista di quel paesaggio familiare gli suscitò una piacevole e tiepida sensazione all’altezza del petto, e il calore si trasmise in tutto il corpo. Divenne una fitta ondata di nostalgia.

La sensazione del sole che intiepidisce le guance, del vento frizzante che pizzica il viso e che agita i capelli, lo riportarono a passeggiare in mezzo ai campi, immerso nei profumi dei fiori appena sbocciati e dei germogli freschi. Moldavia teneva le piccole gambe accavallate sulle sue spalle, le manine strette fra le sue ciocche, per tenersi in equilibrio, e un piccolo braccio che ogni tanto si stendeva verso l’alto. Le piccole dita cercavano di acchiappare uno dei ramoscelli su cui erano sbocciate tante gemme verdi. La sua risata cristallina gli faceva fremere il cuore, il pancino del piccolo vibrava contro la sua nuca, e il braccio già alzato sventolava, chiamava l’immagine di Bulgaria che era già corso davanti a loro, li aspettava sotto l’ombra del boschetto.

L’ombra si concentrò anche dentro l’abitacolo dell’auto. Romania rivolse lo sguardo dall’altra parte del sedile posteriore, ignorando la sagoma dell’autista davanti a lui, e si staccò dal ricordo. Il cuore ancora stretto in quella sensazione aspra e dolce allo stesso tempo.

Germania era impassibile. Il volto rivolto fuori dal finestrino, la luce del sole che delineava il contorno del viso bordandolo d’oro e che veniva assorbita dagli occhi. Le iridi riflettevano le forme del paesaggio, dei profili delle case e della distesa del campo su cui si stendevano le ombre. Erano così chiare e lucide che sembravano di vetro.

L’immagine di Germania seduto accanto a Romania rese ancora più amara la sensazione che si era raggrumata in fondo alla gola, come un pugno di sabbia.

Romania si guardò le ginocchia, tolse le mani dal vetro lasciando due impronte di vapore che si dissolsero subito. Chiuse i pugni sulle cosce, aprì e strinse le dita, le sciolse contro le gambe, sentì un formicolio di impazienza stendersi attraverso le ossa e arrivare ai piedi, farli traballare sul pavimento dell’auto. Tornò a guardare Germania. Un’altra scossa di nervoso gli punse la pelle.

Romania trattenne il respiro. Abbassò gli occhi sulle cosce e sui pugni che strizzava e scioglieva facendo sbiancare la pelle, e si chiuse nelle spalle.

Prese un respiro dalle narici, tenendo le labbra sigillate e i canini premuti sul labbro. Era un respiro di incoraggiamento, come prima di buttarsi in apnea nel fondo di un lago nero.

“Che cosa pensi di ottenere?” Glielo chiese di colpo.

Germania girò lo sguardo, lo immerse nella penombra. Gli occhi ristretti in quell’increspatura interrogativa apparvero più scuri e distaccati.

Un piccolo dosso fece traballare l’auto che cigolò e tornò a scorrere liscia attraverso la lingua d’asfalto. Entrambi non se ne accorsero.

Romania guadagnò un secondo respiro, più profondo. Guardava in basso, verso le sue ginocchia, e i pugni chiusi contro le gambe tremarono. “Che cosa pensi che otterrai portando me davanti a Bulgaria?” Scosse le spalle e sbuffò. La voce ancora tremula nel timore ma che aveva il suono di una beffa. “Che gli faccia pena?” Ruotò lo sguardo, e una ciocca di capelli scivolata sulla guancia gli celò la luce di un occhio. “Speri forse che sia io a convincerlo?” Lo disse come parlando a un illuso.

Germania rilassò il volto, mimò uno sguardo più comprensivo. “No.” Appoggiò le spalle allo schienale e scosse il capo, le braccia incrociate al petto. “Non esattamente.” Guardava davanti a sé, verso il sedile anteriore. L’aria assorta come se stesse ancora guardando fuori dal finestrino, a far scorrere il paesaggio dentro le iridi. “Ma credo che vedendoti si renderà conto di parecchie cose.”

Romania inarcò un sopracciglio. “Speri che lui accetti di passare dalla tua parte buttandogli la minaccia di fare del male a me?” Raddrizzò anche lui le spalle, sciolse i pugni – la carne del palmo era diventata tutta rossa e pizzicava – e sventolò una mano come per scacciare un insetto fastidioso. “Ti risparmio la fatica del ricatto, non funzionerebbe,” disse, non curante.

Gli occhi tornarono a riflettere il calore del sole, i profili delle case, la luce dei campi imbruniti dall’autunno, e il velo di fumo che aleggiava nel cielo assieme alle nubi scarlatte. Romania socchiuse le palpebre, tornò la nebbia di stanchezza ad appannargli lo sguardo, e un breve sospiro di nostalgia gli ingrumò un dolore al petto. “Io e lui, ormai...”

“Chi può dirlo?”

Romania esitò. Quell’interruzione lo fece sobbalzare e guardare verso Germania.

Germania sollevò di poco lo sguardo, lo rivolse al tettuccio dell’auto. “Quando tu hai dovuto scegliere fra la tua libertà e la vita di Moldavia, non hai battuto ciglio.”

Romania sentì il cuore trafitto da una lama.

Il dolore al petto rievocò l’immagine di Moldavia, la manina stretta alla sua e nascosta dalle maniche troppo larghe, le gambe immerse fra i fasci di erba che gli arrivavano alle ginocchia, il visetto sorridente, i piccoli dentini che luccicavano come gli occhi, e i codini che rimbalzavano a ogni passo come un secondo paio di orecchie da animaletto. Lo rivide nascosto dietro le gambe di Russia che era venuto a prenderlo. Le piccole dita appese alla giacca, all’altezza delle ginocchia, il corpicino celato nella sua ombra, la mano inguantata che gli carezzava la testolina in mezzo ai codini, e la sciarpa che gli sfiorava la punta del nasino.

La lama affondata nel cuore tagliò il battito in due, gli tolse il fiato, il sangue divenne di ghiaccio e un’ondata di paura e tristezza gli imperlò la fronte di sudore.

“Quello,” Romania strinse i pugni tremanti, soppresse l’immagine, “è un caso diverso. Io e Moldavia siamo fratelli.” Guardò la campagna fuori dal finestrino, le file di case, la distesa dei campi, la luce del sole basso. Un’altra fitta di malinconia gli strinse il petto, ma aveva un sapore diverso, agrodolce, e rallentò i battiti del cuore. “Io e Bulgaria invece siamo...” Si morse il labbro. “Eravamo...” Le parole restarono incastrate in fondo alla lingua. Romania abbassò la fronte e si strofinò la nuca con rapidi movimenti nervosi. Un piccolo sorriso amaro gli incavò gli angoli delle labbra dentro le guance. “Ormai non so più nemmeno io come definirci.”

Germania lo osservava. Gli occhi distaccati ma attenti, il viso serio e composto.

Tornò anche lui a rivolgere lo sguardo fuori dal finestrino, con aria assorta. “Tu mi stai accompagnando da Bulgaria per diversi motivi.” Inspirò. “E uno di questi è che non voglio che voi perdiate la consapevolezza di chi siete, di cosa state facendo e di cosa sta succedendo attorno a voi.”

“Io non...” Romania strinse la mano all’attaccatura dei capelli, il palmo scese, massaggiò il collo che si era irrigidito come un pezzo di legno. Scosse il capo, un’espressione avvilita gli attraversò il volto. “Non credo di sapere più quello che sto facendo.”

“Appunto,” rispose Germania. “Decidendo di combattere solo per Moldavia, stai lentamente perdendo la consapevolezza di te stesso.” Ruotò gli occhi verso di lui. Il sole che vi passava di striscio li fece sembrare ancora più lucidi e chiari, taglienti come schegge di vetro. “Ecco perché dovrai esserci anche tu, oggi.”

Romania fece scivolare il palmo dal collo, aprì la mano davanti al viso e la luce del sole che filtrava dal finestrino si concentrò fra le pieghe della pelle, accentuò i segni rossi lasciati dalle unghie che si era conficcato nella carne quando aveva stretto i pugni. Bruciavano ancora. Il movimento dell’auto faceva vibrare leggermente la mano.

La consapevolezza di me stesso?

Romania tornò a chiudere il pugno. Fu un gesto lento e morbido. I polpastrelli spinsero sul palmo senza far entrare le unghie. Accostò le nocche alle labbra e parlò piano. “Lui lo sa?”

Germania gli rivolse una fugace occhiata interrogativa, inarcò un sopracciglio.

Romania sollevò gli occhi. Occhi stanchi ma tesi per il timore e il nervosismo. “Bulgaria sa che ci sarò anche io?” Il cuore fremette come se ne avessero pizzicato una corda.

Germania annuì con un breve cenno del capo. “Certamente.” Accavallò le gambe. Annodò le braccia al petto e lo spinse all’infuori. Quella posizione gli fece sembrare la schiena ancora più grande contro il sedile, le spalle ancora più salde e larghe. La sua sagoma tappava la luce del sole. “Se vorrai intervenire o se vorrai startene a guardare non ha importanza.” Una vena di austera superiorità gli irrigidì il volto. “Impara a riconoscere, però, chi fra me e voi sta tirando le redini del gioco.” Parlò con voce freddissima, e Romania sentì un viscido brivido di gelo arrampicarsi su per la spina dorsale.

Romania socchiuse le labbra. “Quindi...” Lo sguardo confuso e incredulo, la mano ancora rigida e aperta davanti a lui. “Non vuoi che sia io a convincerlo?” domandò.

Germania scosse la testa. “No.”

L’auto sfilò davanti a un tratto di strada in cui le case sparivano, lasciando i raggi del sole a correre ampi sui campi e sulla strada. L’abitacolo tornò a illuminarsi, i raggi toccarono gli occhi inflessibili ma sinceri di Germania. “Anche se penso che tu ci riusciresti.” Li rivolse a Romania. “E sarebbe più facile per te che per me.”

Romania aggrottò la fronte, sentì la pancia bruciare. “E cosa dovrei dirgli?” Le case tapparono di nuovo il sole, calò il buio che isolò l’abitacolo dell’auto in un’atmosfera densa e fredda. Gli occhi di Romania si accesero di rabbia e umiliazione. “Di seguire il mio esempio?” Batté una mano sul petto e sporse le spalle verso Germania. “Di farsi ridurre come sono io ora? Lui sa benissimo come mi avete...”

“Non per prenderti come esempio da imitare.” Una nota di biasimo gli macchiò il tono di voce. “Ma come esempio da non seguire.”

Romania sentì una scossa di disprezzo mordergli la pelle. Tornò a serrare i pugni, a chiuderli sulle ginocchia, a sopprimere il peso dell’umiliazione che gravava sulle ossa delle spalle e che lo spingeva a curvarsi verso il basso. Girò il capo con uno scatto, guardò fuori, e gorgogliò un’imprecazione a denti serrati, la voce bassissima.

“Bastardo.”

Germania fece finta di non aver sentito.

 

.

 

Germania aprì le punte delle dita sui fascicoli che aveva posato sul tavolo, tenuti insieme da una pinza ad ala, e fece pressione spingendo le cartelle lungo la superficie del tavolo, verso l’altra estremità. Sollevò un fruscio.

“È una pura e semplice richiesta di adesione all’Asse e alla sua politica,” disse.

Tolse le dita, fece scivolare via l’ombra del braccio dai cartoncini, e raccolse le mani dietro la schiena. Spalle larghe e sguardo alto verso l’ombra che lo fronteggiava dall’altra parte del tavolo.

La sagoma era voltata di profilo, le braccia incrociate al petto ma il mento alto e lo sguardo rivolto verso Germania. Una piccola ruga di disapprovazione gli arricciava la punta del naso, donando al viso un’aria di arrogante superiorità, e accentuava il colore verde racchiuso negli occhi.

Germania sostenne lo sguardo, spinse il petto all’infuori e fece luccicare la croce di ferro sotto il piccolo raggio di luce che attraversava la stanza. Brillò come la punta di un coltello. Germania prese un respiro. La voce bassa e cupa.

“Ovviamente implicherà tutto ciò che comporta un’alleanza. Il tuo territorio passerà sotto i miei comandi, le tue decisioni politiche dipenderanno dalle mie, e sarai sotto il mio comando in ogni campagna militare che io deciderò di affrontare.”

Bulgaria restrinse le estremità delle sopracciglia, la luce degli occhi si accese in uno sguardo ostile e penetrante, e lui piantò le unghie contro gli avambracci incrociati, sopprimendo il brivido di rabbia attraverso le dita formicolanti. Allontanò lo sguardo da Germania e dall’ombra più piccola che rimaneva protetta dietro la sua spalla, fece un passetto in avanti, snodò un braccio dal petto e lo tese verso i fascicoli tenuti insieme dalla pinza. Raccolse la prima delle cartelle. La aprì davanti al petto, sfogliò un paio di pagine, e i suoi occhi bassi, scuri di stizza, scorsero attraverso le righe.

Germania raggiunse un altro dei documenti, il tono si ammorbidì. “Riguardo la gestione militare,” aprì un altro fascicolo, più sottile, ed espose le carte alla fioca luce del sole, “quella sarà ancora affidata a te.” Girò una pagina. “E avrai la piena responsabilità delle truppe.” Capovolse la cartella, in modo che le scritte fossero dritte dal senso di lettura di Bulgaria, e gli spinse vicino anche quella, facendola strisciare sul tavolo. “È tutto scritto qui.” Diede un piccolo colpetto con i polpastrelli e ritirò la mano.

Bulgaria arricciò il viso in una smorfia di disprezzo, girò un altro foglio del fascicolo che teneva aperto fra le mani, ma lo sguardo gli cadde sui documenti ancora sul tavolo che Germania aveva avvicinato a lui. Li squadrò, assottigliò le palpebre, e sollevò di nuovo gli occhi.

Li incrociò con la piccola sagoma che si teneva in disparte, nascosta dentro l’ombra di Germania, con le braccia strette al petto, sulla difensiva, la fronte bassa e le spalle strette.

Romania gettò lo sguardo a terra, si fece più piccolo e chiuso in quell’abbraccio solitario, e una piega di irritazione gli corrugò la fronte. Scivolò di un passo di lato, mettendosi di profilo, e rimase nascosto dietro a Germania. Tamburellò le dita contro le braccia incrociate, gesti nervosi e impazienti. I canini appuntiti spingevano sul labbro inferiore facendone tremare la carne contro le due piccole scintille bianche. Lo sguardo di chi vorrebbe farsi assorbire dalle pareti e scomparire nell’ombra.

Bulgaria fece roteare lo sguardo. Il petto formicolò e lui non riuscì a trattenere un soffice sbuffo di risata che gli piegò verso l’alto gli angoli della bocca, creando due fossette dentro le guance. “Già la seconda volta in meno di un mese,” commentò. Diede un’altra sfogliata, le labbra tornarono piatte, gli angoli leggermente torti verso il basso, il viso scuro, e le dita strinsero contro le pagine aperte. Fece schioccare la lingua fra i denti. “Non ci posso credere.”

Germania inarcò un sopracciglio. Il mento alto, la guancia leggermente voltata di lato che gli permetteva di guardarlo storto. “Seconda?” domandò. La voce fredda, ma incrinata da una punta di dubbio.

Bulgaria sollevò gli occhi e il suo sguardo si rilassò, la luce distese i lineamenti. “Uh? Ah, già,” alzò di poco il fascicolo davanti al suo volto per nascondere il mezzo sorrisetto di scherno, “tu non ne sapevi niente.” E girò un’altra pagina.

Romania sporse lo sguardo, piegò un sopracciglio accendendo una luce interrogativa negli occhi, e l’ombra di Germania scivolò via dal suo viso. Le dita smisero di tamburellare, le mani strinsero sugli avambracci, le unghie stropicciarono la stoffa delle maniche.

Germania irrigidì lo sguardo velato dal dubbio, scoccò un’occhiata fugace a Romania. Romania scosse il capo, ancora stretto nelle spalle. Lo guardò storto come aveva fatto in auto, gli occhi annebbiati, per fargli capire che ne sapeva quanto lui.

Bulgaria sospirò, chiuse il fascicolo, e abbassò le palpebre. “Be’, ormai il danno è fatto, quindi posso anche dirtelo.” Gettò le carte sul tavolo, contro le altre – ciaf! –, e lui tornò a incrociare le braccia al petto come Romania. Si voltò di profilo, fece un paio di passi che schioccarono nell’ambiente chiuso. Gli occhi si riempirono di quel colore scuro e adirato che li aveva avvolti quando si era ritrovato davanti a Italia. “Italia era venuto da me prima di buttarsi in Grecia, sai?”

Germania aggrottò la fronte ma non disse nulla.

Bulgaria si fermò di profilo, reclinò il capo e gli lanciò un’occhiata di scherno. Gli occhi sottili come il suo sorriso. “Voleva la mia copertura nel settore macedone, per assicurarsi che Grecia non scappasse da me una volta invaso e che io bloccassi la sua eventuale fuga.” Alzò le sopracciglia. “Mi auguro che tu non ti senta offeso per avertelo tenuto nascosto.”

Germania abbassò le palpebre, distese la tensione del volto. “Non avresti avuto motivo di dirmelo,” lo liquidò. Ma le mani strette dietro la schiena ebbero un fremito, un breve impulso che fece battere le vene sotto la pelle.

Bulgaria sbuffò. “Infatti.” Si rimise dritto, di fronte al tavolo, e aprì le mani contro i documenti, spingendo le spalle in avanti. “E che motivo avrei, secondo te, di accettare le stesse condizioni proprio ora?” Fissò Germania dritto negli occhi, restrinse le dita facendo scricchiolare la carta sotto le unghie. “Solo perché sei tu a chiedermelo invece che quello scemo di Italia? Non mi fai paura, e non mi inginocchierò mai a leccarti i piedi,” lo sguardo volò su Romania, uno sguardo altezzoso e di disprezzo, “come sta già facendo mezza Europa.”

Romania schiacciò i pugni contro le braccia incrociate, i muscoli tremarono di rabbia, gli occhi si accesero di rosso sotto l’ombra increspata delle sopracciglia, e i canini premuti contro il labbro scintillarono, somigliando a finissime punte di rasoio.

Germania percepì la sfrigolante aura di tensione aleggiare attorno al corpo di Romania. Scottava come un vento che soffia fra lingue di fuoco di un incendio. Trascinava la tensione pregna di una pesante elettricità statica simile a quella che aveva sentito spandersi dal corpo ardente di Inghilterra durante i loro scontri. Gli rizzò la pelle d’oca.

“Che condizioni aveva imposto Italia?” domandò Germania, concentrandosi solo su Bulgaria. I brividi elettrici scivolarono via dalla sua carne, come denti che si staccano lasciando impronte umide e brucianti.

Bulgaria esitò. Tirò su le spalle, sollevò il mento per portare lo sguardo in ombra, e gli lanciò un’occhiata sbilenca, nel dubbio se rispondere o meno.

Germania raddrizzò una cartella con un piccolo colpo sul fianco. “Non c’è più bisogno di nasconderle, lo hai detto anche tu.”

Bulgaria e Romania si guardarono, ma Romania si allontanò subito, si girò mostrandogli una spalla, e strofinò una mano sul braccio incatenato al petto.  

Gli occhi di Bulgaria tornarono su Germania, si rilassarono. “Solo la proposta di aiuto in Grecia, nient’altro.” Fece sventolare una mano roteando il polso. Sbuffò annoiato. “Poi ha farfugliato qualcosa sugli svantaggi della mia posizione e su quello che avrei potuto ottenere alleandomi con voi.”

Il ricordo di Italia gli apparve davanti agli occhi. Seduto dietro il tavolo, con le spalle strette e chine, i pugni raccolti sulle ginocchia, lo sguardo che tremolava nell’indecisione. “Se decidessi di unirti a me, potresti stare più vicino a Romania.” Gli occhi che si aggrappavano a quella speranza, che diventavano più luminosi. “Tu e lui siete amici, no? Non saresti più felice all’idea di aiutare un amico che adesso è triste e si trova in difficoltà?”

Bulgaria sentì l’ondata di disgusto che lo aveva colto quel giorno risalire di nuovo lo stomaco. “Ma è stata una richiesta molto blanda.”

Germania toccò un altro dei fascicoli, lo rivolse verso la sua parte e annuì. “E questo poco prima che Italia decidesse di affrontare Grecia da solo,” squadrò Bulgaria, “no?”

Bulgaria digrignò i denti. Affilò lo sguardo che trafisse il leggero strato di polvere fra lui e Germania. Snodò le braccia dal petto e le stese di getto contro i fianchi, facendo vibrare i pugni stritolati, sopprimendo la voglia di saltargli al collo e strangolarlo. “Stai provando a dare la colpa alla mia assenza per il disastro che è successo nei Balcani, lurido fetente?” ringhiò. Anche le dita conficcate nella carne formicolavano, come se stesse stringendo due pugni di puntine da disegno contro i palmi.

Lo scatto di rabbia fece sobbalzare Romania che lanciò subito lo sguardo a Germania e fece un passetto all’indietro per paura di una sua reazione. Il viso di Germania rimase placido e freddo, gli occhi in penombra scuri come un cielo annuvolato e la postura rigida. Il portamento di ghiaccio sfreddò la rabbia di Bulgaria.

Bulgaria abbassò gli occhi sulle carte, sbatté piano le palpebre ma la pelle restò stropicciata agli angoli, dandogli un’aria più rabbiosa. Rilassò i pugni. “Anche se io avessi accettato,” disse, “non sarebbe cambiato nulla.” Camminò di un paio di passi lungo l’orlo del tavolo. “Il mio unico scopo sarebbe stato di sorvegliare il settore macedone, di fare da barriera.” Scrollò le spalle. “Ma Grecia non ha dato a Italia nemmeno il tempo di farsi chiudere in una sacca, dato che lo ha respinto subito in Albania.” Si fermò e guardò Germania. Si posò una mano sul petto tenendo il mento alto. “Io sarei stato inutile lo stesso, anche se avessi accettato la sua proposta.”

Germania fece un breve cenno del capo, come se avesse annuito. “Giusto.” Tornò a premere la mano su una delle cartelle. ‘DIRETTIVA 18’ si leggeva a caratteri maiuscoli sul documento fascicolato. “Ma io non ti sto proponendo l’adesione solo per utilizzarti come scudo.”

Bulgaria sentì una fitta alla bocca dello stomaco, come un pugno premuto sulla pancia, che gli fece diventare la pelle gelida.

Utilizzarmi...

I pugni ancora stretti sui fianchi tremarono di rabbia.

“Io ti voglio attivamente partecipe a una prossima invasione balcanica,” disse Germania, “a un’apertura della tua frontiera per entrare in Grecia, e a un immediato recupero e supporto delle truppe italiane.”

Bulgaria stese la mano come per cacciare via quell’ipotesi. “No, è fuori discussione.” Lanciò a Germania un’occhiata dura e seria, sfreddata di tutta la rabbia che aveva accumulato prima. “Italia non lo capiva,” fece una smorfia, “e posso anche accettarlo perché è uno scemo.” Spinse una mano sul tavolo, si sporse con le spalle verso Germania, avvicinandosi al suo volto, e si posò quella libera sul petto. Batté una volta sul busto e alzò la voce. “Io non sono pronto a combattere, né io né il mio esercito. Non otterresti niente da me, e non ho intenzione di rischiare la pelle solo per riparare a un errore causato da qualcuno di cui tu sei responsabile.”

Germania sollevò le sopracciglia. Gli occhi freddi come ritagli di ghiaccio. “Allora ti metterò davanti a una semplice condizione, Bulgaria.” Il buio attorno a lui si addensò, come fosse calata la notte, avvolgendolo in un drappo nero simile a una nube di temporale. La voce cupa e cavernosa che torceva le viscere. “O aderisci all’Asse e contribuisci pacificamente al flusso delle truppe tedesche verso Grecia.” Guardò Bulgaria dritto nel nero delle pupille, restrinse le palpebre, tenne il tono di voce piatto ma austero. “O accetti di venire schiacciato da me quando le farò comunque passare.”

Romania sgranò le palpebre. L’ondata di gelo gli fece trattenere il respiro, i canini premuti contro il labbro vibrarono come il suo sguardo, un brivido gli scivolò lungo la spina dorsale, scaricando una scossa alla base della nuca. Deglutì ma non scese nulla. Aveva ripreso a sudare freddo.

Anche Bulgaria sentì quel freddo scavargli nelle ossa, fare pressione sulla schiena e fargli ballare le ginocchia. Non si mosse. Inasprì la voce e ricambiò Germania dell’occhiata di ghiaccio.

“Preferisco spezzarmi che piegarmi a te.”

Lo sguardo raggelato di Romania si sciolse nello sconcerto. Gli scoccò un’occhiata di biasimo, incredula, ma Bulgaria non lo vide.

Germania socchiuse le palpebre. “Preferisci un popolo sterminato a causa della tua testardaggine,” raddrizzò le spalle che sembrarono ancora più larghe, “o un popolo protetto dalla mia forza?”

Bulgaria strinse i denti e sentì il petto gonfiarsi sia di rabbia che di orgoglio. “Io sono lo specchio del mio popolo e ti assicuro che la mia gente preferirebbe morire libera piuttosto che accettare di sottomettersi a te.” Spalancò il braccio di lato a indicare la stanza con mano aperta. La voce alta e furiosa. “Perché non si tratta di quello che sta accadendo ora, non si tratta dell’errore di Italia, non si tratta di questa battaglia, e non si tratta nemmeno del fatto che il mio esercito sia impreparato.” La mano spalancata tornò a serrarsi, Bulgaria la premette contro il fianco. Abbassò la voce che rimase rauca, la fronte aggrottata calò l’ombra lungo il viso e fece brillare gli occhi verdi attraversati da una scintilla di timore. “Si tratta di quello a cui ci condurrai,” concluse.

Romania trattenne il fiato, le labbra socchiuse, le braccia rigide contro il petto.

Bulgaria guardò entrambi. “E io non voglio fare la fine a cui stai per condurre tutta l’Europa.”

Lo sguardo di Romania, rigido di tensione, si sollevò su quello di Germania e si piegò in una curva interrogativa che domandava spiegazioni.

Bulgaria non diede tempo a Germania nemmeno di socchiudere le labbra. “Non sono cieco, sai?” disse, sprezzante, e tornò con le braccia annodate al petto, le spalle larghe. “Mi sono accorto di come hai voluto spostare delle tue armate su di lui,” alzò il mento, indicò Romania, “e questo ancora prima che Italia partisse per i fatti suoi. Quindi è un affare che non c’entra con lui, ma c’entra con te.”  

Gli occhi intimiditi di Romania tornarono bassi, nell’ombra. Romania si chiuse nelle spalle, assunse un’aria dubbiosa, meditabonda, e si rosicchiò l’unghia del pollice fissando il pavimento. Però sulle armate... I denti affilati insistettero sull’unghia, pizzicarono la carne del polpastrello facendo uscire una gocciolina di sangue. Potrebbe avere ragione. Il sapore ferroso gli punse la lingua.

Bulgaria posò di nuovo la mano sul tavolo, sfiorò uno dei documenti e abbassò lo sguardo per raddrizzare il fascicolo. “E adesso salta fuori tutta questa insistenza per appropriarti del mio territorio,” guardò le carte, disgustato, “solo per risolvere una stupida campagna contro un nemico che saresti in grado di torcere in un paio di settimane anche usando solo un terzo delle tue risorse.”

Germania fece viso di marmo, occhi di pietra, sguardo ghiacciato che non si smuoveva da quello di Bulgaria. Irremovibile come un panzer piantato con i cingoli nel terreno.

Bulgaria tornò a fissarlo negli occhi. La sua voce si fece di colpo seria, il tono di irritazione sbiadì e lasciò un sottile tremolio di timore. Gli occhi ancora ardevano. “Perché ti servono i Balcani?”

Germania non rispose.

Bulgaria gli si piazzò davanti, dentro la sua ombra. Aggrottò le sopracciglia e sollevò la fronte. “Cos’hai in mente di scatenare per avere bisogno di una copertura così ampia nell’Est Europa?”

Romania passò a rosicchiare l’unghia dell’indice, lasciando il pollice sbavato di sangue. Guardando Bulgaria immerso nell’ombra di Germania, con il mento alto, i piedi leggermente flessi sulle punte, e le spalle larghe, sentì fiorire nel cuore un profondo senso di impotenza.

Bulgaria sbuffò e gettò lo sguardo al pavimento. I capelli caddero sugli occhi, e lui fece schioccare la lingua fra i denti. “Tu ci farai suicidare tutti.” Le spalle tremarono, tradirono la scheggia di paura che gli si era conficcata nel petto.

Germania abbassò le palpebre e prese un breve respiro che sciolse la rigidezza della fronte. La sua espressione si distese. “Primavera, Bulgaria.” Strinse le mani dietro la schiena e fece un passo di lato, tenendo Romania inglobato nella sua ombra. “Non potrò dare inizio alla campagna di recupero delle truppe italiane fino a primavera.” Posò una mano sul tavolo, carezzò la Direttiva 18. “Nel frattempo, ti offro l’occasione di pensarci e di riflettere sulla tua condizione.” Stese le dita sulla cartella, sollevò gli occhi verso Bulgaria. Occhi che sembravano frecce di ghiaccio scoccate in mezzo al buio. “Pensala come vuoi su quello che sto organizzando, ma la mia unica priorità, per ora, è salvare Italia.” Serrò la mano. Le ossa scricchiolarono, le unghie graffiarono la carta, la pelle gemette come se fosse stata avvolta da un guanto. La sua voce fu come una soffiata di aspro vento invernale che scava nella carne e stritola le ossa. “E non credere che non sarò disposto a ridurti in cenere come Polonia pur di riuscirci.”

Romania sbiancò. Sentì la bocca diventare secca e amara, lo stomaco torcersi in un nodo che gli diede il voltastomaco.

Come Polonia...

Il paese divorato dalle fiamme; la grigia pioggia di cenere che ricopre i tetti delle case, le strade, i campi; le cappe di fumo che risalgono il cielo come artigli che si aggrappano alle nubi; i detriti degli edifici sparsi come le rocce di una frana, illuminati dai bagliori degli incendi; il sangue sparso a fiumi che scorre come una rete di ruscelli scarlatti e fumanti.

Romania gettò lo sguardo su Bulgaria, senza accorgersi di essere impallidito e di aver assunto un’espressione di supplica.

Bulgaria flesse il capo di lato, mostrando la guancia a Germania, e gli lanciò un’occhiata obliqua. Lui non aveva battuto ciglio. “Tutto questo macello per un alleato solo che meriterebbe di essere lasciato lì dove sta.”

“È il mio alleato,” rispose Germania. “Non una semplice pedina,” squadrò Romania, considerando la sua presenza per la prima volta, “come avete deciso di esserlo voi.”

Il terrore divenne vergogna. Romania tornò a nascondersi nell’abbraccio delle sue stesse spalle, ferito.

Germania tornò su Bulgaria. “Non sarai tu a impedirmi di salvarlo,” disse, “e io ti sto dando l’opportunità di salvare anche te stesso.” Fece due passi di lato, e il suono dei tacchi che battevano sul pavimento disciolse la fitta tensione che si era condensata nell’aria. “Hai ancora un paio di mesi per pensarci, Bulgaria. Rifletti.”

“E se continuassi a rifiutarmi?” sbottò Bulgaria. “Accetteresti di disintegrare una pedina come se niente fosse?”

Germania socchiuse le palpebre e fece sguardo indifferente. “Meglio una pedina in meno rispetto a una che non posso utilizzare e che ingombra spazio prezioso.” Si voltò, dandogli la schiena, e lasciò tutto sul tavolo. Gli scoccò un’ultima ma profonda occhiata da sopra la spalla. “Ti lascio i moduli.” Mosse il primo passo, lo stese verso l’uscita, e camminò lontano portandosi dietro lo schiocco lento, profondo e cadenzato delle suole degli stivali e lo scricchiolio del cuoio.

Romania si strinse nelle spalle e gli andò dietro come un anatroccolo che zampetta per stare sotto l’ala della mamma. Anche i suoi occhi scivolarono all’indietro per un’ultima volta, un po’ avviliti e un po’ arrabbiati, e si incrociarono con lo sguardo di Bulgaria. Lui teneva ancora il mento alto, lo sguardo inorgoglito e gonfio di testardaggine che gli lanciò un ammonimento dalla penombra. Romania aggrottò la fronte, un canino scintillò, mimando un sottilissimo ringhio, e ricambiò il favore.

Bulgaria si girò mostrandogli la schiena e le spalle larghe e rigide. Allungò anche lui una prima falcata, si diresse verso la seconda porta dall’altro lato della camera. I documenti lasciati a giacere sul tavolo, dimenticati come le foglie secche che riempivano i bordi delle stradine di sterrato.

Germania arrivò alla porta, Romania al seguito. La aprì con uno schiocco di serratura, uscì, e non la chiuse. Non si voltò nemmeno a guardare se Romania lo stesse seguendo.

Romania agguantò la maniglia. Le dita avvolsero il pomello d’ottone, le unghie stridettero, la pelle già bollente e unta di sudore fece attrito sollevando un gemito simile a quello della plastica stirata.

“Non mi inginocchierò mai a leccarti i piedi come sta già facendo mezza Europa.”

La presa di Romania strinse fino a bruciare, come se la maniglia stesse andando a fuoco.

“O aderisci all’Asse e contribuisci pacificamente al flusso delle truppe tedesche verso Grecia. O accetti di venire schiacciato da me quando le farò comunque passare.”

I denti scricchiolarono, emisero il suono di granelli di sabbia sbriciolati fra i molari.

“Preferisco spezzarmi che piegarmi a te.”

Un brivido di nervoso attraversò il braccio, riaccese la fiammella che bruciava nel petto e gli faceva ardere gli occhi.

Romania richiuse la porta senza uscire. Clack! Girò il pomello, fece scattare la serratura, sigillò l’entrata.

Si voltò di scatto e marciò a passo pesante verso Bulgaria, fronte bassa. Superò il tavolo dove prima si erano riuniti, gli arrivò alle spalle finendo inondato dal raggio di luce che entrava dalla finestra. Stese il braccio prima che Bulgaria potesse voltarsi, scosso dal suono della sua camminata. Gli afferrò il polso con la stessa forza con cui aveva stretto la maniglia.

Bulgaria si rivoltò come un cane a cui hanno tirato la coda. Sorpresa e intontimento gli scossero lo sguardo. “Che stai...”

Romania gli tirò il braccio, lo spinse verso il muro e lo agguantò per la giacca. Lo sbatté alla parete, la nuca fece un suono sordo – sbam! – e Bulgaria emise una smorfia per trattenere un gemito.

I pugni di Romania premettero contro il suo busto, le dita stritolarono la giacca, e la pressione delle nocche contro lo sterno lo costrinse a schiacciare le spalle al muro e a sollevarsi sulle punte dei piedi.

Gli occhi di Romania si infiammarono, furiosi, e il sottile ringhio delle labbra snudò i canini fino alla radice della gengiva. Scintillarono. “Si può sapere che diavolo ti dice la testa?” Le mani che tenevano Bulgaria spiaccicato al muro tremavano di rabbia.

Bulgaria lo fulminò. “Togliti.” Gli strinse un polso e diede uno strattone di lato con le spalle, scivolando sul muro.

Romania trattenne un ringhio e tornò a dargli un colpo di pugni sulle ossa dello sterno, bloccandolo. “Sei impazzito o cosa?” Avvicinò il viso. Gli occhi che luccicavano di rabbia tremarono assieme alle dita sbiancate e strette alla giacca di Bulgaria. Restrinse le palpebre, abbassò la voce che stridette come un gemito. “Vuoi farti ammazzare?”

Bulgaria fremette sotto un impeto di rabbia che gli fece bollire il sangue e battere le vene contro le tempie. Strinse le dita sul polso di Romania che aveva afferrato e gli strappò la mano dalla presa. “Toglimi le mani di dosso,” abbaiò.  

Romania scattò di un passo all’indietro, ritirò il braccio, e Bulgaria scese dalle punte dei piedi, scollando le spalle dalla parete. Sbuffarono entrambi, guardandosi come bestiacce che hanno appena staccato le zanne uno dalla gola dell’altro. Romania sciolse il formicolio che pizzicava ancora fra le dita e dentro i palmi, sentì gli scoppiettii di piccole scosse elettriche spargersi attraverso la pelle, dissolversi in una nebbia di tensione elettrica. Si voltò di profilo, celando lo sguardo nell’ombra. Solo gli occhi a brillare ancora come fiaccole, a premere su Bulgaria e a far scintillare le punte dei canini.

Bulgaria sollevò la punta del mento. Spolverò la giacca e la lisciò nel punto che Romania aveva stretto, sgualcendogliela, e rimase a spalle dritte. Fece un breve passo, allontanandosi dal muro. “Mi rendo perfettamente conto di quello a cui sto andando incontro.” Strinse le braccia al petto, le dita tamburellarono. “Riconosco la mia posizione ma riconosco anche la tua.” Si fermò e lanciò un’aspra occhiata di sfida e sprezzo a Romania, a fronte increspata. “E so anche che non voglio finire come te.”

Romania ricacciò fuori i canini. “Stai zitto,” sputò. “Tu...” Non riuscì a tenere gli occhi alti, un peso gravava sulle spalle e dentro il petto. Voltò la guancia, i capelli ricaddero sul viso, un tremito indebolì la voce. “Tu lo sai perché lo faccio.”

Bulgaria sbuffò con un acido tono di beffa, e alzò gli occhi al cielo. “Per chi?” sghignazzò. “Per Moldavia?”

Un’altra pugnalata al cuore, di nuovo l’immagine di Moldavia. Gli sorrideva appeso alle sue gambe, le manine alte e nascoste sotto le maniche troppo larghe, le punte dei piedini tese che saltellavano sul posto per farsi prendere in braccio.

Romania si chiuse nelle spalle e voltò il capo, nascondendo il fremito delle labbra che sbiancarono sotto la pressione delle punte dei canini. Ora era lui quello con le spalle schiacciate al muro.

Bulgaria prese un respiro refrigerante che gli fece rilassare la tensione sulle spalle. Le dita tamburellarono un’altra volta contro gli avambracci e si strinsero, il suo sguardo si posò a terra e divenne più rigido e biasimante. “Ti sei fatto impietosire come un essere umano e hai accettato che usassero Moldavia come tua debolezza.” Strinse i denti, sopprimendo l’amarezza delle sue stesse accuse. “Meriti davvero di giacere sul fondo di fango in cui sei caduto.”

Romania digrignò la mandibola, stritolò i pugni fino a sentire di nuovo le unghie bruciare dentro la carne. “Tu...” Gli lanciò lo sguardo addosso. Gli occhi tremavano ancora, ma per un altro motivo. “Tu stai rischiando di scomparire anche senza l’aiuto di Germania, lo sai?”

Bulgaria irrigidì. Un breve sussulto gli scivolò fuori dalle labbra socchiuse, lo fece tentennare. Storse un sopracciglio, sguardo ostile e cauto, e incrociò quello di Romania. “Cosa?” Sembrò una minaccia.

Romania inspirò fino a gonfiarsi il petto. Il viso riprese colorito e i segni di stanchezza attorno agli occhi accentuarono il colore infuocato delle iridi, lo rese più temibile. “Noi...” Una mano ancora stretta a pugno tremò. Romania sciolse la pressione delle dita, sollevò il braccio e si posò il palmo sul petto. Lo sguardo si intiepidì, gli occhi si riempirono di una luce malinconica. “Noi abbiamo questa forma,” fece una lieve pressione sul petto, sopra il battito del cuore, “proprio per ricordarci di tenere fede al nostro lato umano oltre che a quello che rappresentiamo.” Sugli occhi tornò quel barlume di minaccia che dava la sensazione di avere le punte dei suoi canini piantati nel collo e il suo fiato che batteva sulla pelle, inumidendola. “Di cosa mi stai accusando?” sbottò. “Di avere agito da cattiva nazione solo perché ho preferito rimetterci io piuttosto che lasciare che facessero del male a mio fratello?”

Bulgaria pestò un passo in avanti e anche lui stese le braccia lungo i fianchi. “Sì,” esclamò, “perché tu hai messo la tua nazione in pericolo per salvarne un’altra.” Arricciò una smorfia con la punta del naso e gettò lo sguardo in disparte. “Io non mi dimentico del mio lato umano,” socchiuse le palpebre, “ma do più importanza a quello da nazione.” Inspirò a lungo, abbassò la voce. “Com’è giusto che sia.”

Romania si dovette mordere il labbro e incollare i pugni ai fianchi per trattenere l’impulso di scaraventargli un cazzotto sulla guancia.

Bulgaria fece un altro passo di lato, la sua ombra lo seguì scivolando sulla parete, lo sguardo basso rivolto al pavimento divenne più scuro, ma la voce ebbe un sussulto. Toccò uno dei fascicoli, il polpastrello scivolò lungo la carta. “Credi davvero di avere messo Moldavia al sicuro con la tua decisione?” Si fermò. Dava le spalle a Romania, gli occhi nascosti dalla penombra dei capelli andarono verso il tavolo dove teneva l’indice posato sulla cartella. Socchiuse le palpebre. La sua voce divenne bassa e tetra quasi quanto quella di Germania, da far vibrare le viscere. “Perché lo hai capito anche tu, vero?”

Romania piegò un sopracciglio, la puntura di una scossa elettrica lo morse alla base del collo. Non disse nulla, ma un brivido di anticipazione lo punse come uno spillo.

Bulgaria tornò a voltarsi. I pugni stesi lungo i fianchi, il viso rilassato ma serio, solo una guancia illuminata dal riverbero del sole autunnale che scivolava sui suoi capelli scuri e concentrava la luce nel chiarore delle iridi.

Ci fu silenzio. Fuori il vento soffiò, scosse le cime degli alberi spogli sollevando un fruscio lento e rilassato, infranto solo dal piccolo canto di un uccellino. L’aria si ritirò, trascinò una nuvola davanti al sole, rabbuiando la camera e lo sguardo di Bulgaria.

Solo allora parlò.

“Hai capito meglio di me che Germania sta schierando la scacchiera per preparare un’invasione contro Russia.”

Romania ebbe la sensazione nauseante del fiato che si incastrava in gola e che precipitava in fondo allo stomaco come una sfera di piombo. Socchiuse le labbra. La gola era secca, la voce arida. “È...” Si affrettò ad allontanare lo sguardo, i pugni strinsero e vibrarono.

Il peso delle sue stesse parole scagliate contro Germania durante la loro ultima riunione gli arrivò addosso come una secchiata di sassi.

“Ci hai abbindolato per bene facendoci credere di star semplicemente manipolando dei territori già sotto il tuo comando, in realtà il tuo piano è sempre stato quello di invadere Russia.”

“Potrebbe,” si strofinò un braccio, soppresse i brividi di paura, “potrebbe essere un malinteso,” disse di colpo. “Loro due sono alleati e...”  

“Ah, buona questa,” sbuffò Bulgaria. Fece roteare lo sguardo e storse una smorfia di disgusto, stringendo la punta della lingua in mezzo ai denti. “Alleati...” Camminò lungo la parete, seguito dallo sguardo di Romania, e tornò a proteggersi il petto con le braccia. “In tempi come questi, le alleanze durano meno delle rivalità, e sono anche più sicure. Per lo meno non sei costretto a riporre fiducia nell’avversario e non rischi di essere pugnalato alle spalle.”

Si piazzò davanti a Romania, pestò le suole trasmettendogli una vibrazione attraverso l’aria, e gli fece risalire i brividi lungo le gambe.

Bulgaria lo guardò dritto negli occhi. Uno sguardo adulto che non lo stava prendendo in giro. “Se Germania dichiarasse guerra a Russia, tu diventeresti un nemico di Moldavia.” Si accigliò. “Come farai, allora? Ti lascerai uccidere piuttosto che fargli del male?”

Un lampo di luce trascinò Romania a quel giorno, a quando era incollato alla sedia, con lo sguardo chino davanti alla figura di Germania in piedi davanti a lui, a tremare di rabbia a umiliazione.

“Se vi trovaste uno di fronte all’altro, sul campo di battaglia, come puoi essere sicuro che non sarà Moldavia quello che attaccherà per primo?” Le parole lo colpirono con la stessa violenza di quel giorno, dritto allo stomaco. “A quel punto non ti difenderesti? Preferiresti morire?”

Morire...

Romania guadagnò una briciola di coraggio che accumulò nel petto, attorno al cuore gonfio di dolore. Sollevò il mento e fece viso gelido. “In quel caso,” lo squadrò dall’alto, glaciale, “se Russia dovesse vincere, allora io potrei passare dalla sua parte come nazione conquistata, e potrei stare di nuovo vicino a Moldavia.”

Gli occhi di Bulgaria si colmarono di disprezzo. “E per quanto tempo intendi continuare questo gioco?”

Romania sussultò ma non rispose.

Bulgaria avanzò di un passo, lo fece arretrare. “Per quanto tempo accetterai di essere un fantoccio sbattuto da una parte all’altra e non una nazione libera?”

Romania socchiuse le labbra, sentì tutto il sapore di quella parola entrargli in bocca, riempirgli le guance. “Libertà,” mormorò, con una punta di disgusto. Aveva un sapore ferroso, viscido e amaro, che torceva le budella. Aveva il sapore del sangue. Romania lanciò un’occhiata ardente a Bulgaria. “Io sarò un debole, ma tu sei un illuso.”

Bulgaria allontanò il viso, ancora troppo arrabbiato per offendersi.

Romania lo guardò con occhi severi. “Credi che sarà la tua libertà a salvarti?” Aprì un braccio di lato, indicò la porta stendendo la mano e abbassò la voce. “Cosa farai quando Germania avrà sotto i piedi tutta l’Europa e non avrà altro da fare che schiacciare anche te?”

Bulgaria sbuffò, sollevò la punta del naso e nella sua voce tornò il rauco tono di arroganza. “Per lo meno morirò portandomi nella tomba quella cosa che vi state tutti facendo soffiare da sotto il naso.” Arretrò di un passo, si immerse in un raggio di luce polverosa che strisciava dal vetro della finestra. Un braccio steso lungo il fianco, il pugno chiuso. Bulgaria sollevò la mano libera e la posò sullo sterno. Sollevò lo sguardo fissando Romania con solenne superiorità. “La dignità.”

Romania si strinse nelle spalle. Quello sguardo e quella parola lo schiacciarono come un macigno piovuto dal soffitto.

Bulgaria prese un breve respiro. “Voi tutti ve la state facendo così tanto sotto per paura di crepare da soli, che accettate di essere inglobati nel risucchio di Germania.” Si voltò di profilo, spinse già un piede verso la seconda uscita della camera, e guardò Romania di traverso. “Godetevi la vostra nuova ‘vita’, se si può definire tale,” sventolò una mano e gli diede le spalle, “ma non sarò io ad accettarla e a sottomettermi.” Allungò i primi passi, se ne stava andando.

Romania strinse i denti, li sentì premere e tremare contro il labbro. Pestò un passo in avanti, alzò la voce. “Lo stai facendo per la dignità della tua nazione o per la tua dignità?”

Bulgaria si fermò.

Fuori il vento fischiò, le poche foglie secche rimaste sugli alberi frusciarono emettendo il suono della carta che viene stropicciata, e i ramoscelli scricchiolarono.

Gettò il capo all’indietro, inviò un’occhiataccia secca, schioccante e luminosa come uno schioppo di tuono che Romania sentì a malapena, lo toccò come un fiocco di neve.

Lo sguardo di Romania rimase freddo. Sospirò, e la sua voce si velò di una sfumatura comprensiva. “Chi è che sta pensando solo a se stesso, ora?”

Bulgaria tornò a dargli le spalle. “Piantala di preoccuparti per me,” gli ringhiò contro, senza guardarlo in viso. “Hai già due nazioni a cui badare, mi sembra.”

Romania sentì due fiammate di fuoco ruggire in mezzo ai pugni. Gli corse addosso, lo raggiunse in tre falcate, e lo agguantò per la spalla. “Ma non capisci...” Lo voltò di colpo e tornò a sbatterlo contro la parete.

Le dita serrate sulla spalla spingevano contro l’incavo del collo, costringevano Bulgaria a tenere il capo leggermente flesso di lato e il volto stropicciato dalla presenza del pugno che gli vibrava a una piuma dalla guancia.

Lo sguardo furioso di Romania vacillò, gli occhi si inumidirono di un’espressione triste. “Ma non capisci che io ti sto dicendo tutto questo per,” si morse il labbro, gli angoli della bocca toccati dai canini si incurvarono verso il basso, “perché non voglio...” Il pugno strinse così tanto che avrebbe potuto frantumare una roccia sotto la sua pressione. Romania gli diede un piccolo colpo alla spalla, spingendolo all’indietro con il pugno. “Io non voglio che ti uccida,” esclamò d’un fiato.

La tensione sul volto di Bulgaria si ammorbidì, pur rimanendo quella sporca traccia di presunzione. Lui spostò gli occhi a terra, celando il velo di colpevolezza che era salito ricordando le parole che gli aveva scagliato addosso prima.

Romania abbassò la fronte, arreso. “E ti ucciderà.” La pressione delle dita allentò, le nocche scivolarono giù dall’incavo del collo di Bulgaria. “Germania ti ucciderà se non fai quello che vuole.”

Bulgaria continuò a non guardarlo in faccia. “Allora lascerò decidere alla Storia se risparmiarmi o meno.” Parlando, il suo corpo vibrò sotto la presa di Romania.

“Non lo farà.” Il tono di voce di Romania sbiadì come lo sguardo. “La Storia non è così.” Scosse le spalle, rassegnato. “Certe cose o le accetti o ti travolgono. E a volte...” Inspirò, trattenne il fiato, lo sentì gelarsi nel petto, e sospirò. “A volte nemmeno lottare serve a qualcosa.” Fu il primo di loro due a sollevare gli occhi. Erano tristi e lucidi come quando pensava a Moldavia, sciupati e stanchi come quando Germania gli aveva sottratto il territorio. “E io non voglio vederti morire. Non in questa maniera, non per un motivo così stupido.”

Il respiro di Bulgaria si fece più lento e profondo. Anche il suo viso celato nell’ombra si rivestì di una maschera di rassegnazione. “Mi dispiace, ma...” Gli posò la mano sul polso, strinse, e fece pressione per far scivolare via la presa. “Non credo che tu abbia più una qualche influenza su di me.” Si staccò le dita di Romania dalla spalla.

Romania si spinse di un passo all’indietro, incassò un’altra ferita nel cuore. Nascose il viso per far notare gli occhi inumiditi, e tirò fuori una voce rauca e graffiante, accesa di rabbia. “Bene.” Si strofinò una manica sugli occhi, stropicciando la pelle sciupata e asciugando via il luccichio acquoso incastrato fra le ciglia. Gettò via il braccio dal viso, serrò il pugno contro il fianco. “Allora spero ti massacri,” esclamò, “spero ti passi sopra con tutto l’esercito dei panzer e che ti riduca a farina d’ossa!”

“Bene!” Bulgaria schiacciò un passo contro di lui, le guance si incendiarono di rabbia. “E io mi auguro che tu sia lì a guardare, quando vedrai morire sotto i tuoi occhi la prima scintilla di ribellione che crepa solo perché è circondata da un branco di vigliacchi!”

“Bene!”

“Bene!”

Bene!” Romania si girò con una mezza piroetta, facendo singhiozzare il pavimento, e imboccò l’uscita. “Me ne vado,” brontolò.

Bulgaria ridivenne scuro in viso, offeso. “Ah, no che non te ne vai,” lo seguì pestando i passi, “sono io che ti sbatto fuori!”

Romania si appese alla maniglia, la tirò verso di sé e spalancò la porta che andò a sbattere sul muro, rimbalzò e tornò indietro. Uscì e agguantò il pomello esterno, più freddo, che fece attrito sulla pelle sudata. Bulgaria afferrò la maniglia interna sovrapponendo entrambe le mani e spinse le spalle all’indietro, richiamando il peso della porta e quello di Romania.

“Mollala,” disse, tenendo i denti stretti per lo sforzo, “te la chiudo in faccia!”

Anche Romania giunse entrambe le mani, strinse quasi volesse sciogliere l’ottone fra le dita, e tirò dalla sua parte gettando anche lui le spalle all’indietro. “Sono io che la chiudo in faccia a te!” Le guance si chiazzarono di rosso, piccole increspature si infossarono attorno agli occhi strizzati.

Bulgaria si spinse indietro con i piedi, forzò i polpacci, sentì le ginocchia scricchiolare per lo sforzo. Le braccia cominciarono a far male, i muscoli a tremare. “E lascia, brutto...”

Romania socchiuse un occhio, gli cadde a terra, nel punto in cui i suoi piedi e quelli di Bulgaria quasi si toccavano. Allentò la presa, piegò le spalle in avanti e sollevò un ginocchio. Atterrò con il piede su quello di Bulgaria, schiacciandolo sotto la suola.

“Ahu!”

Il viso di Bulgaria si contrasse più di sgomento che di dolore. Bulgaria staccò le mani dal pomello e tirò su la gamba, a stringersi la caviglia.

Romania storse un mezzo ghigno di soddisfazione e sbatté la porta davanti a sé.

Slam!

Il muro scricchiolò, una fine pioggerellina di intonaco cadde dalla parete e si depositò a terra, davanti al piede su cui Bulgaria si teneva in equilibrio. L’ondata d’aria sollevata dalla chiusura della porta gli fece sventolare i capelli all’indietro, scoprì le guance scure di collera e irritazione.

Bulgaria strinse sia i denti che le dita ancora allacciate ancora alla caviglia.

Posò il piede a terra, caricò un calcio e colpì la porta. “Ghn!” Si immaginò che fosse lo stinco di Romania.

 

.

 

Romania discese le scale dell’edificio, fece due gradini alla volta, correndo. Il vento che odorava di fumo e di legno bagnato gli sbatté in faccia, agitò i capelli contro gli occhi, sulle labbra ancora increspate e bianche sotto la pressione dei canini, e addosso alle guance ancora rosse per la sfuriata. Foglie secche gli rotolarono in mezzo alle gambe, scricchiolarono sotto la sua camminata pesante. Romania sollevò un braccio per ripararsi dal soffio del vento che gli ululava nelle orecchie, intrecciò le dita ai capelli, li scostò dalla fronte, dietro l’orecchio, ma un’altra gettata di vento glieli fece tornare sul viso.

Saltò giù dagli ultimi due gradini di pietra. L’auto aspettava in fondo alla stradina, una sagoma scura attendeva immobile e dritta in piedi alla fine della scalinata.

Romania gli passò vicino senza nemmeno guardarlo. “Non credo che aderirà all’alleanza.” E calpestò la stradina di ghiaia. La voglia di saltare in auto e andarsene di lì bruciava sotto i piedi come un tappeto di braci roventi.

Germania sollevò lo sguardo, seguì con gli occhi la camminata nervosa di Romania, i suoi pugni chiusi, le sue spalle strette, che si rimpiccioliva lungo la vietta. Socchiuse le palpebre, tenne le braccia incrociate al petto, e lo seguì. Le spire di freddo e pungente vento di fine novembre accolsero la sua camminata lenta, lo accompagnarono via dall’ombra dell’edificio. Germania non riuscì a ignorare quel granulo di soddisfazione che gli rese il cuore un poco più gonfio. 

   
 
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