Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: vivis_    26/08/2016    4 recensioni
L'abbiamo provata tutti, quella sensazione di impotenza. Sì, quella che ti attanaglia l'anima quando ti senti in dovere di aiutare qualcuno, ma non credi di possedere i mezzi per farlo.
Tutti l'abbiamo provata, tutti tranne lui: Sherlock Holmes.
Lui ha sempre la soluzione a tutto, o almeno l'aveva sempre avuta, fino a quel giorno. Il giorno in cui lui e colui il quale rappresenta l'altra metà della sua vita, John Watson, si trovano letteralmente bloccati nell'ennesima sfida da affrontare insieme. Uno con l'altro, l'uno per l'altro.
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Dal secondo capitolo:
Era panico quello che sentiva, panico e impotenza. La scena che si trovava davanti era tutta sbagliata. Non era lui che si prendeva cura di John, era John che salvava la vita a lui, sempre. Era John che si preoccupava di ascoltare i suoi lamenti silenziosi, le sofferenze inespresse sapendo esattamente cosa fare per alleviarli. Era John l’eroe, non lui."
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. Scoperte

 

«Mi pare ovvio che in qualche modo c’entri Shakespeare» sentenziò Sherlock.
«Conosci Shakespeare?» chiese Watson, ormai troppo distratto dal dolore per poter nascondere la punta di stupore nella sua voce.
«Chi non conosce Wallace Shakespeare?» il genio inarcò il sopracciglio. «la poca fiducia che riponi nelle mie conoscenze quasi mi offende.»
«Sherlock, non sapevi che la terra girasse intorno al sole. E comunque è William Shakespeare.» precisò John.
«Per l’amor del cielo John, il nome non è fondamentale. È conoscere il proprio nemico, quello che conta.»
John sbatté le palpebre perplesso. «E in che modo Shakespeare sarebbe tuo nemico.»
«Non Shakespeare… Mycroft!» il genio fece una breve pausa durante la quale i lineamenti del suo viso di porcellana si contorsero in una smorfia infastidita dovuta ad una serie di ricordi che in quel momento stavano attraversando il suo brillante cervello. «Lui e la sua ridicola ossessione per la letteratura mi hanno perseguitato per tutta l’adolescenza. Ma dovevo studiare e capire di cosa andava blaterando prima di poter dimostrare di essere migliore di lui anche in quello che era a lui più congeniale.»
John trattenne a stento un sorriso incredulo, faticava a capacitarsi di come da una mente tanto prodigiosa potessero scaturire ragionamenti tanto infantili. Ma lui era Sherlock: se sceglievi lui, sceglievi tutto il pacchetto. John lo aveva scelto la prima volta che aveva messo piede al 221B e ogni minuto che passava era sempre più convito che non si sarebbe mai pentito di quella scelta.
«Per Dio! Odio gli indovinelli, li ho sempre odiati. Mi irritano!» nel momento esatto in cui il video era terminato, Sherlock aveva adagiato il tablet in grembo al suo amico e da quell’istante non aveva smesso un secondo di camminare nervosamente avanti e indietro con lo sguardo incollato al terreno, come se sperasse di trovare la soluzione all’enigma su quel pavimento sudicio.
​Si leggeva il panico in qualsiasi movimento facesse, chiunque lo conoscesse avrebbe fatto fatica a riconoscerlo. John decise che non avrebbe sopportato quella situazione un solo minuto di più. Non poteva vedere il genio del suo migliore amico svanire, sommerso da una situazione tanto umana. Gli afferrò la parte inferiore del cappotto con la poca forza che riuscì a racimolare. Il movimento brusco innescò un rantolo di dolore che, questa volta, non riuscì trattenere. Strinse il lembo di feltro tirandolo debolmente verso di sé.
«Sherlock, ti prego, siediti qui accanto a me e calmati.» lo implorò, sentendosi esausto.
Il consulente investigativo afferrò il polso del suo coinquilino, indeciso se spingerlo via bruscamente o se ascoltare le sue preghiere. Stava per liberarsi della presa di Watson, quando incontrò le sue iridi grigie, flebilmente illuminate dalla luce della torcia che rifletteva sul pavimento, e vi lesse dentro quanto egli avesse bisogno di lui, quanto la sua lucidità fosse ormai l’unica sicurezza a cui aggrapparsi. Sherlock lasciò cadere la torcia e l’immagine di quegli occhi contornati da profondi solchi violacei scomparve nel buio. Si prese il viso tra le mani e si massaggiò le tempie fino a recuperare il pieno controllo della sua mente e tornò lentamente a sedersi di fianco a John, ma quella volta cercò volontariamente il contatto con la sua spalla.
John lasciò ciondolare la testa fino a quando non incontrò il tessuto quasi ruvido del Belstaff del suo coinquilino, per poi accoccolarsi sulla sua spalla. Sherlock serrò la mascella, facendo gonfiare leggermente le guancie spigolose. Era ormai un riflesso incondizionato che il genio aveva sviluppato come reazione ad ogni contatto fisico, seguito, il più delle volte, dall’impulso di i scappare il più lontano possibile da chi lo aveva toccato. Ma invece di scattare in piedi fingendo indifferenza, come avrebbe fatto con chiunque altro, Sherlock Holmes chiuse gli occhi. Dietro le palpebre la sua mente proiettò le immagini di un ricordo non troppo lontano.

Ancora non capiva come John lo avesse convinto a guardare “I’m A Celebrity Get Me Out Of Here”[1], eppure era lì, seduto sul divano a gambe incrociate. Accanto a lui, il suo migliore amico che tentava di spiegare chi fossero i protagonisti del reality.
«Vedi quella è Rebecca Andlington, ha vinto il bronzo nel nuoto alle Olimpiadi» diceva indicando una bionda con le spalle larghe.
«Oh e quello è Bennet Miller, recitava in una serie crime. “Delitti in Paradiso” credo si chiamasse. La signora Hudson ne va matta.» aveva poi detto puntando l’indice contro un altro sconosciuto intento a cercare di rompere una noce di cocco con un grosso sasso.
«Che titolo stupido» aveva commentato allora il genio. «il paradiso non esiste.»
Il medico si era limitato ad alzare gli occhi al cielo. Il turno in ambulatorio era stato sfiancante quel giorno, infatti non passò molto tempo prima che le palpebre iniziassero a pesare come incudini. Alle 22’30 John fu costretto ad arrendersi al potere seduttivo di Morfeo, crollando, letteralmente, addormentato con la fronte contro la vestaglia di raso blu del suo coinquilino. Anche quella volta i muscoli di Sherlock si irrigidirono automaticamente, trasformando i suo corpo in un unico blocco di marmo. L’unica cosa che fu in grado di fare, fu ruotare le proprie iridi glaciali verso il viso rilassato di John, come se sperasse di poterlo scansare con un’occhiata.
Per la prima volta notò come le sopracciglia di John fossero curiosamente folte per essere così chiare. Percorse con lo sguardo l’irregolare curva della sua guancia, fino a giungere alle labbra sottili, leggermente schiuse. La piccola fessura tra il labbro superiore e quello inferiore scompariva e riappariva seguendo il ritmo lento e regolare dei suoi respiri. Ne contò quindici prima di rendersi conto si come il suo petto fosse invaso da un morbido tempore che dal centro si irradiava per tutto il corpo. Fu come se il suo cuore, o qualsiasi altra cosa dimorasse nella sua cassa toracica, si stesse sciogliendo come roccia nelle viscere della terra. Per la prima volta provò l’irrefrenabile impulso di voler accarezzare il viso di qualcuno. La sua mano destra era attraversata da piccole scosse che la facevano contrarre quasi impercettibilmente. La sollevò con cautela, facendo attenzione a non compiere movimenti troppo bruschi, che avrebbero potuto svegliare John, e la portò verso il volto dell’amico. Sentì una forza magnetica percorrergli le dita, come fossero delle affusolate calamite bianche. I suoi polpastrelli fremevano curiosi, quasi affamati, di sfiorare delicatamente quella pelle che, colpita dal riflesso bluastro della TV, sembrava ora così liscia e opaca, come un vaso in terracotta.
Le dita del genio si trovavano ormai ad un respiro di distanza dalla gota sporgente di Watson quando questi si mosse infossando ancora di più il viso tra la spalla del suo migliore amico e lo schienale del divano.
Sembra quasi che voglia infilarsi sotto il mio braccio, aveva pensato.
Sherlock si sentì improvvisamente sopraffatto da tutte quelle nuove sensazioni, che ancora faticava a comprendere. Ritrasse le dita, raggomitolandole nel pugno pallido e si scansò bruscamente lasciando così ricadere John a peso morto sul divano.


«Il fuoco.»
La voce del dottor Watson era flebile, ma fu su sufficiente per catapultare Sherlock di nuovo nella realtà.
«Cosa hai detto?» chiese schiarendosi la voce, mentre quel ricordo ancora rendeva Sherlock inquieto.
«Il fuoco è il primo fratello.»

-

«Okay, grazie.» il detective Lestrade chiuse la chiamata e scaraventò il telefono contro la parete del suo ufficio. Incapaci, ecco cosa siete! Fu quello che realmente avrebbe voluto dire alla squadra mobile che, insieme ad altre dodici, stava setacciando tutti i quartieri di Londra alla ricerca di Sherlock Holmes e John Watson.
Dove sto sbagliando? Continuava a chiedersi passando la mano ormai costantemente inumidita da sudore freddo tra i capelli brizzolati. Camminava avanti e indietro senza sosta buttando, di tanto in tanto, un occhiata verso il tablet appoggiato sulla scrivania per cogliere tempestivamente qualsiasi suggerimento potesse venire dai due ostaggi. Le parole del direttore della polizia metropolitana gli ronzavano in testa, fastidiose come zanzare nelle orecchie. Se si dovesse arrivare a negoziare con il rapinatore ricordatevi che la priorità è Holmes, se deve esserci un danno collaterale sarà necessario sacrificare il dottore, tutto chiaro? Holmes ci serve. Lestrade avrebbe voluto obbiettare, ma sapeva che ai piani alti non avrebbero capito. Quella mandria di burocrati non avrebbe saputo guardare oltre il loro naso incipriato, la loro ottusità era tale da non accorgersi del fatto che John servisse a Sherlock tanto quando Sherlock servisse a Scotland Yard.
Il cigolio metallico della porta del suo ufficio interruppe il continuo frusciare dei documenti e delle cartelle che Lestrade stava lanciando in aria, in preda alla disperazione più nera.
​«Greg?» la voce di Molly Hooper era ormai rotta dai numerosi pianti, che continuavano a susseguirsi con intervalli sempre più brevi. Gli occhi da cerbiatto erano cerchiati di rosso e dallo chignon realizzato attorcigliando gli spessi capelli color miele attorno ad una matita,spuntavano  alcuni ciuffi ribelli che le lambivano il colletto del camicie che, nella fretta di raggiungere la centrale, non si era ancora tolta.
«Mi sento perso, Molly.» disse il detective sospirando. «Senza di lui, senza loro io… sono perso.»
Prese il tablet tra le mani e si mise e abbassò lo sguardo su di esso, senza però prestare davvero attenzione a quello che stava guardando.
“Il fuoco?”
“Sì, Sherlock è un indovinello per bambini: il fuoco mangia la legna, finche gli dai legna lui magia”
“E il secondo?”
“Il fumo. Non c’è fumo se non c’è…”
“Fuoco”

Lestrade non capiva cosa di cosa stessero discutendo, ma da quando avevano trovato anche loro un tablet, non facevo altro che blaterare riguardo a indovinelli, fratelli e Shekespeare. Gli sembrava di guardare una pellicola cinematografica logora, dove i discorsi degli attori venivano distorti tanto da farli apparire sconclusionati e senza senso.
«Greg…» la giovane patologa di schiarì la voce per renderla più ferma.
«Non riesco a non pensare a come l’unica persona che potrebbe mettermi sulla strada giusta, che potrebbe dirmi in cosa sto sbagliando, sia rinchiusa chissà dove e che l’unica persona che avrebbe saputo come aiutarmi per trovarlo è rinchiuso insieme a lui.» disse tutto d’un fiato. Tirò un calcio alla sedia dietro alla sua scrivania.
«Per l’amor del cielo Greg! Così non aiuti nessuno.» lo rimproverò con un tono tanto deciso da suonare strano persino a se stessa.
L’uomo si immobilizzò per qualche secondo, per poi lasciarsi cadere per terra.
«Hai ragione Molly.» disse portandosi le ginocchia al petto.
La ragazza si inginocchiò di fronte al detective. Posò le piccole mani sulle ginocchia di Lestrade che, sentendosi sempre più impotente, alzò il capo.
«Non devi sminuirti così, Greg. So che li troverai.» si forzò di regalargli un sorriso rassicurante.
«Se anche dovessi trovarli, potrei non riuscire a salvarli.»
«Cosa vuoi dire?»
«Ai piani alti sono pronti a sacrificare John, in caso di negoziazione. A loro interessa solo Sherlock.»
«Questo non succederà, perché li porterai a casa entrambi. Sani e salvi.»
«E se dovesse succedere?»
«Non lo permetterai, lo so che non lo permetterai.» sentenziò Molly, sfiorando la guancia di Greg con il pollice sottile, facendo sfumare così la lacrima che gli rigava la guancia.
Lestrade si mise in ginocchio avvolse timidamente le braccia intorno alla vita della giovane donna. Lei si abbandonò sulla sua spalla e affondò il viso nel colletto della camicia di lui. Dopo pochi istanti Greg la sentì mentre cercava di reprimere i singhiozzi, strinse leggermente l’abbraccio attirandola a sé fino quando non riuscì ad appoggiare il mento sulla morbida curva della sua spalla. «Grazie Molly, per la fiducia che hai sempre in tutti noi.» le sussurrò, improvvisamente rinvigorito da quell’abbraccio. Lei non rispose, si limitò ad aggrapparsi alla giacca gessata del detective e lasciare che quel suo ennesimo pianto si consumasse tra le braccia di un amico.

-

Sherlock mise la torcia a terra, appoggiandola alla parete della cella frigorifera, in modo tale che il sottile cono di luce potesse espandersi fino a riuscire ad illuminare buona parte dello spazio circostante. Iniziava a fare caldo, troppo, secondo i suoi calcoli. Si passò il dorso della mano sul labbro umido di sudore. Non potevano essere chiusi li dentro da più di due ore, anche se non poteva sapere quanto tempo avessero realmente passato addormentati, ma in ogni caso, se il tempo a loro disposizione fosse stato davvero di dieci ore, l’ossigeno stava diminuendo davvero troppo velocemente. Si sfilò velocemente il Belstaff blu scuro e lo appese ad uno dei ganci per carne rimasti appesi alle aste di metallo.
Watson sorrise dolcemente del vedere come Sherlock si rifugiasse nelle piccole, poche certezze che aveva quando si sentiva sotto pressione. La cura meticolosa per quel cappotto, la musica del suo violino, controllare quello che scriveva John sul suo blog credendo che lui non se ne accorgesse… lo aiutavano a pensare, ad aprire le porte del suo palazzo mentale.
«John?»
«Dimmi Sherlock.»
«Perché, prima, eri sollevato dal fatto di vedermi vivo?» chiese il genio sistemandosi il colletto della camicia grigia come se stesse fosse impegnato in una tranquilla conversazione davanti ad una fetta di apple pie di Speedy’s. «Insomma, perché non avrei dovuto esserlo?»
«Quando sono rientrato a Baker Street, ti ho trovato steso sul pavimento, ho gridato il tuo nome ma non rispondevi e io…» la voce del dottore tremò leggermente «ho pensato che ti fossi sentito male o che… che avessi ritrovato la siringa che ti avevo nascosto e che…» gli mancò il fiato per concludere la frase. Non capì se ciò fosse dovuto all’aria troppo pesante o al ricordo del suo migliore amico con il volto che affondava nei decori orientalegganti del tappeto del salotto, accanto ad un macchia di tè ancora caldo.
Immagini frammentarie iniziarono ad affluire alla mente di Sherlock come sangue che torna a scorrere velocemente in un braccio una volta rimosso un laccio emostatico. La kettle che fischiava, il sapore leggermente salato sulle labbra, i capogiri, il buio.
«GHB[2]. Sul bordo della mia tazza, ne ho riconosciuto il sapore.» disse Sherlock inclinando leggermente la testa, quasi stesse rivivendo di nuovo le violente vertigini causate da quella sostanza.
«Ti hanno drogato?»
«Già, credo abbia utilizzato anche qualche altra droga da stupro, flunitrazepam [3] probabilmente, il GHB da solo raramente causa perdite di coscienza così prolungate.» «Potrebbe indicare un lavoro in campo farmaceutico.»
Sherlock congiunse le mani e le portò sotto il mento. Chiuse gli occhi.
«Eppure c’è qualcosa che non torna, perché ha drogato solo me?» quando si erano seduti fianco a fianco per la prima volta da quando si erano svegliati, Sherlock aveva notato il sottile rivolo di sangue che imbrattava i sottili capelli di John per poi scendere dietro l’orecchio, percorrendo tutto il profilo del collo. «Quelle sostanze sono facilmente rimediabili, anche per chi non bazzica nell’ambiente medico, averbbe potuto procurarsi facilmente una dose sufficiente a drogare entrambi.» i suoi occhi glaciali si spalancarono improvvisamente. «A meno che…» la sua deduzione sfumò nell’aria densa, rimanendo momentaneamente incompleta.
Il panico lo colpì come un pugno in mezzo allo sterno. Sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso in una morsa quasi dolorosa. Questo cambia tutto, questo complica tutto, pensò una volta che il suo cervello ebbe completato silenziosamente il suo ragionamento.
«A meno che?» chiese John preoccupato da quella sottile riga che ancora, una volta, era apparsa tra le sopracciglia del suo amico.
«A meno che tu non sia un danno collaterale.» rispose asciugandosi nervosamente la fronte imperlata da un velo di sudore.
«Cosa vorresti dire?» Watson sentì il suo cuore fermarsi per un nanosecondo per poi iniziare a battere all’impazzata.
«Voglio dire che non avresti dovuto essere qui. Ora.» il genio fece una pausa e si sedette di fronte al dottore. «Pensaci, anche il video era indirizzato solo a me.» spiegò appoggiando l’indice su uno dei bottoni della camicia. « Deve aver studiato le nostre abitudini, per potersi intrufolare a casa nostra con l’intenzione di rapire soltanto me, dopo avermi drogato. Evidentemente non aveva previsto un tuo rientro anticipato e ha dovuto arrangiarsi diversamente. A giudicare dal tipo di contusione, deve averti colpito con un oggetto spigoloso, probabilmente il posacenere che abbiamo sulla mensola all’ingresso.» proseguì Holmes, mordendosi l’interno del labbro di tanto in tanto.
Watson schiuse leggermente le labbra, terrorizzato dall’ipotesi di essere giunto alla conclusione corretta.
Se dieci ore di ossigeno erano state pensate per Sherlock…
«Ciò significa che, se la dea bendata è dalla nostra parte, non ci restano più di quattro ore di ossigeno.» concluse Sherlock Holmes, all’unisono con i pensieri di John Watson. 



Note:
[1] Reality Show inglese, simile a “L’isola dei Famosi”
[2] Acido gamma-idrossibutirrato, farmaco utilizzato per il trattamento dell'insonnia e della depressione clinica, viene anche catalogato come droga da stupro e ha effetti simili all'alcol.
[3] Comunemete conosciuto come Rohypnol, è anch'esso citato tra ledrogheda stupro.


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Salve a tutti,
chiedo umilmente perdono pe il ritardo ma (oltre ad essere stata per un periodo in Inghilterra) ho avuto problemi con l'editor di EFP che, nell'ultima settimana, ha deciso di non collaborare. Ancora devo capire che problemi abbia la tecnologia con me. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi ringrazio in anticipo,


xx
Vivi

 

   
 
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