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Autore: regaam    24/08/2016    1 recensioni
"Non più di cinque secondi- cinque secondi e non di più- non andare oltre- non più di cinque secondi- non vuoi che finisca così- cinque bastano-
Cinque secondi, così la mia mente dice e mi devo fidare. Me li devo far bastare."
(Una storia veloce tratta da un sogno fatto parecchio tempo fa, "tematiche delicate" quasi invisibili, ma ho preferito indicarle)
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La temperatura è terribilmente bassa, sto sudando ma i brividi stanno percorrendo ogni centimetro del mio corpo, la mia vista è leggermente sfocata e non vedo altri colori all'infuori del bianco, nero e le loro diverse sfumature. C'è silenzio attorno a me, ma la mia mente continua a viaggiare, urlando frasi che non capisco e di cui riesco a cogliere solo il panico e l'agitazione.
Noto una piccola isola di sabbia nel vuoto a qualche metro di distanza da me e le voci nella mia testa si zittiscono per qualche secondo, non si fanno più notare.
Al centro di quell'isola noto un bambino dalla felpa blu. Blu? A quanto pare il blu è l'unico colore che sono in grado di vedere. E' inginocchiato, la testa bassa e i capelli castani gli coprono il volto, il blu della sua felpa sembra rispecchiare perfettamente il suo stato d'animo. Cupo, freddo, chiuso, ma potrebbe ricordare anche l'immensità dell'oceano e la sua calma, o la sua furia, la sua profondità. Questo mi ricorda il colore blu. Questo mi ricorda il bambino. Ha le lacrime agli occhi; sta cercando di costruire qualcosa con la sabbia, ma non sembra che ci stia mettendo molto impegno: continua a formare una piccola montagnetta con le mani ed i granelli di questa si lasciano andare verso il terreno facilmente.
Il silenzio che ora si trova nella mia testa mi permette di ragionare, lasciandomi però troppo spazio nella mente e io ho paura di perdermi nella mia stessa libertà di pensiero, mi sento disorientato.
–Come ti chiami?-
Chiedo al bambino. Lui non risponde a parole: alza lo sguardo lentamente e punta il suo piccolo dito verso di me, per poi tornare al suo lavoro, questa volta mettendoci ancora meno impegnato di prima, come se ora si fosse interessato a me. –Hai il mio stesso nome?- Chiesi confuso. Annuisce.
Quel bambino mi era davvero familiare. Questo pensiero sembra aver risvegliato le voci nella mia testa, ora riesco a sentirle più chiaramente, meno agitate di prima e più preoccupate: Tu sei il bambino- lui ti conosce- lo conosci- tu sai il tuo passato- lui è il tuo passato- lascialo solo- lascia il passato a se stesso-
Ignoro la maggior parte di quelle frasi, cogliendo solo le prime: io sono quel bambino? Sono io quando ancora dovevo crescere?
Sei tu- tu sei lui- lascialo in pace- lascialo nei problemi- non aiutarlo- nessuno ti ha mai aiutato- perché aiutarlo?- passato difficile- presente connesso-
Solo io posso sapere a che cosa sono andato incontro in quel periodo della mia vita. Mi ha lasciato un grande segno che tutt'oggi mi causa un enorme dolore. Non posso cambiare il passato di certo, ma devo farmi sentire meglio. Devo far sentire meglio quel bambino. Non ha mai ricevuto affetto e mai nessuno lo amerà, ha bisogno di qualcuno con cui passare del tempo, qualcuno come lui, qualcuno che possa mostragli dolcezza. Se lo merita.
Non più di cinque secondi- cinque secondi e non di più- non andare oltre- non più di cinque secondi- non vuoi che finisca così- cinque bastano-
Cinque secondi, così la mia mente dice e mi devo fidare. Me li devo far bastare.

Inizio ad avvicinarmi all'isola di sabbia lentamente, cercando di farmi notare dal ragazzino, come per chiedergli il permesso di atterrare nel suo spazio personale. Alza la testa e volge il suo sguardo arreso verso di me, le sue labbra formano un piccolo sorriso debole.
Appoggio il primo piede sulla superficie: i cinque secondi iniziano. Subito corro verso il bambino e lo stringo in un abbraccio improvviso.
Uno.
Lui ricambia
–Sai che non puoi stare qui a lungo, vero?-
Ora le lacrime stanno iniziando a bagnare anche i miei occhi, sentivo una forte sensazione di nostalgia e commozione nel mio petto.
Due.
–Sì, lo so. Avanti, non perdiamo tempo.-
Mi siedo a gambe incrociate di fronte a lui e inizio ad aiutarlo nella sua piccola costruzione di sabbia.
Tre.
Il mio aiuto non sembra essere utile, ma il bambino pare divertirsi e apprezzare la compagnia.
Quattro.
-Penso sia ora di salutarci- Dice il ragazzino con una voce debole ma serena.
-Cinque- Rispondo io.
Sono pronto ad andarmene, ma sento di non poterlo fare: io sono davanti a me, il bambino merita di ricevere affetto, merita di passare del tempo con qualcuno dopo aver affrontato quei terribili problemi. Lo abbraccio con le lacrime agli occhi, singhiozzando silenziosamente. Lui inizia a fare lo stesso. –Per favore, devi andare-
-Lo so, lo so.-
Mi rendo conto che le voci nella mia testa hanno iniziato ad urlare da molto tempo ormai
Vattene- scappa- lascialo solo- esci da lì- fai presto- sbrigati- smettila
Dopo aver sorriso a me stesso un ultima volta, mi volto velocemente, pronto a lasciare quell'isola, ma mi rendo conto che qualcosa non va: la temperatura si sta alzando, l'aria fatica ad entrare nel mio corpo. Cerco di muovermi lontano da quel luogo, ma qualcosa mi trattiene, mi sento schiacciare verso il basso e più i secondi passano, più fatico a respirare, fatico a muovermi, cerco invano di affondare le mani nella sottile sabbia, cerco di afferrare qualcosa, qualsiasi cosa possa aiutarmi ad andarmene da lì, la vista si fa sempre più sfocata e le voci urlano, urlano che non avrei dovuto farlo, non me lo meritavo, non avrei dovuto cercare di volermi bene-
I miei occhi si aprono all'improvviso, spalancati e volti verso il soffitto. E' buio ovunque, riesco solo a vedere la debole luce della luna penetrare a fatica dalla finestra, creando splendidi riflessi di raggi sul soffitto e su alcuni mobili della mia camera. Sono sudato, le candide coperte sono ora cadute sul pavimento sporco, uno dei tanti risultati della mia trascuratezza verso la mia casa e me stesso. Il mio respiro è pesante e il mio cuore batte così forte e velocemente che potrebbe uscirmi dal petto.
Sempre rimanendo steso sulla mia schiena, con la mia mano cerco di trovare il cellulare che avevo appoggiato sul comodino ieri sera. Lo trovo e lo accendo per controllare l'orario, la luce dello schermo mi colpisce violentemente gli occhi e ho bisogno di qualche secondo per riuscire a vedere quei grandi numeri sullo schermo: 2:57 del mattino.
Spengo il cellulare e lo faccio cadere da qualche parte accanto al letto, restando nella stessa posizione e fissando il soffitto, continuando a pensare a quello strano sogno.
Mi alzo lentamente e mi avvicino a fatica alla scrivania dove, nonostante l'oscurità non mi permette di distinguere i singoli oggetti, riconosco solo una cosa a me molto familiare, quel barattolo arancione.
Lo apro e prendo la giusta quantità di pillole, osservandole sulla mia mano per qualche secondo, pensando al bambino sull'isola, ai cinque secondi, a quanto non amare me stesso sarebbe stato rischioso.
"Almeno la fantasia mi è rimasta, dopotutto"
   
 
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