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Autore: Holy Hippolyta    22/08/2016    1 recensioni
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Cambiare casa doveva essere un toccasana, invece scivolò sempre più inesorabilmente in un baratro di ricordi e rimpianti che lo inghiottivano come sabbie mobili. Restava bloccato a quel giorno uggioso, a quel momento, a quel corpo esanime.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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THE EMPTY HEART

 Part 1 :  The Fall  

 

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Come è possibile andare avanti a vivere quando i fili che fungono da sostegno sono stati recisi? Quando la fonte della propria forza s’è inaridita mentre quella della disperazione si rifocilla di nuove lacrime?

John aveva ritrovato il gusto della vita dopo l’esperienza devastante della guerra in Afghanistan. Si era riadattato ad un’esistenza civile… o meglio, ne aveva avuta una  straordinaria accanto a Sherlock e avere la consapevolezza che tutto fosse finito, che il suo migliore amico si fosse schiantato al suolo lanciandosi dal tetto di quel maledetto ospedale  era inaccettabile.

Vedeva ancora nitide quelle immagini, udiva la sua voce commossa e rotta dall’altro capo del telefono che lo faceva sussultare nella notte. Non riusciva più a dormire serenamente perché durante il sonno l’angoscia lo faceva arrovellare tra le lenzuola e lo destava di soprassalto in preda ai sudori freddi. Allora si alzava in piedi prendendosi la testa fra le mani e si recava in salotto o verso la camera da letto dell’investigatore, aspettandosi il suo sguardo acuto e tagliente che lo rimproverava: “ John, ti pare che stiamo giocando a nascondino? Almeno potevi invitare Mycroft: batterlo in qualcosa è più divertente di qualsiasi gioco.” Invece c’era un vuoto pesante, un eco silenzioso e terribile.

Gli pareva di impazzire: vedeva l’ombra alta del coinquilino, udiva un suo commento sprezzante, percepiva i suoi passi felpati. Era come vivere in una casa infestata dalla quale non poteva uscire, in quanto i fantasmi erano nella sua mente e nel suo cuore.

Si sentiva distrutto, defraudato, tradito e a coronare quei tremendi sentimenti c’erano la solitudine e la colpa, regine di quella sofferenza. Inoltre con  il passare del tempo aumentava sempre più la morsa che gli stringeva la gola, stretto da quelle pareti tappezzate e dalla moquette polverosa. Capì che per guarire da quella specie di claustrofobia doveva andarsene: non poteva più tollerare quell’ambiente pregno del suo odore e della sua assenza.

Cercò in fretta un’altra abitazione, possibilmente lontana da Baker Street, dal Saint Barts… credette che scappare fosse la soluzione. Si recò dalla signora Hudson e chiese lo scioglimento del contratto. Ella quasi se lo aspettava la mattina che se lo vide entrare in cucina con l’espressione seria che mascherava il dolore. Quello che non poteva immaginare era il lancinante male di vivere, o forse di sopravvivere, che torturava John e che lo avrebbe portato a interrompere perfino i rapporti. In fondo lei credeva di averlo compreso, invece era impossibile. E quella incapacità di empatia profonda fece infuriare interiormente il dottor Watson: parevano tutti così costernati quando nessuno aveva creduto a Sherlock, nessuno lo aveva aiutato in quel momento mentre lui… già, lui cosa aveva fatto? Non abbastanza, dato com’era andata a finire. Sì, era sicuro di questo. La sua punizione era stata inflitta da Sherlock stesso, facendolo assistere alla sua... Non riusciva nemmeno a dirlo.

Cambiare casa doveva essere un toccasana, invece scivolò sempre più inesorabilmente in un baratro di ricordi e rimpianti che lo inghiottivano come sabbie mobili. Restava bloccato a quel giorno uggioso, a quel momento, a quel corpo esanime.

I primi tempi aveva sbalzi d’umore che lo portavano dalla disperazione alla speranza che l’imprevedibile Sherlock Holmes fosse scampato miracolosamente alla morte. Probabilmente era un piano per ingannare quel folle di Moriarty… però troppe cose non quadravano, troppe le domande senza risposta.

Si consumava in quei pensieri, non riusciva nemmeno a piangere tanto s’era svuotato.

Aveva iniziato a dimagrire, a non avere più le energie per alzarsi la mattina. Si scavavano sotto le aride pupille i segni di notti insonni, quasi un germe che lo divorava dall’interno e gli faceva venire la nausea all’idea di mangiare. Poteva sembrare che continuasse a colpire il suo corpo e ad umiliarlo per espiare la sua colpa.

In quelle condizioni gli fu prolungato il periodo di ferie che s’era preso dal lavoro all’ambulatorio: aveva un aspetto pietoso. Gli offersero di farsi visitare ma, ovviamente, rifiutò. La sua claustrofobia si tramutò nel timore di farsi conoscere dagli altri e mostrare la sua debolezza, il suo panico e il suo dolore. Per ciò s’era barricato in casa, non faceva entrare alcuno se non un paio di conoscenze strette. Queste ed altre piccole ossessioni erano indizi del suo non accettare che la vita andasse avanti senza il suo compagno di avventure. Inoltre l’astio verso quelli che dovevano essere i suoi amici, primo fra tutti Mycroft, gli faceva bruciare  la pelle e rivoltare lo stomaco: erano stati i primi ad abbandonare Sherlock, ad accusarlo. Perché mai avrebbe dovuto vederli?

Usciva solamente per fare un poco di spesa, poi principiò a vagare per le vie con lo sguardo spento, l’aria trasandata che nemmeno Greg Lestrade l’avrebbe riconosciuto. Era talmente assorto nel suo mondo cupo che a volte non si accorgeva di che strade consumavano le suole delle sue scarpe.

In una di quelle solitarie passeggiate tra la folla anonima di Londra, si ritrovò davanti al fatidico ospedale. Era stato tradito perfino dalle sue gambe. Che schifo di mondo.

Alzò il capo e scrutò lentamente le mura ripide, le finestre a vetri e gli tornarono  flash della caduta in sequenze incalzanti.

Una voce.

Una figura scura che spalanca le braccia sul tetto.

: “Addio John.”

Un corpo che precipita.

: “ Sherlock!!”

Un cadavere livido e insanguinato.

Le vertigini, l’odore del sangue, le gambe molli e l’asfissia.

 

A John iniziò davvero a mancare l’aria, la testa era confusa e le gambe gli cedettero, cadendo prima in ginocchio e poi a terra. Proprio nel punto in cui Holmes era precipitato ormai mesi prima. Si accorse che i sintomi che avvertiva erano legati ad un inevitabile svenimento… eppure non volle attuare nessuna delle pratiche che conosceva. Desiderò solo sparire, immergersi nell’oscurità e in un silenzio sordo per non vedere, per non sentire più.  Si lasciò cadere.

Una piccola folla gli si fece intorno per capire cosa stesse succedendo. Tra di loro spiccò una persona vestita con una giacca rossa, la quale scansò i passanti in modo gentile ma deciso allo stesso tempo: “ Fate largo, per favore. Sono un’infermiera. – Si chinò su di lui, lo chiamò, scuotendogli una spalla e poi sfiorandogli una guancia – Signore?... Signore! Mi sente?”

John riaprì gli occhi per un attimo ma c’erano solo ombre sfuocate. La donna ordinò agli astanti di lasciargli spazio per respirare, in seguito lo afferrò da sotto le spalle e lo trascinò verso il muro dell’edificio facendogli appoggiare la schiena.

: “ Se volete essere d’aiuto, portatemi dell’acqua e qualcosa da mangiare.” Ed allungò una mano con alcune sterline che aveva preso dalla tasca ed un uomo lì vicino corse ad un bar.

: “ Ma cos’ha?” Domandò di ritorno con una bottiglietta di acqua minerale.

: “ Non è niente di grave, è solo una svenimento. Andate pure. – Lentamente i curiosi tornarono ad immergersi nei propri affari, dimentichi di quell’incidente. L’infermiera si volse nuovamente verso John e il suo tono cambiò, diventando rassicurante intanto che reggeva in una mano l’acqua destinata ad idratarlo – Stia tranquillo, va tutto bene. Respiri con calma e non si muova in maniera brusca.”

Finalmente la vista di John gli permise di scrutare il volto di colei che lo aveva soccorso. Era ovale, pulito, dai lineamenti graziosi e fini, poco trucco per far risaltare meglio gli occhi chiari e lucenti come un’acquamarina e le labbra rosee che si muovevano soavemente. I capelli biondi e corti riprendevano la chiarezza della carnagione e…

: “ Va meglio?” Gli chiese, interrompendo la sua contemplazione.

: “ Sì, grazie. Credo sia stata ipoglicemia.” Iniziò meccanicamente a tastarsi il polso, a toccarsi la fronte ed analizzare le sue funzioni vitali.

Rimasta perplessa per un attimo per quella pronta diagnosi e quei gesti, la donna proferì: “ Si figuri! È il mio dovere. Sono un’ infermiera. Mi chiamo Mary Morstan.”

: “ Dottor John Watson.”

: “ Lei … è un dottore?!” Esclamò trattenendo il contraccolpo. Appoggiò financo le mani sul cemento per darsi equilibrio mentre era inginocchiata davanti a lui.

: “ Non si direbbe, vero?” Sogghignò amaramente,  burlando sé stesso. In quelle condizioni cos’altro poteva dire? Indifeso, malmesso sotto ogni aspetto, seduto per terra. Una condizione patetica.

: “ No, no… intendevo solo…  - Mortan intuì dal tono di voce quali fossero i suoi pensieri e cercò le parole per farsi intendere e toglierlo dall’ imbarazzo – Conosce le strategie per proteggersi durante uno svenimento. Perché si è lasciato andare così? Poteva farsi male!”

: “ Diciamo che mi sono distratto.  Grazie per l’aiuto. Devo andare. Arrivederci.” Tagliò corto Watson, incupendosi. Voleva andarsene via al più presto, far finta che non fosse successo niente e chiudersi in casa. Fece leva sulle gambe per rizzarsi ma barcollò. Mary lo afferrò al volo, sorreggendolo.

: “ Aspetti, ancora non riesce a stare in piedi. Lasci che l’aiuti.”

: “ Ce la faccio.”

: “ A me non sembra proprio. – Aumentò la stretta attorno alle braccia, dimostrandosi irremovibile nel suo proposito – Permetta che l’accompagni a casa.”

John la guardò con aria sospetta e perplessa, storcendo anche un poco il naso davanti a quell’insolita disponibilità.

: “ Non si preoccupi, non ho intenzione di derubarla. Se avessi voluto l’avrei fatto mentre era svenuto.”

: “ Davanti a tutta quella gente?”

: “ Se fossi stata abile non si sarebbe accorto nessuno, non crede?”

: “ Sarebbe stato difficile anche per un esperto trovare il mio portafoglio.” Ed estrasse da una tasca interna un astuccino  legato con una catenella ad un bottone.

I due si guardarono fissi e scoppiarono in un’unisona risata, divertiti da  quello scambio di ipotesi su un eventuale furto, facendo dell’ironia forse un po’ sconveniente.

: “ Va bene, grazie.” S’arrese infine John, accettando l’offerta dell’infermiera.

: “ Aspetti qui, cerco un taxi.”

 

: “ Dove andiamo?” Chiese il tassista alzando gli occhi allo specchietto retrovisore, osservando i due clienti che lo avevano fermato: una donna dall’aria intrigante e un individuo malconcio, poco adatto a starle di fianco.

: “ 221B di Baker Street. – Rispose prontamente John, senza riflettere  - No no… ho sbagliato.” Scosse il capo e prontamente corresse l’indirizzo al suo attuale domicilio.

Un lapsus che solo lui poteva comprendere. Aveva ancora molta nostalgia dell’appartamento a Baker Street, della vita che aveva condotto lì… soprattutto gli mancava Sherlock. Quel pazzo egocentrico e saccente.  Provò una ventata di tormento e dolcezza ricordando quegli occhi magnetici e inquietanti. Per scacciare via quell’immagine si massaggiò la fronte fingendo di guardare oltre il finestrino.

Mary osservava discretamente con la sua pupilla celeste e pura quell’uomo misterioso che le stava affianco nel taxi. Era visibilmente devastato… un professionista probabilmente caduto in disgrazia. La mente fantasiosa di lei immaginò quale poteva essere la vita di John Watson, medico con un doloroso segreto.

Giunti davanti alla porta grigia della casa dell’ex assistente di Sherlock Holmes, tra i due estranei ci fu un momento di silenzio ed imbarazzo. Fu John a prendere la parola per primo: “ Sono arrivato. Tenga! – Pagò il tassista per rivolgersi infine a Morstan – Grazie di tutto.”

: “ Di nulla. Io userò ancora la vettura… Sa, ho un impegno. Prenda: in caso di bisogno lo usi. E si riposi, mi raccomando!”

John sorrise con noncuranza e prese il foglietto ripiegato che gli porgeva. Mary lo salutò, chiuse la portiera dell’auto, dando nuove indicazioni per chissà quale meta, e sfrecciò via.

Watson infilò le chiavi nella serratura ed entrò in casa, trovando il suo rifugio da quella bizzarra situazione con una sconosciuta. Si lasciò accogliere dal divano e strinse al petto un cuscino. Fissò il soffitto bianco e su di esso  vi dipinse il viso della donna che l’aveva soccorso provvidenzialmente, quasi fosse stata un angelo. Sul momento non ci aveva fatto caso, però quella fisionomia gentile e rassicurante lo aveva calmato dal suo stato di smarrimento come un’onda che azzera le increspature della spiaggia. Un’apparizione fugace che non avrebbe mai più rivisto. Era stato impreparato e il suo spirito intraprendente con le donne s’era ritirato per lasciare il posto alla malinconia. Forse non era stato un male, tutto sommato: era impossibile che una bellezza come lei fosse single. Era di certo felicemente fidanzata con una persona che l’aspettava per cenare assieme, che andava al cinema… chissà, magari appassionata di Cluedo.

Estrasse dalla tasca dei pantaloni il biglietto che gli aveva lasciato: sicuramente era il nome di un farmaco che…

Aprendolo scoprì che c’era scritta una serie di numeri: era il suo recapito telefonico! Gli aveva lasciato il suo numero. Che strano. Va bene che erano dello stesso ambiente lavorativo, che lei l’aveva aiutato ma… dare il proprio cellulare ad uno sconosciuto? Non doveva farsi tante domande ma nello stato in cui si trovava sarebbe stato attraente solo ai piccioni di Trafalgar Square.

Salvò il numero sul suo dispositivo e lo stette ad ammirare. Riflettendoci, più che attrazione doveva aver suscitato pietà. Questo era quello che avrebbe detto Sherlock se fosse stato lì. Quell’idea fece stizzire John che pose nervosamente lo smartphone sul tappetto, volendo con l’immaginazione allontanare anche l’infermiera.

Si addormentò sul divano, rannicchiato su di esso, in un sonno profondo e senza sogni.

   
 
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