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Autore: Sharkie    21/08/2016    10 recensioni
(CLEXA Sci-fi!AU) E' una bella giornata quando l'ingegnere Reyes ed il Rettor Jaha entrano in un localino affollato per proporre alla neo dottorata in psico-criminologia Clarke Griffin di partecipare ad un progetto a dir poco singolare: studiare la reazione psicologica di un'agente delle Forze Speciali ad un particolare "dispositivo" impiegato per il suo addestramento. 
Non passerà molto tempo perchè Clarke capisca che la situazione è un tantinello più complicata di così.
Che cos'è questo dispositivo?
Chi è davvero la sua paziente e in cosa consiste l'addestramento?
E sopratutto, perchè, lei che è sempre stata così brava a leggere le persone, tutto a un tratto trova quella ragazza così dannatamente indecifrabile?
.................................
"Lei la ricordava bene quella sensazione.
Era stato doloroso, qualcuno avrebbe detto “come morire” ma è chiaro che nessuno al mondo ancora in grado di parlare ha davvero cognizione di quello che significa questa frase.
Forse solo lei avrebbe potuto dire qualcosa al riguardo, se solo avesse ricordato.. ricordato del prima.. 
Ma all'epoca non sapeva nemmeno di doversi sentire qualcuno.
All'epoca non sapeva niente."
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Becca, Clarke Griffin, Lexa, Raven Reyes
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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[Angolo dell’Autrice:] Ehm salve ^^”

Volevo ringraziare -ma no, davvero?- tutti quelli che finora hanno letto e recensito la mia storia e che hanno deciso di seguirla e un super grazie iperspecialissimo conbacioaccademicoenon alle mie dolcissime amiche che mi supportano e che mi invogliano a continuare questa storia! Questo chap è per voi :*
E’ un periodo abbastanza complicato, I mean, mi sono appena trasferita in Francia per questioni universitarie e quindi trovo poco tempo per me.

Se non sono al lavoro, sto rassettando camera, facendo la spesa o chissàchealtro, quindi.. gnente, volevo solo avvertirvi che probabilmente -mooolto probabilmente- sarò davvero lenta ad aggiornare.
Però fortunatamente avevo già il secondo capitolo fatto, quindi, ecco, lo posto.
Fatemi sapere se è una cacchina, al solito, con tanta nonchalance mi raccomando.
Vivvibbì

PS: ah e vi volevo anche avvertire di quest’altra cosa: come avrete notato qua e là ci sono dei cambi di scena. Ora.. mi rendo contro che potrebbero essere confusionari per qualcuno quindi fatemi sapere se ve li devo notificare in qualche maniera..

 

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« Clarke.. detto sinceramente, a me non è che piaccia chissà quanto questa idea. E potevi dirmelo prima. » disse buttando il grembiule sul tavolo con un gesto nervoso.
Finn era abbastanza incazzato per la questione, come lei aveva perfettamente previsto.

Per questo aveva deciso di dirglielo prima di cena, durante il momento della giornata in cui, in genere, era sempre di buon umore: quello in cui cucinava per lei.
Ma lui non era suo padre, non era il suo tutore e -anche se fosse stato- a ventisei anni non aveva più bisogno di chiedere permessi a nessuno.

Nonostante tutto, Clarke optò per la cosiddetta strategia della “Gatta Morta” -mai fallimentare a memoria di donna- per farsi perdonare. Quindi, dopo averlo circondato da dietro con un abbraccio, miagolò a regola d’arte un:
« Finn.. lo so che ti preoccupi per me ma sta’ tranquillo. Poi al massimo ti faccio una chiamata al cellulare e mi vieni a salvare, da bravo supereroe.
Facciamo, come un.. Captain America? Ah no, tu sei.. come si dice.. del TeamStark. Questa cosa non la capirò mai. Il Capitano è un bellissimo fusto..» ridacchiò affondando il viso nelle sue spalle.
Lui amava i supereroi, altra carta da giocare per ammorbidirlo un po’ e per far passare quella faccenda in secondo piano.
Se non avesse funzionato manco quello, beh, avrebbe sempre potuto sfoderare “l’arma definitiva”. In altri termini -giusto per restare in tema Superhero-movie- il pulsantone rosso dei litigi, l’autodistruzione delle litigate, quello da premere per radere al suolo ogni “se” ed ogni “ma”..

Quella notizia però doveva averlo sconvolto abbastanza, perché nemmeno i riferimenti Marvelliani riuscirono a distrarlo:

« Questa “collaborazione” con le Forze Speciali.. questo dispositivo.. - era tutto quello che per contratto aveva potuto rivelargli - ..mi sa di roba militare. E non mi piace l’idea che tu stia con quella gente. Lo sai. »
Oh, se l’era presa per davvero allora..
Finn ruotò tra le sue braccia fino a guardarla in faccia. Aveva davvero un’espressione serissima. Clarke si sforzò di non alzare gli occhi al cielo, e mise su il tono più calmo che poteva:
« Ascolta.. sto prendendo un dottorato in Criminologia.. che ti aspettavi? Poteva succedere, insomma, non è la prassi lo so.. ma si, si, lo so che non è lo stesso che stare in uno studio pieno di fascicoli e andare in tribunale a deporre.. - si affrettò ad interromperlo che apriva bocca per controbattere -..ma ti assicuro che non mi invischierò in cose che non mi competono. Promesso. Andrò lì, stilerò il mio bel quadro psichiatrico della ragazza e sarà tutto qua. Nessun contatto con l’esercito, niente di niente. » disse guardandolo dritto negli occhi.
Poi, dato che lui continuava a tacere, continuò, cercando di dargli il colpo di grazia con due occhi da cucciolo che gli riservava solo per quelle occasioni:
« Sembra una grande opportunità.. e tra l'altro.. - aggiunse, allargandosi in un sorrisetto furbo -..il progetto si svolge in una casina proprio carina. Dovresti vederla, magari potremmo prenderla simile.. sai..»

Finalmente il ragazzo sembrò sciogliersi in un sorriso, anche se tirato, e lei lo sentì rilassarsi tra le sue braccia.
« E va bene » sospirò abbracciandola forte e affondando il naso nel suo collo.
A Clarke salirono dei brividi lungo la schiena fino alla base del cranio.
« Mai che si possa dire a Clarke Griffin cosa fare o non fare. » rise lui, ancora un po’ amareggiato.

Lei lo sentiva, il suo disappunto, ma non poteva farci molto. Non era abituata a cambiare i suoi piani per fare un favore a qualcuno, anche se quel qualcuno era il suo ragazzo.
Però poteva rendergli la sconfitta meno amara.

Perciò lo tirò a sé e spinse quel bottone rosso.
 

****

 

Sua madre l'aveva sempre presa il giro per il ruggito che cacciava il suo stomaco quando era affamata.
« Come se non avessi fatto colazione tre ore fa! La maestra delle elementari arrivò a chiedermi se ti tenessi a stecchetto.. quasi mi trovavo nei guai per maltrattamento di minori.. ti immagini? - rideva la donna - Prima o poi combinerai qualche guaio con quel rumoraccio! Magari fai venire un colpo a qualcuno! “Omicidio preterintenzionale, arma del delitto: fame rumorosa acuta” »
Clarke sorrise al ricordo.
Eppure quel giorno il suo stomaco non solo non uccise nessuno, ma la salvò pure dal fare ritardo il suo primo giorno di lavoro.
Si svegliò con Finn che le stava addosso nudo, il braccio attorno alla vita e il respiro ancora pesante nel suo orecchio.
Se c'era qualcuno che certamente non sarebbe mai morto di infarto per il brontolio assassino del suo stomaco, quello era di certo lui.
Dopo una notte di sesso avrebbe potuto dormire anche in mezzo a un campo di battaglia, tra spari e esplosioni.

Già se lo immaginava a svegliarsi con l’aria beata proprio di fianco ad un cratere gigante.
Se lo spostò di dosso senza troppi complimenti e si diresse in cucina per fare colazione con le prime cose che si sarebbe trovata a portata di mano. Se Finn fosse stato sveglio le avrebbe preparato pancakes ai mirtilli, uova strapazzate e succo d’arancia, ma lei era troppo pigra -lo era sempre stata a prima mattina- e così afferrò diversi biscotti dalla dispensa e li innaffiò col caffè avanzato del giorno prima, dopo averlo scaldato al microonde.
La cena era saltata, ma almeno non le avrebbe tenuto il muso per un po’.
Clarke si complimentò con sé stessa per l'ottimo lavoro di persuasione -in realtà si sentiva un po’ un verme ogni volta che usava quella tattica subdola, ma alla fine ne uscivano vincitori entrambi e questo era l'importante- e dopo aver lanciato uno sguardo affettuoso al ragazzo mentre si vestiva velocemente, uscì di casa.

Trenta minuti dopo era di nuovo alla tenuta, con una sensazione del tutto diversa da quella che l'aveva accompagnata la prima volta. Durante tutto il tragitto non aveva fatto altro che pensare a cosa dire, come comportarsi, cosa chiedere..
Era meglio un approccio classico? Avrebbe fatto lei delle domande? O sarebbe stata l’agente a fornirle direttamente tutte le risposte?
Rebecca non le aveva dato direttive specifiche, quindi avrebbe dovuto capire sa sola come agire e a cosa prestare attenzione e tutta questa “libertà” la mandava su di giri.

Quel “qualcosa” che la eccitava la faceva sembrare nervosa, impaziente.
Girò le chiavi che le aveva dato la dottoressa nella toppa ed entrò.

I primi passi in quella casa furono silenziosi in maniera inquietante. Si ricordò che dopo aver varcato il limite della porta la aspettavano mille occhi pronti a registrare ogni suo minimo movimento e la cosa la mise di nuovo a disagio. Percorse il corridoio stringendosi nelle spalle e guardandosi intorno, ma non riuscì a scorgerne nessuna.
Un rumore alle spalle la fece trasalire. C'era Lexa sulle scale, in tenuta da ginnastica che tamburellava con le dita sulla ringhiera di legno massiccio.
Aveva lasciato cadere il borsone sportivo sul comodino e adesso la guardava dalla penombra senza dire una parola.

« Oddio. - soffocò Clarke a labbra strette, poi con un sorriso balbettò - Scusa.. non mi aspettavo.. »
La ragazza rimase in silenzio, continuando a guardarla con la testa leggermente inclinata.
Clarke scosse la testa, andandole incontro:
« Insomma, tu vivi qui! - continuò sorridendo appena - Avrei dovuto aspettarmelo! »
Ancora silenzio. La tipa continuava a guardarla fisso, con l'espressione seria, tamburellando con l'indice sul legno.
Clarke si mordicchiò un po’ il labbro e sospirò un «Già..» rassegnato.

Vedeva i suoi occhi scintillare nel buio e cercava di capire quale fosse il modo migliore di comportarsi di fronte ad un muro di silenzio.
Optò per l’approccio sincero. Qualcosa le diceva che con l’agente era meglio comportarsi nella maniera meno artificiosa possibile:

« Allora, tu sei l’agente Lexa. La dottoressa mi ha spie-- »
« Tu sei quella che deve decidere cosa farne di me. » la interruppe l’altra, inaspettatamente.
La dottoranda boccheggiò per un secondo, colta alla sprovvista.
Cos’era quello... astio?
« ...tu sei il motivo per cui sono qui, si. Ma detto sinceramente non credo di avere chissà quali poteri decisionali sul tuo futuro. » le rispose, guardandola dalla base delle scale.

L’altra tacque di nuovo, ma le scappò un movimento nervoso del sopracciglio.
Curioso.
La penombra era fitta, ma nella casa riuscivano a filtrare alcuni deboli raggi di luce e da quella nuova angolazione Clarke per la prima volta riuscì a cogliere gli occhi della ragazza.
Erano ostili, color guerra: verde militare..

« Allora, sono qui. Che si fa? Preferisci accomodarti in salotto o.. » cercò di chiedere.
« Io vado a fare jogging. Tu non so. » rispose l’agente, scendendo le scale e recuperando l’iPod dalla tasca della felpa.

Clarke sgranò gli occhi. Lexa le passò accanto mentre si infilava gli auricolari nelle orecchie.
« Come? Ma non dovremmo..? » tentò di dirle, seguendola.
L’altra proseguì imperterrita, incurante della bionda che le trotterellava dietro, confusa.
« Aspetta!.. Lexa! » esclamò la ragazza, ma l’altra era già sparita dietro la porta d’ingresso.


****
 

Due erano le cose: o la ragazza era una amante del jogging estremo, oppure proprio non ne voleva sapere di partecipare alla “seduta”, perché dopo quattro ore non se ne vedeva all’orizzonte manco l’ombra.
Per le prime due Clarke aveva optato per la strada della pazienza, per non dargliela vinta, così si era accomodata sul sofà dopo aver dato un’occhiata alla videoteca della casa - non avevano davvero niente. Solo documentari… « Che roba..»  - e si dedicò allo zapping folle, passando da un canale all’altro finchè non approdò su CrimeTV.
Lì si sparò almeno sei episodi tra Hannibal Lecter, True Detective, e altre serie misconosciute tedesche e, nel mentre, cercava di ripetersi di non risponderle in malo modo una volta che quella fosse tornata a casa.

Allo scoccare della terza ora era davvero preoccupata. Che l’avesse travolta un camion?
Chiamò Rebecca, dopo aver lottato con sé stessa: non voleva fare la figura dell’incompetente lagnosa il primo giorno di lavoro, ma non sapeva che altro fare.
E poi.. aveva un paio di domande.

« Credevo che la ragazza fosse consenziente! » esclamò.
« Clarke, non la stiamo violentando, la stiamo studiando.» replicò Rebecca dall’altro capo.
« Insomma.. - si corresse Clarke - credevo che avrei lavorato con un soggetto che ha accettato di sua spontanea volontà. »
« È normale trovare qualche resistenza in un lavoro del genere. Lexa non è intrattabile, devi solo convincerla ad instaurare un rapporto con te. Sono sicura che non avrai problemi, ti serve solo un po’ di tempo. »

Clarke sospirò.

« ...È sparita da tre ore. »
« Sta facendo il giro lungo. L’abbiamo sui nostri monitor, ha addosso un dispositivo di tracciamento, stai tranquilla. » le disse rassicurante la donna.

« Ah. »

Registrata, tracciata al GPS, “studiata” e chissà cosa più.
Iniziava a capire perché Lexa sembrasse così irritata.

« Le mie ore sono quasi finite. » disse al telefono.
« Torna a casa Clarke. Domani andrà meglio » le rispose la dottoressa prima di riattaccare.
Prima di arrendersi all’evidenza, Clarke decise di aspettare ancora un’ora.
Andò al frigo dell’enorme cucina e si sorprese di trovarlo praticamente vuoto.

Solo acqua, qualche uovo e della verdura.
“Ma che diavolo.. questa casa è invivibile.” pensò, mentre apriva tutti i cassetti e le ante che vedeva.
Frugò nella dispensa e trovò finalmente qualcosa di commestibile da mandar giù: pane bianco, biscotti e marmellata di mele.
Ci volle un intero pacco di frollini prima che si rendesse conto che aveva troppa fame per saziarsi con quelli, quindi decise di provare a cucinare qualcosa.

Finn l’aveva sempre tenuta lontana dai fornelli e lei non ne aveva mai capito il perché. Lui diceva che lei era un disastro in cucina quanto geniale nel suo lavoro, e sinceramente lei non credeva di meritarsi un giudizio così cattivo.
Anzi! Le piaceva parecchio inventare.
Credeva di aver sbancato a Capodanno con i suoi gamberetti fritti alle nocciole - ok, si, aveva usato la Nutella - ma fu proprio quello il giorno in cui Finn le proibì di avvicinarsi ancora al forno.

E alle pentole.

E al libro di ricette orientali che le aveva regalato Wells a diciassette anni.


Rise sotto i baffi e afferrò qualche uovo.
Le ruppe, le sbattè -forse c’era cascato dentro anche qualche pezzettino di guscio, ma tanto se sono piccoli non si sente- e mise sul fuoco una frittata..
Che venne color caramello, ma vabè.
« Porca..! » imprecò un po’ tra i denti, quando nel tentativo di salvarla dalla bruciatura si schizzò il dorso della mano con delle gocce di olio bollente.
Rimirò la sua opera, prima di passare alla fase successiva.

Prese due lunghe fette di pane bianco, le spalmò con abbondante marmellata e poi ci piazzò il rotolo di frittata al centro.
« Perfetto. Come spuntino non c’è male. » Sorrise sorniona sedendosi al tavolo e afferrando il panino a due mani.
Aveva esagerato un po’ con le porzioni, ma d’altra parte non cucinando mai che ne poteva sapere lei? Con quattro uova e la marmellata era venuto su un bel fagotto grassoccio.

Guardò l’orologio.
Erano passate quasi quattro ore.
Lei sarebbe tornata prima o poi. E dopo tutto quel tempo a correre -ammesso che avesse corso tutto il tempo, anche se il fisico suggeriva che Lexa fosse una tipa particolarmente.. allenata- probabilmente avrebbe avuto fame.
E con quel frigo deserto che si trovava non avrebbe potuto cucinarsi niente.
« Ma si.. » sospirò, prima di tagliare il panino in due e di mangiare la sua parte.
 

Non era affatto male! Doveva ricordarsi di riproporlo a Finn una sera di quelle.

O di farglielo a tradimento.

Non era molto sicura che Lexa si meritasse di assaggiare quel piccolo capolavoro dopo il modo scorbutico in cui si era comportata e quelle quattro ore di assenza.
Ma poi Clarke pensò che quello poteva essere un modo per convincerla a parlare con lei.
Nel caso, mangiare quel panino freddo poteva essere una vendetta più che soddisfacente.
Decise che per quel giorno ne aveva avuto abbastanza della solitudine.

Afferrò borsa e chiavi e uscì dalla casa, dopo aver scritto un biglietto e averlo poggiato vicino al piatto:

“Mangiami”.

Chissà se avrebbe colto la citazione.
 

****

 

La prima volta che aveva mangiato qualcosa era stato.. appagante. All’epoca non sapeva nemmeno il significato di questa parola, ma adesso l’avrebbe descritta esattamente così.
I giorni precedenti l’avevano nutrita con dei tubicini che si innestavano direttamente nel braccio e che le iniettavano dentro tante sostanze colorate.
Poi, piano, le avevano dato delle poltiglie insipide per farle riallargare lo stomaco.
Quei giorni erano stati dolorosi, aveva la nausea e sentiva la pancia farle male, ma poi, piano piano era tutto passato.
A imboccarle quella sbobba brodosa era sempre stata una ragazza, un’infermiera, che sembrava sempre attenta a non farle colare niente giù per il mento.

Lei non capiva ancora quella lingua, ma si convinceva ad aprire la bocca quando quell’altra le faceva “aaaaaahmm” e le appoggiava il cucchiaio sulle labbra.
All’inizio le balenavano in mente molte immagini di lattanti seduti sul passeggino, con le loro madri che cercavano di fargli mangiare qualcosa e di evitare rigurgiti e pappette rilanciate indietro.
La ragazza aveva la stessa espressione paziente di alcune di quelle donne e non mancava mai di sorriderle quando mandava giù il boccone.

Le dispiacque quasi quando i signori col camice bianco decisero che avrebbe potuto iniziare a mangiare da sola, ma fortunatamente i loro incontri non cessarono.

Anzi. Fu proprio lei a sbucciarle la sua prima fetta di mela.

Era la prima, primissima cosa solida che avrebbe masticato.
Lei, del tutto impreparata, la afferrò con tutta la mano e la strinse tanto che la fettina scivolò fuori dal pugno chiuso e cadde di nuovo nel vassoio.
L’infermiera rise.

Emetteva un suono così piacevole.
Le fece vedere come prendere la mela tra le dita, così, non in quel modo, e gliela portò fino alla bocca.
Quando lei la morse, il crock della fetta fu la prima cosa nuova che sentì. E fu sorprendente.

Era dura tra i denti, ma schiacciata sotto i molari rilasciava un succo dolcissimo, un po’ frizzante.
Non si accorse di avere gli occhi sgranati, e di aver rilasciato involontariamente un mmmhh a labbra strette.

Ma notò il viso dell’altra, che la guardava con la bocca un po’ aperta, in un’espressione di puro stupore.
Quando l’infermiera a sua volta si accorse che la paziente la stava osservando -e sopratutto della faccia buffa che doveva aver fatto- trasalì e la sua pelle assunse una tonalità rossastra che tendeva al colore della mela.

Si affrettò a pulirle un po’ di succo che le era colato dalle labbra, tenendo gli occhi bassi, ma quel colorito non accennava ad andar via.
E per non si sa quale ragione, quando le sorrise di nuovo -niente che non avesse già fatto nei giorni precedenti- le fece un effetto totalmente diverso.

Quel giorno, i suoi denti bianchi e le sue labbra le infusero un calore che non aveva mai provato prima.

Quel giorno, la ragazza stesa nel lettino imparò ad amare le mele rosse ed il loro colore.
  
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