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Autore: Nemesi_    27/08/2016    0 recensioni
Nicole è nata e cresciuta a Monaco di Baviera, non aveva mai desiderato andarsene dalla sua terra finchè suo fratello maggiore non venne accettato nella migliore accademia del mondo a Washington, un'università per persone dotate di un quoziente intellettivo al di sopra della media. Da quel momento anche Nicole sognava di lasciare la sua Germania per poter inseguire oltreoceano il suo sogno più grande: fare la scrittrice. Questo era il suo desiderio più profondo da sempre, l'aveva sussurrato persino sulla tomba di suo padre, promettendogli che l'avrebbe reso fiero di lei una volta diventata famosa e che gli avrebbe dedicato ogni suo libro.
Nicole era una studentessa normale, fino a che....
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Ero una normale studentessa di lettere con un sogno nel cassetto: volevo diventare una scrittrice.
Frequentavo una delle università più prestigiose al mondo, una di quelle in cui entri solo se il tuo quoziente intellettivo è superiore alla media, ma l’intelligenza era una dote di famiglia ed io, così come mio fratello maggiore e le mie due sorelle minori, ero stata accettata senza alcun problema alla Hawthorne Accademy di Washington.

Il giorno in cui ho ricevuto la lettera d’ammissione ero con mia madre sul divano, a guardare un programma demenziale alla tv, uno di quei reality tedeschi che facevano tanta audience tra il pubblico di Monaco di Baviera, la città in cui ero nata e cresciuta.
Lo sguardo fiero di Friedrich mi fissava dall’altra parte della stanza, lui si era trasferito a Washington l’anno precedente e ci aveva raccontato tante cose positive su quel posto che io non vedevo l’ora di andarci; accanto a lui c’era mia madre con le lacrime agli occhi, un po’ per gioia e un po’ per la tristezza di lasciare andare la sua figlia adorata dall’altra parte dell’Oceano, ma comunque molto fiera della ragazza che aveva cresciuto. Sedute sul divano c’erano Gwendolin, che non si era neppure scomodata ad alzare la testa dal suo telefono per rivolgermi un sorriso, e Christine, la più piccola in casa Schreiber, che cercava di non lasciar trasparire le sue emozioni, facendo comparire però un dolce sorriso sotto ai chili di trucco nero usati per gli occhi.
Istintivamente avevo voltato la testa verso il muro, sul quadro appeso alla parete del soggiorno, per guardare la famiglia al completo ma soprattutto per guardare mio padre, venuto a mancare decisamente troppo presto. Lui sarebbe stato fiero di me, così com’era fiero di tutti noi. I suoi occhi azzurri – peculiarità che avevamo ereditato tutti e quattro insieme ai capelli biondi – mi guardavano intensamente, facendomi capire che anche se non era presente fisicamente, lui c’era sempre.

Se l’arrivo della lettera era stato un momento commovente, quello dei saluti in aeroporto aveva sfiorato il drammatico: mia madre si era attaccata alla mia spalla e con una mano trascinava verso di sé anche Friedrich; Christine mi guardava con un’espressione triste, gettando rapidamente lo sguardo da me a Gwendolin, con il naso appiccicato allo schermo, chiedendomi silenziosamente come avrebbe fatto a sopravvivere senza di me in quella casa. Ma ce l’avrebbe fatta, perché Christine era sempre stata la più forte lì dentro, sebbene fosse la più piccola, quelli che tutti cercavano di proteggere e invece era quella che se la cavava, che cercava di crearsi un’identità e di realizzare se stessa.

Ambientarmi a Washington non mi era risultato difficile, la città era grande e trafficata, ma con i suoi spazi verdi enormi mi dava la possibilità di rifugiarmi in solitudine in compagnia di un buon libro, senza essere disturbata da nessuno per ore. Molte volte avevo superato l’orario del tramonto ed ero rientrata in accademia un po’ troppo tardi, ma nessuno mi aveva mai beccata o forse il signor Timothy, sempre alla guardia del portone principale, aveva chiuso un occhio perché più volte gli avevo suggerito delle ottime letture per passare il tempo durante il suo impiego.

Mi ero iscritta al corso di tennis per continuare la mia passione nata da bambina: era stato proprio mio padre ad insegnarmi a tenere una racchetta in mano e a colpire con forza la pallina gialla, e da quando era morto avevo un po’ abbandonato questo sport ma ora che mi trovavo nel mio posto giusto, avevo deciso di riprendere anche con quell’attività.

La scuola procedeva bene, non mi perdevo alcuna lezione e trovavo affascinanti quei corsi così specifici su tutti quegli autori internazionali che per le persone comuni e non interessate alla letteratura suonavano come degli sconosciuti, ma che invece tra le loro parole nascondevano un mondo denso di significato, capace di guidarti nelle strade della vita e di accompagnarti in ogni percorso.

Avevo il massimo dei voti, ero entrata nella squadra di tennis dell’accademia e avevo stretto molte amicizie, prima tra tutte quella con la mia compagna di stanza, Scarlett Haworth, ragazza australiana piena di vita e di voglia di divertirsi che molto spesso mi costringeva ad uscire dal mio mondo fatto di libri per portarmi a qualche festa vera.
Ero una normale studentessa di lettere con un sogno nel cassetto ma questo prima di conoscere Miguel Herrera.
  
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