Ciao a
tutte.
Dopo anni – Quanti? Quattro? Beh, non pochi, purtroppo!
Sì, sono ancora viva e
non so neppure se c’è qualcuno che si ricorda
ancora di me – torno con una
piccola one shot, rivisitazione di una che (forse, non ne sono nemmeno
molto
sicura) avevo già pubblicato anni e anni or sono.
Spero possa piacere. Ho cercato di renderla un po’ meno dolce
(era al limite
del diabete), ma non sono poi così certa di avercela fatta.
Qui siamo ancora ai
tempi di Gaia, bei tempi, quelli.
Fatemi sapere, se vi va.
Saluti e baci e abbracci a tutte.
P.S.
Grazie Roby per avermi esortato a
ripubblicarla <3
Il meglio di
me
Il
suo
pugno mi colpì in pieno viso e un dolore lancinante si
distese lungo tutta mia
la guancia destra. Mi parve quasi di sentire lo zigomo spaccarsi, ma a
lui non
sembrò importargliene più di tanto,
tant’è che decise di sbattermi anche la
porta in faccia. Il suo sinistro non era bastato, evidentemente.
Mezz’ora più tardi stavo ancora seduto sui gradini
dell’entrata di casa sua con
la testa fra le mani, tentando di non pensare al dolore pulsante e
fastidioso
provocato dal pugno, quando sentii aprirsi la porta dietro le mie
spalle, il
solito cigolio ad accompagnarla. Mi voltai lentamente e vidi Emma
venire verso
di me. Teneva tra le mani un fazzoletto di stoffa con dentro del
ghiaccio e mi
sorrideva, i capelli raccolti in una coda, solo un ciuffo ad
incorniciarle
il viso: la mia nuova infermiera.
Appena mi fu accanto si sedette anche lei e mi porse il fagottino,
facendomi
segno di appoggiarlo sullo zigomo. Lo feci: un male lancinante. Ma,
grazie al
cielo, lentamente il ghiaccio cominciò a fare effetto,
permettendomi così di
stendere il viso in un piccolo sorriso di ringraziamento.
«Stai
bene?» Chiese poi, dolcemente.
«Mai
stato meglio.» Risposi ironicamente, con una smorfia di
dolore sul viso.
«Vedo,
vedo.» Fece lei, sarcastica quanto me.
Rimanemmo
per qualche minuto in silenzio – chissà cosa stava
pensando; gli sguardi persi
nella campagna di fronte a noi, poco più in là si
vedeva il mare. Il sole stava
tramontando lentamente, soffiava una leggerissima brezza e ci
raggiungeva il
profumo della cena sul fuoco che, molto probabilmente, stava cucinando
Dom.
Quel
posto era magico.
Mi ricordo ancora quando Dominic mi ci aveva portato la prima volta.
Grazie
all’aiuto di Bill e Diane, eravamo riusciti a convincere mia
madre a lasciarmi
trascorrere qualche giorno con la famiglia Howard nella loro casa al
mare.
Quando arrivammo, rimasi senza fiato: non avevo mai visto niente di
più bello (all’epoca
luoghi del genere, per me, erano una grande novità). Avevamo
sedici anni
allora, ed in testa solo la musica e la voglia di divertirci, e quello,
senz’altro, era il posto ideale per lasciarci andare.
E
adesso ci ero tornato.
Emma sospirò, interrompendo i miei pensieri.
«Non
che io sappia cosa diavolo sia successo fra voi, ma ti posso assicurare
che mio
fratello è piuttosto arrabbiato.»
«Lo so.» Dissi, indicandogli la sacca di ghiaccio,
lei accennò un sorriso.
«Non
so nemmeno cosa sei venuto a fare qui. Insomma,
così… Senza preavviso.»
«Mi
dispiace.» Sussurrai. «Ma ho bisogno di vedere
Dominic.»
«Questo
l’avevo capito.» Ridacchiò. «E
non vuoi dirmi perché, giusto?»
«Giusto.»
Mormorai abbassando lo sguardo.
Mi
passò una mano fra i capelli, accarezzandomi la testa, e poi
riprese a parlare
rivolgendo lo sguardo all’orizzonte.
«Non preoccuparti.» Disse. «Allora? Ti
unisci a noi per cena?» Aggiunse
contenta.
«Mi
farebbe piacere, sempre che tuo fratello non abbia intenzione di
uccidermi.»
All’improvviso
la porta si aprii, di nuovo. Entrambi ci voltammo. Dominic
guardò Emma e con un
cenno del capo la invitò ad entrare. Lei mi diede una pacca
sulla spalla e si
alzò, bisbigliò qualcosa all’orecchio
del fratello – forse di non uccidermi – e
sparì all’interno della casa.
Io continuavo a fissare Dom. Avrei dovuto dire qualcosa, ma rimasi in
silenzio
finché lui non si appostò al mio fianco, dove si
accese una sigaretta; allora
mi decisi a parlare, ma non riuscii nemmeno ad iniziare la frase
perché lui mi
aveva già interrotto.
«Vaffanculo.»
Chiosò, soffiando via il fumo e mettendosi in tasca
l’accendino. «E scusami, ma
te lo meritavi.»
«Lo
so.» Risposi, mentre lui prese un respiro profondo e
preparatorio,
probabilmente, della ramanzina che stava per propinarmi.
«Ma
io dico, come pensi di poter piombare qui dal nulla, dopo avermi fatto
sentire
una merda e baciarmi praticamente davanti a mia sorella?! Ti sembra un
comportamento normale? No, Matt. Non è giusto!»
Urlò, come previsto.
«Oh,
capisco eccome. Guarda qui.» Dissi mostrandogli lo zigomo,
ormai anestetizzato
dal ghiaccio.
«Meritato.»
Rispose, senza un minimo di compassione.
Poi
si mise a fissare il mare, mentre continuava a fumare quella dannata
sigaretta.
Io lo guardavo con un mezzo sorriso, guardavo i suoi occhi immergersi
in quel
blu cobalto che si estendeva di fronte a noi. Quel posto era un piccolo
gioiello.
«Hai
mai ripensato ai giorni che abbiamo passato qui insieme?»
Domandai, d’un
tratto.
«Non
penserai mica di poter cenare qui, ve- cosa?» Mi
guardò di sbieco.
«Ho
detto, ripensi mai a certi momenti che abbiamo trascorso qui?»
Sospirò
e scosse leggermente la testa, come a voler mandar via qualche immagine
che gli
era apparsa in mente.
«Quando
eri ancora simpatico…» Disse, rivolgendo gli occhi
al cielo.
Scoppiai
a ridere. «Io sono ancora simpatico.» Gli sussurrai
in un orecchio, come se gli
stessi rivelando un segreto.
Questa
volta rise lui. «Sì, certo, Bellamy. Vallo a
raccontare a qualcun altro.»
«Sei
veramente senza cuore, oggi.» Sussurrai, beccandomi
un’occhiata glaciale.
«Tu
invece sulla buona strada per beccarti un altro pugno, sai?»
Annunciò,
voltandosi verso di me.
Tossicchiai.
Mi spaventava alquanto, quel giorno.
Tornò
quasi subito a guardare di fronte a sé. Il mare sembrava
calmarlo,
fortunatamente.
Non
parlammo per circa cinque minuti buoni, durante i quali non riuscii
nemmeno a
pensare a cosa potergli dire per scusarmi di quello che era successo;
continuavo solamente a ricordarmi il suo viso prima che se ne andasse
sbattendo
la porta due giorni prima, a ripetermi quello che gli avevo urlato
contro. Imperdonabile,
semplicemente. Ero davvero stato imperdonabile. Un cazzotto in faccia
era solo
una piccola parte di quello che mi meritavo.
«Non ho bisogno di te, non
è vero che non
posso fare a meno di questo, di noi! Sai cosa ti dico, Dominic? Fai a
farti
fottere! Non voglio vivere questa storia con te e continuare a mentire
a Gaia.
Chi cazzo se ne frega se sto buttando nel cesso anche la nostra
amicizia! Devi
smetterla di credere che non potrei riuscire a stare con nessun altro
che non
sia tu. Io non voglio una vita come questa. E smettila di dire che mi
ami,
quando sai che io non ricambio affatto! Non sono ossessionato da te e
non
voglio esserlo! Vai al diavolo!» Disse
d’un tratto Dom, sempre continuando
a non guardarmi, lasciandomi senza fiato. L’aveva detta
perfettamente, quella
battuta, quasi fosse il dialogo di un copione da ricordare.
«Ricordo ogni singola parola, Matt,
ogni-singola-parola.» Mormorò, con un filo
di voce.
«I-io…» Non riuscii a dire altro.
«Mi
hai fatto male, idiota che non sei altro.» Prese un respiro,
buttò la sigaretta
a terra e la pestò col piede. «E poi te ne torni
qui, e mi baci. Io non so cosa
pensare, Matt, se non che sei un idiota patentato. Idiota,
idiota… Dio, vorrei
ammazzarti.» Continuò, scuotendo la testa
lentamente.
Io
ero lì impalato, proprio come un vero idiota.
Poi,
all’improvviso, disse: «Ti ricordi quando mi hai
portato a guardare le stelle
sul cofano della macchina di mio padre? I miei dormivano e per noi,
come al
solito, non se ne parlava proprio di andare a letto prima delle tre,
così mi
hai portato fuori, proprio lì…» E mi
indicò il punto esatto dove anni prima
stava parcheggiata l’auto di Bill. «E mi hai fatto
sdraiare sul cofano. Mi
sentivo trasgressivo all’epoca, sai… Se solo mio
padre avesse saputo che
eravamo saltati sulla sua amata Ford, ci avrebbe come
minimo… Oddio, nemmeno lo
so. Comunque, credo sia stato uno dei momenti più belli
della mia vita.
Insomma, noi due, le stelle… Mi avevi stretto la mano ad un
certo punto, mi ero
sentito strano. E sapevo di volerti un bene dell’anima, Matt.
E poi un giorno,
dopo qualche anno, mi hai baciato e ho capito quanto avevo desiderato
che tu lo
facessi. Ma sei un idiota e mi hai urlato in faccia tutte quelle cose
l’altro
giorno, dopo tanto tempo, …perché poi? Lo sai?
Hai avuto paura? Ti ho fatto
qualcosa? Qualcuno ha detto
qualcosa?
O sei soltanto un idiota?»
Ormai avevo perso il conto di tutte le volte che mi aveva dato
dell’idiota, ma
era proprio quello che mi sentivo e le sue parole mi stavano facendo
rivivere
tutte le sensazioni che avevo provato: quella notte, sotto le stelle,
il primo
bacio dopo anni… Mi ricordavo tutto: il suo calore, la
voglia di riprovarci, di
continuare a lasciare che le mie labbra incontrassero le sue. Era
diventato una
droga, ormai. Come avevo potuto negare di essere ossessionato da lui?
Di non
aver bisogno di lui, di noi? Con
che
coraggio gli avevo detto che avrei buttato la nostra amicizia nel
cesso, senza
che me ne fosse fregato qualcosa? Che… non lo amavo? Tutto perché avevo sentito
qualche cretino dargli del gay e non
avevo fatto nulla, avevo solo pensato di non voler essere chiamato
così, da
nessuno, mai. Sempre il solito vigliacco.
Afferrai
la mano a Dominic, così, senza nemmeno pensarci, fu un
impulso.
Mi
guardò, aveva gli occhi lucidi.
«Sono
un idiota.» Gli dissi sorridendo.
Annuì.
«Eccome se lo sei.»
«Comunque
sì, me la ricordo come fosse ieri quella notte, mi ricordo
anche quando ti ho
baciato, ricordo ogni cosa che ti riguardi, Dom. E ti prego di
perdonarmi, ho
detto delle cose orribili e sinceramente l’ho fatto per un
motivo stupido,
perché sono uno
stupido.»
«Idiota.»
Mi corresse lui, guardando in basso.
«Scusami.»
Strinsi la sua mano un’ultima volta e poi la lasciai.
«Emma
si è spaventata, sai?» Disse.
«Per
cosa?»
«Per
quel pugno. Pensava ti avessi rotto il naso, poi sono riuscito a
convincerla
che non era così, ma dopo mezz’ora di litigata
è voluta venire fuori lo
stesso.» Rispose, passandosi una mano fra i capelli biondi.
«Si
è sempre preoccupata un po’ per me, sin da quando
eravamo due ragazzini.»
«Aveva
una cotta per te, scemo.» Mi svelò.
«Cosa?»
Sbottai.
«Sì,
e pensa se venisse a sapere che io sono innamorato pazzo di
te.» Appena finì di
pronunciare le ultime parole si morse la lingua, ma ormai era fatta,
l’aveva
detto. Avrebbe voluto mangiarsela,
secondo me, tant’è che era diventato
paonazzo dal nervoso.
Gli sorrisi, divertito. «Non fare il broncio.»
Dissi. «Ti amo anch’io.»
Roteò
gli occhi, ma si lasciò andare.
«E
io ti perdono, idiota.» Sussurrò, rivolgendomi il
primo sorriso della giornata.
Allungai
la mano per accarezzargli il viso, quando Emma aprì la
porta; ci voltammo, ma
non ritrassi il braccio, mi fermai a mezz’aria, come
bloccato. Lei ci guardò un
attimo perplessa, poi sorrise ed io abbassai la mano.
«La
cena è pronta.» Annunciò.
«Che dici, Dom, Matt può mangiare con
noi?» Aggiunse
e Dominic mi lanciò un’occhiata.
«Diciamo
di sì.» Rispose, tirandomi una gomitata.
«Grazie,
amici.» Ridacchiai, poi ci alzammo ed entrammo in casa.
«Hai
cucinato tu?» Chiesi a Dom appena misi piede in cucina e il
profumo della cena
raggiunse le mie narici.
«Ovviamente.»
Disse, orgoglioso. «Sono il migliore, lo sai.»
Scoppiai
a ridere. «Guarda che anche Tom ha il suo perché
ai fornelli.» Lo avvisai,
beccandomi per la seicentesima volta un’occhiataccia. Meglio
stare zitto, a
quel punto.
Cinque
ore più tardi, dopo che mi ero girato di nuovo
dall’altra parte senza riuscire
a prendere sonno, mi alzai: un’idea.
Uscii
dalla stanza degli ospiti, attraversai il corridoio e aprii la porta di
quella
di Dominic. Con mia grande sorpresa lo trovai ancora sveglio a leggere
chissà
quale libro. Quando mi vide, sobbalzò.
«Che
ci fai qui?» Chiese, appoggiando il libro sul comodino.
Mi
avvicinai e lo presi per mano. «Vieni.» Dissi in un
sussurro, e lo condussi
fuori di casa.
Lo
portai vicino alla mia auto e lo invitai a salire sul cofano e, proprio
come
una volta, mi sentivo come se stessi trasgredendo qualche regola, un
pizzico di
adrenalina in corpo e una sensazione di ansia alla bocca dello stomaco
mi
facevano compagnia.
Dom
mi guardò male per un attimo, ma poi salì
sull’auto ed io lo imitai.
Una
volta sopra, mi sdraiai accanto a lui e, dopo aver fissato il cielo per
qualche
minuto, gli indicai una stella, la più luminosa.
«Sei
tu.» Gli dissi.
Non
so se lui capì esattamente quale, tra le miriadi di stelle,
gli stessi
indicando, ma mi prese la mano e la strinse. Si voltò verso
di me appoggiandosi
al gomito e, con la mano libera, si indicò il cuore.
«Sei
tu.» Sussurrò e mi sorrise.
In
quel momento sentii di amarlo come non mai.
«Ti
darò il meglio di me.» Giurai, appoggiando la
fronte contro la sua.
«Non
ho bisogno del meglio di te. Ce l’ho già, in
questo momento.» Disse, sfiorando
le mie labbra con le sue.
Gli sorrisi e tornai a guardare il cielo stellato con ancora la sua
mano
stretta nella mia.
«Avrò
sempre bisogno di questo. Di noi,
intendo.» Mormorai con gli occhi fissi in alto.
«Lo
so.» Rispose dolcemente. «Anche io.»