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Autore: L0g1c1ta    28/08/2016    0 recensioni
C'era un tempo in cui Lituania era cattivo.
Non cattivo come lo era Russia. Nè come lo era America, quando Vietnam gli puntò contro le sue armi. Nè come Germania, quando desiderò prendere fra le sue dita il mondo intero. Nemmeno come lo era Spagna, quando scoprì il Nuovo Mondo e chiamò i suoi abitanti demoni e bastardi.
Lituania era cattivo, ma innocente.
Era cattivo quanto lo sia un fanciullo, giocando e abusando della propria libertà. Perchè Lituania era cattivo, ma lo era quando era bambino e Polonia era sia amico che compagno di giochi.
Sia fratellino che giocattolo.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Lituania da bambino non aveva amici. Aveva la sua terra, i suoi boschi, il suo popolo, ma non aveva amici. Non poteva divertirsi. Non poteva parlare. Non poteva giocare. Non aveva tempo, anche se piccolo. Non poteva, anche se bambino: Russia lo guardava già da allora e i Cavalieri Teutonici volevano lui e la sua gente. Non doveva, non poteva, non era giusto, non quando il pericolo era alle sue spalle. Ma un bambino soffre e così anche il piccolo Lituania soffriva senza sapere nemmeno il perché della sua sofferenza. I bambini non comprendono molte cose, anche se proprie.
Ma qualcosa cambiò e il pericolo scomparve.
Polonia strinse un’alleanza con lui. Russia lo guardava ancora, ma con preoccupazione. I Cavalieri Teutonici non avevano più pagani da uccidere, così se ne andarono.
Lituania era felice, niente più lo spaventava e aveva finalmente un amico. Anche Polonia era felice: nemmeno lui ha mai avuto un amico, nemmeno lui ha mai giocato in vita sua.
E come normali bambini stavano insieme. Come fratellini si prendevano gli uni degli altri. Come giocattolo Polonia permetteva a Lituania ogni cosa di se stesso. Come giocatore Lituania amava usare Polonia.





Solo vivendo con Russia Lituania ha imparato molte cose su di lui. Ha imparato come parlate il russo e che la bandiera con la falce e il martello deve essere sempre devota e mai dimenticata. Ha conosciuto la sua crudeltà e in parte ne ha fatta sua. Ha compreso come essere un buon soldato per lui e di eseguire sempre gli ordini, qualsiasi ordine. Per Russia ha strappato molte vite. Ha imparato che Russia non accetta ribellioni e nemmeno una parola in più della sua. Ha notato che Russia si arrabbia facilmente se non si rispettano i suoi ordini. Si viene puniti se si desidera il contrario del suo volere.
Ma ormai Lituania ha imparato. Ha imparato così bene che non viene punito da anni.
Ha imparato anche che Russia era povero da bambino e che ha dovuto vivere per sé e per le sue sorelle. Chi conosce la fame  non riesce mai a sbarazzarsi dell’istinto della sopravvivenza e, soprattutto, della pratica. Lituania ha imparato anche che Russia non ha mai avuto servitori più poveri di lui stesso, meno delle Nazioni. Ha imparato che Russia fa ogni cosa con le proprie mani. Lui stesso gli ha stirato la divisa nuova. Lui stesso ora lo sta vestendo e gli sta allacciando la cravatta.
Ha portato in città solo lui, piccolo Baltico, in una cerimonia che non desidera l’intervento della Lituania. Eppure l’ha portato con sé.
Lituania si guarda allo specchio, Russia fa lo stesso e l’ametista dei suoi occhi si adagia dolcemente sul vetro. Non sa cosa dire. Non sa se il nero di questa divisa possa stargli bene. Russia ha una mano sulla sua spalla e per un attimo ha pensato di sentirla stringere sulla stoffa scura. Sorride, come fa sempre, eppure il viola pare morto quasi quanto il suo azzurro.
“Stai malissimo” batte le palpebre, Lituania, e più di così non si muove. Questo commento ha fatto più male di quel che credeva.
Russia fascia con lo sguardo la specchio e, attraverso di esso, guarda il piccolo lituano. Il sorriso fermo, i denti sigillati e lo sguardo perso. Non pare affatto sorridente. Lituania lancia lo stesso sguardo al vetro e così anche alla figura del russo. L’unica luce che Russia vede e che riesce solo ad apprezzare è l’azzurro degli occhi del ragazzo. La vuole e la brama tutta per sé.
Lituania, senza nemmeno rendersene conto, rende l’occhio crudele ed arrabbiato. Lui l’ha vestito in questo modo, lui l’ha portato a questa cerimonia in cui non dovrebbe nemmeno esserci. Lui l’ha reso così. Lui ha liberato la serpe nella sua anima. Lituania si sente preso in giro perché Russia l’ha trasformato come ha desiderato e, alla fine, se ne pente. Non dovrebbe pentirsi di un mutamento del genere, di cui se n’era preso la responsabilità.
Quel frammento di azzurro, innocente, che Russia desidera e ammira, si spegne e muore.





Il piccolo Lituania si era reso conto di amare giocare quasi quanto amasse il suo sogno di diventare cavaliere.
Gli piace qualsiasi gioco. Gli piace avere dei blocchi e costruire grandi castelli, diventandone il re. E qui Polonia, incredibilmente, adorava fargli da servitore e accontentarlo in ogni pazzia. Amano essere ciò che non potranno mai diventare. Lituania adora anche giocare con le spade. Gli piace duellare con Polonia, anche se lui non sa fare bene il cavaliere e la spada di legno gli cade sempre dalle mani. Poi Lituania deve per forza rincorrerlo e usare la spada come bastone. Ma quel che ama di più il bambino è stare fuori, all’aperto, col vento fresco che solletica i piedi nudi e nessun sguardo se non quello posato sul verde dei prati o tra le spighe gialle. Lì, soprattutto nella calda estate, Lituania ama giocare.
Ama stare in quell’infinito labirinto e trovare Polonia. Il piccino si nasconde bene, ma le spighe hanno un gran difetto: il vento le scosta veloci e lasciano scoperto sempre il bambino, anche se accasciato per terra.
Lituania è veloce, così tanto da riuscire sempre a prendere il gracile polacco, assai più piccolo e zoppicante di lui. Adora acchiappare Polonia, perché il piccolino non smette mai di giocare. Si dimena come un vermicello, Polonia, che un merlo lituano l’ha azzannato per i capelli. Per una volta il principino è debole e non può barare.
Polonia si dimena bene, ma Lituania è assai più forte. Si dibatte, il piccino, allora l’amico lo prende per i polsi e lo trascina. Forza i piedi ad ubbidirgli. Quando gioca vuole sempre essere ubbidito e servito, ma gli piace vedere qualcuno ribellargli contro. Gli piace lottare per avere qualcosa.
Il polso è serrato, ma riesce a liberarsi. Lituania ride, si sta divertendo. Azzanna col braccio le costole dell’amico. Polonia è debole e sente dolore, ma continua. Il cuore battente fra le ossa lo elettrizza. Lituania lo getta a terra. Ride forte, il moretto, che si diverte tanto. Ride forte, il biondino, che per la prima volta qualcuno lo desidera, qualcuno lo vuole, qualcuno lo ama.
Il tempo scorre e, come un gioco, Polonia continua a ribellarsi. Lituania, come un gioco, lo ferma. Le dita piccole ma forti artigliano la gola bianca. Tengono a terra la schiena del piccino. Si dimena e prova a sgusciare via, Polonia, ma le dita stringono con la prepotenza di un adulto. Il più piccolo non dice nulla, la risata bloccata nel respiro e nel dolore. Il più grande non dice nulla e continua a stringere: i bambini spesso non conoscono il pericolo. Così continua a far del male a Polonia, così la sbatte e lo stringe come una vipera.
Poco dopo, il piccolo smette di dimenarsi e si abbandona del tutto al grano. Ha perso, Lituania invece ha vinto.
Finalmente, solo ora toglie le mani dal compagno e gioisce la vittoria. Si avvicina la notte, devono tornare a casa. Polonia rimane ancora fermo lì, al terreno. In qualche modo non ha più fiato. Lituania però ha paura dei lui e già ne immagina tanti dietro agli alberi, nella foresta accanto a loro. Il vento è ghiacciato, segnale di scappare: la notte sta arrivando.
Lituania urla all’amico di seguirlo. Polonia è ancora fermo lì a boccheggiare come un pesce fuori dall’acqua. Gli fa male la gola. Lituania ha ancora paura e ha paura anche per il suo fratellino. Lo prende ancora per i polsi e lo costringe in piedi. Affaticato, con le vene chiuse per la prepotenza, Polonia cammina. L’oscurità cala il suo mantello sul campo di grano, sulla foresta e anche sulla gola rossa del principino. Anche i lividi li maschera come pezzi di pece.
Polonia è un piccolo e fragile bambino, ma Lituania non l’ha ancora capito.





“Lituania!” la penna smette di scrivere e rimane a mezz’aria, sul foglio, tremante di una goccia d’inchiostro.
La porta sbattuta da Russia, alle sue spalle, l’ha colto di sorpresa. Il ragazzo alza il viso, bianco come lo stesso foglio, non per paura, e volta piano la fronte dietro di sé. Estonia è ancora lì, nella biblioteca della casa, con la mano tramante sul libro che sta cercando di raggiungere dal piano alto. Solo lui e Lettonia tremano in quella casa.
Lituania, anche se calmo, sente un pizzico dietro la schiena e un brivido di stupore quando il suo padrone gli si avvicina. È arrabbiato. Comprende e avverte il freddo dell’ansia di Estonia e il calore opprimente degli occhi di Russia. Ha un giornale in mano, solo ora lo nota. Il braccio si tende e lo fa cadere sul tavolo, sopra ai documenti da firmare e alle lettere da tradurre dal lituano al russo.
Lituania osserva il giornale aperto e non comprende. Alza gli occhi su Russia, ancora inflessibile, ancora iracondo, ancora freddo e maledettamente spaventoso. Anche Estonia vede e la paura lo fa indietreggiare “Leggi l’articolo che ho sottolineato” l’ordine crudo, la voce inespressiva, gli fanno girare la testa. Gli occhi cadono ancora. Le mani stringono e sollevano la carta. Vede il ricalco della matita e qualcosa intuisce. Spera che non sia vero “Ad alta voce, Lituania” inizia a sottolineare il suo nome. È veramente arrabbiato, pensa Lituania. Non nega di sentire un rivolo di sudore ghiacciargli la fronte e la guancia
Deglutisce, lo sguardo ancora bianco e serio, come il suo padrone ha sempre voluto da lui “La scorsa notte è stato rinvenuto il corpo di Dmitrij Krasowski, di otto anni, annegato in una fontana nelle vie di Mosca, in un bagno di sangue, tagliata la gola…” salta delle righe, quelle non sottolineate. Ora anche Estonia lo guarda, terrorizzato e curioso “…Non è stato ancora identificato l’assassino, ma si presume che abbia operato durante la cerimonia per l’inizio dell’anno nuovo…” la goccia di sudore di Lituania si paralizza sulla guancia, ghiacciatasi. Ha capito cosa voglia sapere da lui Russia. Il cuore pompa sangue ed emozioni.
“Quella sera non ti ho visto nemmeno per un minuto, Lituania” la voce di Russia ha qualcosa di orribilmente scuro, misterioso, iroso, cattivo. Passa qualche secondo, ma non alza il capo. Potrebbe morire negli occhi infuocati d’ametista. E non vuole incrociare gli occhi con quelli di Estonia. Ha la gola secca, eppure riprova a deglutire “Sei stato tu, Lituania?” odia come marca il suo nome, come prova ad incontrare i suoi occhi, come tenti di trasformare la voce e di essere calmo. In quell’attimo, in quel piccolo e coscienzioso attimo, Lituania sente di non aver paura di niente.
“No” per l’uomo questa non è una risposta e nemmeno per Estonia che, persa la paura, ora rimane semplicemente incredulo. Lituania non lo guarda, ma lo pensa. Si rende conto che Russia abbia fatto apposta ad ordinargli di leggere ad alta voce. Se ne rende conto e la preoccupazione per se stesso diventa odio per il suo aguzzino.
“Guardami” ordina, la voce tornata aggressiva. Non tenta nemmeno di nascondere la rabbia, come al solito. Per la prima volta Russia è veramente e sinceramente adirato. Ma Lituania non ha paura né di Russia né di parlare. Ma sa che vuole la verità, eppure, per la prima volta dopo anni, il ragazzo si rifiuta di ubbidire. Da anni è arrabbiato col suo padrone. Da anni non vorrebbe più ubbidirgli. Non lo guarda e Russia perde la pazienza.
Sente la sua mano, sente la pressione del guanto sui suoi capelli. Fa più male di quel che credeva. La cute e la radice dei capelli urlano di strazio e disperazione. Brucia come l’Inferno, la sua testa. Non ricorda una sola volta in cui Russia lo abbia tirato per i capelli. Non ha mai toccato il suo viso. Digrigna i denti, trattiene il dolore e ancora non guarda il suo padrone. Russia è davvero arrabbiato. Vorrebbe fargli del male solo per non avergli risposto, solo per far terrorizzare così tanto il proprio fratello, là in fondo alla stanza.
“Dimmelo! Sei stato tu?” non urla, ma è come se l’avesse fatto. I russi non urlano, per quanto ne sappia. Hanno altri metodi per vendicarsi. Ora Lituania lo guarda, ma ignora gli occhi. La rabbia accarezza il suo cuore con più amore della paura.
“Non ho ucciso io quel bambino” è calmo, la voce calcolata e pesata per essere decisa, per raccontare una verità che non può pronunciare. Un tempo Lituania non sapeva mentire. Un tempo era buono. Ma Russia l’ha modificato. L’ha reso suo assassino, l’ha obbligato ad eseguire ordini ingiusti. A far del male come lui ne faceva quando gli zar erano ancora in vita. Russia ora è frustrato. Ha insegnato lui a mentire al ragazzo e non si è mai pentito così tanto di qualcosa che abbia fatto. Ma non è solo lo sguardo di irosa sfida del lituano che l’ha turbato e che ora lo turba.
L’azzurro dei suoi occhi, gioiosa fiaccola di vita ed innocenza, è morta. Lascia la presa dai suoi capelli. Non sa più nemmeno se sia arrabbiato o terrorizzato “Estonia, vai in camera di Lituania e prendi la divisa nuova” Estonia, povero ed innocente fratello, non sa che fare. Tentenna “Vai, Estonia!” l’urlo lo accende. Non ha mai sentito urlare Russia. Ubbidisce, scappa dalla stanza. Vorrebbe gli occhi di suo fratello, ma non gli incontra. Sono anni che non vede più Lituania, il vero Lituania. Ha paura di trovare qualcosa di orribile.
Torna con la divisa nera, screpolata, già utilizzata e già dimenticata. Ha paura, Estonia, ha tanta paura. Russia la prende e la rigira. Ha una tasca interna. Dalla tasca esce fuori un coltello. Il ferro è umido, non solo di acqua. L’uniforme ha maniche arrotolate. L’uomo le libera. Ci sono delle macchie che conosce bene, anche col nero a mascherarle. Che ha insegnato a riconoscere anche a Lituania. Estonia non le conosce, ma intuisce. Sente le gambe ben più fragili di quel che credeva “Perché l’hai fatto?” la voce di Russia, ora, pare quasi intimorita dalla futura risposta. O forse è semplicemente stanco e deluso.
Lituania, scoperto, sa che non ha altre scuse per salvarsi. Sa che non può più difendersi. Quindi alza lo sguardo. Quel che legge Russia è arroganza, un’arroganza mai vista in un ragazzo che un tempo ricordava docile e felice. Quel che legge Estonia è rabbia e ribellione. Quel che non avrà mai e che ora lo spaventa “Doveva morire”.
Il colpo parte forte, potente, distruttivo. Per un attimo Lituania ha temuto di sentire scricchiolare qualche osso della tempia. Era un solo colpo, ma la saliva è già rossa e spruzzante di metallo. Estonia non si muove. Non si aspettava un colpo così prepotente, ma i muscoli si rifiutano di muoversi e meravigliarsi. In qualche modo è d’accordo col gesto malsano del proprio padrone. Russia è ben più che arrabbiato. È ancora rude e furibondo.
Lo afferra di nuovo per i capelli, lo trascina via, con la mascella spezzata e il sangue gocciolante, vivo, cadente sul pavimento lucido. Estonia è ancora scioccato. Guarda la divisa di Lituania e vorrebbe piangere. Non riconosce più suo fratello. Guarda la divisa del ragazzo e il giornale abbandonato sulla scrivania e vorrebbe piangere.
Lituania non si ribella, non urla. Non vuole imitare la pazzia di quel bambino che ha desiderato sfidare la sua pazienza. Dmitrij aveva i capelli tanto biondi da illuminarsi di un bianco cristallino. Aveva gli occhi blu, ma riflettevano la luce di un violetto appena sprizzante di giovinezza. E la sua sciarpa lo avvolgeva come un secondo cappotto. Non aveva resistito, Lituania, e aveva spinto la sua testolina curiosa in acqua. Si dibatteva e si ribellava al destino, il bambino. Le sue spinte e la disperazione l’hanno acceso più di una fiaccola di vendetta.
Lituania non si ribella per non affamare ancor di più di sangue Russia, diversamente dal piccolo Dmitrij che quasi sussurrava con le sue grida di affogarlo in quella fontana, ghiacciata e macchiata del suo stesso sangue. Aveva sfidato così tanto la sua mano che Lituania aveva raccolto dalla tasca il suo coltellino.
E un’altra vita aveva spezzato senza alcuna ragione.





Lituania osserva con ingenua negazione il suo amichetto.
Quel giorno avrebbero dovuto tagliarsi i capelli, ma Polonia non ha voluto. Lituania non lo capisce, crede in un suo solito capriccio. Allora tenta di convincerlo ad accompagnarlo, anche lui con un garbuglio di nodi in testa. Il biondino mette il broncio e protesta. Il più grande accende le guance e mostra gli occhi cattivi.
Deve tagliarsi almeno un po’ i capelli. Altrimenti ti scambieranno per una femmina, lo minaccia. Polonia ride. Dice che non gli importa. Già lo scambiano per una bambina, quindi non farebbe differenza. Per Lituania questo è inaccettabile.
Con le mani prepotenti, ma il volto esasperato, lo afferra e lo blocca. Lo avvicina al camino. Il fuoco scoppietta, le fiamme alte mangiano affamate la legna e leccano il carbone. Potrebbero divorare l’intero castello tanto hanno fame. Polonia sente il fuoco e il suo calore bruciargli la schiena, ma ride ancora, divertito da questo nuovo gioco. Lituania, ancora esasperato e poco paziente, lo minaccia ancora.
Ti butto nel camino, lo avverte, saranno le fiamme a bruciarti e a mangiarti i capelli. Polonia sente caldo. Si sente bruciare. Si sente sciogliere. Sono delle sensazioni meravigliose, che non ha mai provato e che gli piacciono. Dice che non vuole tagliarsi i capelli. Vuole che sia il fuoco a mangiarglieli.
Lituania, nel suo cuore di bambino, si arrabbia. Lo spinge ancor di più dentro. Le fiammelle bluastre, anziane ma comunque affamate, sfiorano e giocano con le ditine di Polonia. Bambino ingenuo è il principino, ma decide di accettare il volere del suo amico. I capelli sono effettivamente troppo lunghi e ora si sente soffocare in quel braciere in cui è caduto.
Soddisfatto ed orgoglioso della scelta saggia del piccino, Lituania lo libera. Si accompagnano nei corridoi del castello. Si tengono per mano e ancora una volta ignorano la pelle bruciata e la tunica nera per le artigliate delle fiamme.





Ha imparato moltissimo Lituania in questi anni nella casa di Russia.
Ha soprattutto imparato a liberare un demone che forse un tempo ha conosciuto e fatto unicamente suo, ma che aveva imprigionato appena in tempo. Ha immaginato che ognuno di loro, ogni essere umano e Nazione, avesse un demone che in qualche modo pretendesse di liberarsi e di sfamarsi con sofferenza, prepotenza e sangue. Ha immaginato che Russia non fosse mai riuscito a rinchiudere in sé quel demone. Non ce l’ha fatta in tempo. Ora è semplicemente libero, perennemente affamato e desideroso di dare la sofferenza che prova ad altri che non comprendono. E che mai potranno comprendere.
Ha imparato a liberare quel demone e ad utilizzarlo. Ma le catene per rinchiuderlo non sono più adatte per contenere quel mostro. Ora lo sente nella sua anima, incontrollata, sfregiata e maltrattata. Russia si è reso conto troppo tardi di aver sbagliato e di aver distrutto Lituania. Ma anche lui ha un demone e l'ha liberato ore prima, quando il ragazzo si è lasciato trascinare nella stanza.
Quelle quattro mura sono sporche di sangue. Il pavimento puzza di sangue. Persino la pelle del lituano ha la consistenza disgustosa del liquido vermiglio. Russia non tocca mai il volto dei tre Baltici o di chiunque abbia abitato come servo nella sua casa. Ma vuole di nuovo indietro il ragazzo. Lo ricorda diverso e lo rimpiange. I capelli perennemente legati in quel buffo codino. Il sorriso imbarazzato. Le guance rosse di vita fanciullesca. Era un bambino anni fa, Lituania, non un uomo. Ha distrutto e soffocato l'innocenza nei suoi occhi. Lo rivuole indietro. Bambino e sereno. Come prima. Com'era bambino  Lituania quando l'aveva portato per la prima volta a casa sua, nella sua terra bianca. Piangeva e si vergognava di piangere, della sua sconfitta, delle sue lacrime. Era innocentemente dolce, Lituania, quando piangeva. Era piccolo, infantile e mai inopportuno. Lui ha immaginato che fosse inopportuno e contro il tempo l'ha fatto crescere. L'ha reso l'uomo che lui non ha mai desiderato di diventare. Sogna il suo bambino con gli occhi brillanti di vita e le guance paffute. Si sveglia ogni notte nel proprio rimpianto. E piange, più bambino di chiunque in quella casa.
Russia vorrebbe che anche Lituania piangesse e che non sia l'unico a rimpiangere il passato. Vorrebbe che ricordasse e che tornasse alla memoria secoli fa. Vorrebbe che ricordasse il sole dell'Europa, il vento caldo dell'estate, lo scroscio del mar Baltico sugli scogli in pieno luglio. Vorrebbe che ricordasse Polonia, anche se morto, per bagnare i suoi occhi di malinconia. Russia rivuole indietro Lituania. Non vuole gli occhi segnati dall'odio e dal rossore della cinghia. Non vuole che Lituania sia un ammasso di carne. Non vuole che sia il mostro che ha creato lui stesso. Non vuole nemmeno che questo sia un combattimento, ma una lezione. Per insegnare a Lituania che non si uccide chi non merita. Che non debba più spezzargli il cuore. Ma il ragazzo non sta fermo, non piange, non si arrende. Combatte, urla il suo odio, si rifiuta di darsi a lui. Russia è terrorizzato e si chiede di preciso quando abbia ucciso il suo bambino.
"Ti ucciderò, Russia!" ferma la mano, una sola frase ha paralizzato il braccio e il cuoio fra le sue dita. Ha occhi rossi e sanguigni, Lituania. Ha sfregiato con troppa forza il volto e l'ha distrutto. Pare che la luce nelle iridi bruci nel fuoco dell'ira. Russia abbassa la mano, incredulo. Secoli fa, molti secoli fa, ha già visto questi oggi. Gioioso e soddisfatto di essere diventato un uomo col sangue, si era guardato in uno specchio, in quella casetta gettata nel nulla. Si era impressionato e meravigliato di quella luce rossa nella sua iride scarnata. Ne era entusiasta e non aveva compreso nulla, ragazzo ed immaturo. Ora Lituania ha la stessa fiamma e brucia, brucia quel poco che ricorda del ragazzo. Russia sente lo stomaco rigirarsi nel ventre.
"Mi ringrazierà tutto il mondo quando lo farò" Russia guarda quel demone creato dalle sue mani e non sente bene quel che dice. Resta lì, fermo ed immobile. Si sente male. Si sente spezzato. Lituania deve aver compreso che questo gli reca dolore, allora continua, affatto divertito, ma intento a far del male al suo padrone. Sbraita ancora. Vorrebbe ridere per la faccia toccata di Russia. Vorrebbe e allora mostra i denti rossi, azzannati dal sangue. Il labbro spaccato del ragazzo ha qualcosa di magnetico e pericoloso.
"Me ne andrò da questa casa" male, tanto male ai polmoni. Russia non respira "Ti ucciderò e le tue sorelle vedranno il tuo corpo!" i canini brillano come rubini, gli occhi zaffiri liquidi "Così sapranno quant'è odiato il loro fratello e quanti saranno felici della sua morte!" è troppo.
Il gigante gli si getta al collo. Incredulo, furioso come un cane, quello scalcia e urla quel poco che hanno i polmoni. Si agita, artiglia con le unghie le dita ferree dell'uomo. L'energia brucia veloce, senza ossigeno. Russia lo sta soffocando, così come ha soffocato quel bambino in quella fontana a Mosca. Continua a stringere, convulso, disperato. Spera ancora che riemerga, che Lituania esca fuori da quel pantano prima che la morte lo stringa a sè. Il collo e l'osso quasi gli si spezzano. Lituania non è più ira ma terrore. Il demone si rende conto di quel che voglia il gigante russo. Ma non c'è ancora Lituania. Russia non vede quel bambino che da ragazzo ha visto su di un ponte, bianco quanto la sua terra. Il demone, la serpe, il bastardo soffoca tra le sue dita, smette di lottargli contro.
Russia spera, prega che l'abbia ucciso per sempre.





Da quando era piccolo fino ad oggi Lituania vede la neve come un simbolo.
Nacque in un giorno d'inverno, quando i fiocchi erano alti e giocosi nell'aria frizzante e il sole, paterno e dolce, l'ha accolto in quel mondo di cristalli. Nevicava quando trovò e si prese cura di Joana, una cagna che pareva più una lupa senza cuccioli, ma che l'ha protetto e amato, come suo bambino. Nevicava quando vide per la prima volta qualcuno simile a lui, piccola ed innocente Nazione, sopra ad un ponte bianco e col suo vecchio cappottino verde. Gli si era posato un fiocco scintillante quando Polonia, anni fa, vinta la paura dell'estraneo, l'aveva abbracciato e baciato come un fratello. E nevica anche oggi e sa già che accadrà qualcosa di indimenticabile.
Fuori fa freddo, ma la luce è abbagliante. Polonia, vergognato, gli aveva sussurrato di non aver mai giocato fuori, quando nevicava. Lui, affatto ridente, ma mortificato, lo ha preso per la mano e vestito di pelliccia. L'aveva spinto sull'innevato tappeto bianco e gli aveva insegnato come fare un angelo di neve. Il piccino, emozionato per il nuovo gioco, ne aveva fatti altri dieci e all'undicesimo aveva scavato delle ali sopra le spalle. Scosso per tanto entusiasmo, gli aveva insegnato come creare un pupazzo di neve e come decorarlo. Avevano trovato una pigna per il naso, due sassi per gli occhi, dei rametti per le braccia e la bocca. Il pupazzo sorrideva e anche Polonia toccava le guance con i bordi delle labbra. Aveva insistito così tanto che decisero di dargli un nome. Così nacque Litwa, il pupazzo di neve. Lituania si è sentito onorato. E' arrossito e Polonia gli si era gettato addosso, per abbracciarlo. Si sentiva felice, il suo fratellino.
Gli ha insegnato come modellare e lanciare palle di neve. Dopo poco tempo, il demone in Lituania si era risvegliato.
Ha scavato anche delle piccole trincee per la partita a cui stanno giocando. Il piccolo Lituania è soddisfatto: Polonia sembra divertirsi. Ma è anche bravo, il piccino: corre, si tuffa nella neve, si para dietro agli alberi e sotto le buche. E' bravo e veloce, Polonia, in modo sorprendente, ma che in breve diventa frustrante. Lituania raramente perde contro Polonia, in qualsiasi gioco. E' così scaltro da costringere il biondino a provare addirittura a barare. Vedere il cappottino e il mantello di pelliccia bianca del bambino mimetizzarsi perfettamente con la neve e notare come le sue ginocchia sembrino assai più scattanti di lui stesso lo rende incredulo e lo avvilisce.
Si è nascosto dietro al pupazzo Litwa e teme che Polonia sia abbastanza veloce da colpirlo ancora, infischiandosene del nuovo amico di neve. Lituania deglutisce e sporge piano gli occhietti sotto al braccio di legno del pupazzo. Il cuoricino batte forte per la corsa e l'emozione. Immagina di essere sul campo di battaglia, divenuto cavaliere. Questo pensiero lo rende più scaltro e prudente. Vede del giallo sfavillante al sole: Polonia è in attesa, buttatosi dentro la trincea di neve, coi ciuffi di capelli sporgenti e già sudati. Non è molto lontano, pensa, potrei lanciargli una palla di neve e prenderlo, per una volta. Ma ragiona: Polonia lo ha colpito tante, tante volte e altrettante volte ha schivato i suoi colpi. Lituania è un cavaliere, immagina ancora dentro di sè. E un cavaliere è migliore di un piccolo brigante dai ciuffi biondicci. Deve dimostrare a chiunque, e soprattutto a Polonia, che lui è il migliore e che vince sempre. Il bambino pensa e arriva ad una conclusione: deve fare un lancio abbastanza potente per atterrare il suo amico e, così, vincere. L'idea gli sembra grandiosa.
Sbircia ancora, col cuoricino ben più calmo. Gli occhietti vispi di Polonia lo hanno incontrato. Sobbalzano, riabbassano le teste, evitando un attacco immaginario. Lituania ripensa alla sua idea e così crea un'altra palla di neve. Deglutisce, serioso. Si volta e rivolta, frettoloso. Alza la fronte. Litwa lo ignora, ancora sorridente col suo grosso naso a pigna. Il piccolo lituano ha un'idea, talmente tanto incredibile da fargli brillare gli occhi come gemme. Afferra uno degli occhi del pupazzo, ora solo un sasso. Lo ricopre di neve e lo trasforma in una sfera bianca. Felice, si ripromette di sostituire l'occhio con qualcos'altro. Brioso, esce fuori, prende piano la mira. Lancia. I ciuffi biondi cadono nella trincea. Un rumore sordo colpisce la nuca del piccino.
Polonia cade in avanti e non si rialza più.
Lituania tira un sospiro di sollievo, riacquistato l'onore e la vittoria, anche se con un singolo colpo. Esce fuori dal nascondiglio, tocca goffo con gli stivali la terra sterile e scura, senza neve. Polonia non esce ancora fuori. Il bambino inscurisce lo sguardo, i ciuffi bruni sugli occhi. Crede in un trucco, in una presa in giro. Polonia lo fa sempre quando sta per perdere. Polonia è sempre capriccioso quando non lo lascia vincere. Calmo ed attento, attende, con una seconda palla di neve fra le mani. E' pronto a colpirlo non appena gli mostrerà lo sguardo.
Passa il tempo, tanto tempo. Il sole inizia a cadere dietro le cime degli alberi, i fiocchi ricominciano a vorticare in un cielo ben più freddo. Polonia non si è ancora mosso, nemmeno per alzarsi in piedi. E' passato troppo tempo, anche per un assalto. Lituania, preoccupato, gettata la neve per terra, corre nella trincea. Il corpicino fragile di Polonia non si è ancora mosso. La testolina è poggiata sul braccio malamente piegato, come sul punto di spezzarsi. Gli occhi aperti e spenti lo fanno sussultare. Le labbra viola per il freddo lo fanno tremare. Polonia ha qualcosa che non va e che Lituania non comprende.
Il bambino vede i suoi occhi sbarrati, lucidi come vetro e crede che sia uno scherzo. Alza gli occhi sugli alberi, deglutisce per il freddo e per il cielo quasi scuro. Gli urla di smetterla e di tornare a casa: ha ancora paura del buio e dei lupi. Il piccino non si smuove nè viene toccato dalle parole dell'amico. La gola del bambino sussulta, senza nemmeno comprendere il perchè. Gli batte forte il cuore. Sente il sangue scendere e salire come fiumi bollenti. Si accuccia piano, con le ginocchia sulla neve. La manina guantata scuote il corpicino, non sapendo se essere dolce o agitata. Sussurra all'amico di svegliarsi, di dirgli qualcosa. Ancora immobile. Solo la guancia fredda di Polonia si è mossa sul braccio, abbattuta dallo scuotere della mano. L'iride senza colore non lo guarda nemmeno. Un battito più potente, Lituania si allarma. Deglutito, tremante, sofferente e terrorizzato, scuote con ancora più forza il corpicino, prepotente. Stai male?, chiede. Ti ho fatto qualcosa?, chiede ancora. Perchè non rispondi?, ancora silenzio. Quasi piangente, forse intuendo qualcosa, domanda: non sarai mica morto?, nessuna risposta dagli occhi di vetro.
In lacrime, coi gemiti in gola, il piccolo Lituania ritorna angelo.
Vede la testa pesante di Polonia, ricorda il tonfo sordo della pietra cozzata sulla nuca. Temendo di fare altro male, non lo scuote più. La trachea fa un suono strano quando poggia sulle ginocchia la testa rotta di Polonia. Soffre, soffre come mai in vita sua. Non capisce perchè gli sia accaduta una cosa del genere e perchè proprio il suo fratellino ha dovuto farsi del male in questo modo. Certe cose non sono possibili da spiegare e, confuso e tremore, Lituania inizia ad aver paura. Guarda in alto, dove i fiocchi cadono e si posano. Il cielo è completamente nero. E' troppo tardi per tornare a casa. I lupi verranno lì per mangiarlo, immagina. Lo divoreranno e lo azzanneranno. E faranno di peggio a Polonia. I pensieri lo scuotono e gli fanno altro male. Non vuole che il suo amico venga mangiato. Urla, urla di avere aiuto, che qualcuno lo porti via e che porti anche Polonia. Dev'essere salvato e curato. Deve ritornare come prima. Deve respirare ancora. La gola rossa e spaccata, ma le lacrime fiumi di bollente pece.
Un fiocco, leggero ed indiscreto, si poggia sull'iride senza colore del bambino. Spalancata e accolta, questa si rifiuta di andarsene dall'occhio ghiacciato. Felice e soddisfatto di aver trovato un posto nuovo dove riposare, il fiocco si adagia. Nè si scioglie, nè il vento lo porta via. Rimane semplicemente lì, incurante degli sbraiti del bambino vicino a lui.





"Russia ti vuole, Lituania" Lettonia ha una voce stranamente sottile e paurosa quando gli comunica ciò. Ma è improbabile che abbia così tanta paura di lui da tremare in questo modo: nonostante la scoperta della divisa, Lettonia non ha mai dimenticato il vecchio Lituania. Forse anche lui immagina che viva dentro questo ragazzo che non conosce e che, in qualche modo, lo impaurisce. Lituania annuisce, a malapena notando l'intonazione di voce del ragazzino. E' passata solo una settimana, ma ci è già abituato. L'istinto lo muove prima del pensiero. Si alza e riafferra la cravatta, già srotolata per andare a dormire. Non si domanda nemmeno perchè Russia l'abbia chiamato a quest'ora, proprio mentre si stava spogliando per coricarsi. Anche Estonia non se lo domanda, abituato da anni alle follie di Russia. Lettonia è ancora ignorato, ancora incompreso. Dentro di sè si dispera, avendo già paura per Lituania. Deglutisce, terrorizzato più dalla reazione del fratello che da quello che accadrà questa notte.
"I-Intende ora, Lituania. V-Vuole che tu dorma co-con lui...".
Fratelli, i cuori dei due Baltici sussultano insieme. Gli occhiali di Estonia cadono sulla scrivania. Il tonfo che provocano sembra un boato venuto dagli Inferi. Lituania non lo vede, voltato, ma intuisce i movimenti del fratello. L'occhialuto si volta piano, la mascella bloccata. Con lo sguardo paonazzo e sudato chiede se abbia udito bene e se il ragazzino voglia far intendere esattamente quel che ha pronunciato. Lettonia non prova nemmeno a guardarlo. Lituania, ancora paralizzato, e con la cravatta per metà arrotolata alla gola, non tenta nemmeno di deglutire. Bianco, marmo di una statua, con occhi più freddi dell'inverno, si volta verso il più piccolo di loro. Lettonia, con poco coraggio, annuisce. Gli occhi lucidi del Baltico non lo toccano nemmeno. Lituania, ancora paralizzato nel proprio corpo, ancora scuro sotto i ciuffi spettinati, si volta lentamente. Gli occhi freddi s'incontrano nel vetro dello specchio. Non ha idea di cosa pensare, nè di cosa fare. Disubbidire a Russia è impossibile. Eppure... eppure non vuole farsi del male con le proprie mani. Non vuole macchiarsi col proprio sangue. Dal vetro vede il riflesso di sè stesso, quand'era giovane e Russia non gli aveva insegnato ancora nulla. Occhi così sbarrati non gli aveva mai visti in sè stesso da molti anni.
I due fratelli, dietro di lui, chiedono silenziosi cosa fare. Dal vetro Lituania vede Estonia, lo sguardo la copia più tentennante del proprio. La divisa, dicono i suoi occhi. La divisa l'ha fatto arrabbiare. Russia non ha ancora smesso di vendicarsi, immagina. Questa punizione lo terrorizza molto più di tante altre marchiate sulla sua pelle. Il treno impazzito che è il suo cuore inquina le sue orecchie di battiti pesanti. Ha paura. Ha veramente paura. Guarda ancora attraverso il vetro. Lettonia è sparito dal riflesso, è sparito dalla stanza e non se n'è nemmeno accorto. La porta viene sbattuta dietro di loro. Estonia gli si avvicina. Chiede ancora con gli occhi, angosciati, cosa fare. Vorrebbe aiutarlo, ma non sa come. Ma dentro di sè non vorrebbe neppure essere punito al posto di Lituania, forse con lo stesso sistema che intende applicare ora. Ma ha anche pietà per il proprio fratello.
Più terrorizzato della stessa vittima, Estonia lascia che un singhiozzo faccia sussultare il proprio corpo, marionetta per anni. In sè Lituania fa lo stesso, incapace di piangere. Con dita di piombo, si srotola di nuovo la cravatta.
"Ah...! Finalmente sei qui!" la voce di Russia è bassa, ma ugualmente felice. E' sempre stato perennemente felice, Russia, anche dopo essersi sfogato sul suo viso. Per fortuna guarì in pochi giorni, ma le mani sul suo collo pesano ancora e bruciano sulla sua pelle. Lituania si sente incredibilmente sperduto. Sente le pareti stringere contro di lui, non appena è entrato. Non prova nemmeno ad aprir bocca, non ci riesce, troppo difficile. Sottomesso, timido e piccolo, abbassa la fronte. Le mani, in qualche modo, non riescono nemmeno a staccarsi dalla propria pancia. Fa male, maledettamente male. Russia non si accorge di tutto ciò o forse ignora il dolore al cuore del ragazzo. Gli occhi bassi vedono le gambe dell'uomo avvicinarsi a lui. Il passo affatto prepotente si ferma, carezzando il pavimento. Il corpo di Lituania chiede di allontanarsi, di sgusciare via da lì. Il respiro tenue e rilassato sui suoi capelli gli fa rivoltare lo stomaco. Il respiro si sposta sulla sua fronte e l'istinto fa abbassare ancor di più la testa.
Le labbra di Russia accolgono la sua risata, trattenuta fra i denti. Un brivido di paura serpeggia sulla sua spina dorsale "Sei proprio carino, stasera" sussurra con voce bassa, mai sentita un'intonazione come questa nell'uomo. Non sente e non capisce se c'è qualcosa di malizioso in quello che dice. Non è abituato a certe cose, soprattutto se pensa che un uomo gli farà del male in un modo completamente diverso da quello che Russia fa di solito. Si sente soffocare, respira con fatica.
Russia è ancora alto e rigido di fronte a sè. Vede la grossa mano alzarsi e posarsi sulla pelle scoperta, sulla spalla fuggita dal tessuto del pigiama. Soffoca un rantolo di incredula paura, il povero Lituania, in trappola nel suo stesso corpo. Il pollice, ruvido e forte, carezza l'osso e la pelle pallida. E' fredda, la pelle di Russia, si rende conto il ragazzo. Lo disgusta il suo pensiero e anche questa carezza dolciastra. Gli batte forte il cuore. L'istinto fa muovere la testa nella direzione opposta, lontano dalla mano. Sente nel muscolo del collo dolore, stettosi per allungarsi. Russia sbuffa ancora qualcosa, non è certo che sia una risata.
Il cuore pompa sangue nelle orecchie e per qualche secondo diventano sorde. Russia ha abbassato la mano e le dita giocherellano con i bottoni del pigiama. Con la coda dell'occhio, Lituania vede il bottone sfilarsi e, velocemente fa così anche un secondo. Lo sta spogliando. Il respiro trema nei polmoni quando anche un terzo bottone abbandona il tessuto a cui si era stretto. Si sente marmo e ghiaccio, il ragazzo, anche i denti serrati fra loro, dimentichi di potersi schiudere. Con fatica deglutisce, bile e saliva colano nella propria gola. Il cuore sta per scoppiare per la paura: la camicia del pigiama è completamente aperta. Un sussulto gli sfugge di bocca, le braccia si coprono e si serrano sulla pancia. Inconsapevolmente, tenta di difendersi. La gamba s'intreccia con l'altra e si serra. Vorrebbe difendersi, ma non ha idea di come possa fare. Deglutisce ancora. Ha freddo, la pelle scoperta, la stanza ghiacciata. Russia si accorge delle mani serrate. Sbuffa un'altra risata. La mano più ghiacciata della propria pelle avanza e si ferma sul petto, poco più a sinistra.
"Non fa troppo caldo per questa, vero, piccolo?" gli si sciolgono le orecchie, vergognose e terrorizzate. Russia ha il pollice preciso, lo preme sul collo, sopra una vena sensibile. Lo costringe ad alzare per la prima volta lo sguardo, in cerca di aria. Incontra per la prima volta i suoi occhi questa sera. Lituania sente la testa girare.
Non sa bene come, ma la schiena si è adagiata sul materasso del letto. Quasi sprofonda nelle piume d'oca. Gli si mozza il respiro, i capelli caduti all'indietro a formare una corona per il suo viso. Russia si poggia in mezzo alle sue gambe e le costringe a spalancarsi. Il petto un'altalena di respiri e singhiozzi, le gambe involontariamente aperte. Lituania, dopo anni, ricomincia a tremare. Non guarda in faccia il suo aguzzino, ma sente un'altra risata. Non è uno sbuffo, è veramente una risata, ancora trattenuta fra i denti. Il cuore smette di battere, terrorizzato. Il battito impazzito si sposta più in basso, al confine con le gambe. Vorrebbe serrarle ancora e sentirsi più al sicuro. Ma solo le braccia ubbidiscono e aiutano lo stomaco a reggersi, dolorante e singhiozzante di lacrime, quelle che vorrebbe versare ora. Non voleva entrare lì, non voleva farsi del male in questo modo. Russia non ride più, notando il suo terrore. Col viso buttato sul soffitto, sente il corpo fin troppo grande cadere sul suo. La gola geme, non incontra ancora il viso dell'uomo, ma è come se lo abbia fatto. Russia si rilassa sul corpo tremante di Lituania. Poggia l'orecchio lì, dove minuti prima ha toccato con la mano. Il tremito si ferma per poco, poi riparte con più energia. Lituania non si vergogna più. Libera la gola che singhiozza e geme, terrorizzata più dello stesso Lituania. Ha qualcosa di orribilmente dolce e malsano quello che gli sta mostrando Russia.
"Dmitrij tremava come ora tremi tu?" la gola si blocca, si rifiuta di dare aria ai polmoni. Col corpo dell'uomo sul suo e la trachea bloccata, Lituania non sa che fare. Ma il cuore pretende ossigeno e deve forzarsi per respirare. Il respiro troppo veloce fa alzare il capo di Russia. Adagiato sulla sua pancia e sulle sue braccia paralizzate, il ragazzo si sente in trappola. Guarda ancora sopra di sè, sul soffitto scuro e vorrebbe che Russia non lo guardasse e che non parlasse di quel povero bambino. Ma deve comunque rispondere, anche senza sapere. Senza aria, nè volontà, scuote la testa. Patetico e tremante, Russia non la ritiene una risposta. Alza lento il busto. Dall'alto lo guarda, con un sorriso quasi dolce.
"Scommetto che ti sei divertito un mondo, vero? Quel bambino lottava più di quanto lottassero gli uomini che ti ordinavo di uccidere?" il sorriso immutabile, il cuore spezzato. Non lo mostra, ma Russia non si è mai sentito tanto offeso in vita sua. Lituania l'ha offeso in quanto servitore e soldato e Russia ne soffre. Vuole che il ragazzo soffra come lui ora stia soffrendo. I tremiti più controllati, ma gli occhi sbarrati per il terrore e l'incredulità. Lituania ha uno sguardo veramente molto simile a quello che Russia ricordava di aver visto decenni prima. Ne è ammaliato, lo ama tanto. Lituania ascolta e in qualche modo si sente paralizzato. Il cuore fermo, in attesa di risposte. Non sono domande, lo intuisce. Russia sta giocando e lo sta mettendo alla prova. La stanza sembra più buia, con gli occhi d'ametista brillanti nella notte. La luna non illumina nemmeno questa notte d'inverno. Fa freddo, fa troppo freddo. E Russia ha uno sguardo ben più ghiacciato della tempesta fuori dalla finestra. Inclina il capo, l'uomo, la risata spenta.
"Allora tagliare le gole ai bambini è diventato il tuo passatempo preferito, Lituania? E' diventato più divertente di leggere e spedire lettere a quell'idiota di Polonia?" la voce tenue e calma del generale lo trapassa come una lancia. Lo ricorda, Lituania. Una volta, secoli fa, combatteva per la patria e il ferro di una spada lo oltrepassò. La lama bianca congelava la carne e inquinava i suoi polmoni di metallo. Si sentiva soffocare, irrigidita la pelle e le membra. Non riusciva nemmeno a respirare o a chiamare aiuto. Quella battaglia gli aveva quasi bucato un polmone, ma la ricorda bene. E in qualche modo si sente esattamente come lo era in quel campo sperduto nel nulla della sua terra. Non riesce a parlare. Non riesce a respirare. Però non sente più tanto freddo. Ricorda Dmitrij e come l'aveva sbattuto pesantemente contro la pietra della fontana, prima di mostrare il coltellino nella sua tasca. Guarda Russia e non può credere che lui l'abbia distrutto in questo modo.
"Lo vorresti rifare, Lituania?"
"I-Io..." voce spezzata, travolta dall'aggressività di Russia. Non ha idea di cosa volesse dire la sua gola, ma vuole che il suo padrone non parli più e che non si avvicini così tanto al suo viso. E' chino su di lui, bestia affatto calma, anche se sorridente. Ma la sente, Lituania, sente che vorrebbe strappargli di nuovo naso e labbra. Come la scorsa volta. Sussulta, Russia gli si è gettato ancora addosso, più soffocante. Lo sta schiacciando. Il ginocchio pesante dell'uomo cozza contro il suo sesso terribilmente sensibile. Non vuole che gli faccia del male e questa reazione lo fa tremare con più vigore. Pensa che fra poco gli strapperà anche i pantaloni. Che lo prenderà e macchierà anche l'interno del suo corpo. Russia ha le mani ancora al suo collo. Non stringe, ma è come se lo facesse. Lituania è terrorizzato, com'era terrorizzato decenni fa, quando era ancora innocente come un bambino. Respira a grandi boccate, le iridi tentennanti. Fa cadere la testa alla sua destra. Copre un occhio, ma libera i denti che danzano fra di loro, sbattendo come martellate. Russia è ancora pesante, ancora asfissiante ed arrabbiato.
"Vuoi che ti ordini di ammazzare anche i bambini?"
"N-No..."
"Vuoi che ne porti uno anche qui, nella cantina, con gli altri traditori del paese?"
"No..."
"Lo rifaresti altre cento volte, Lituania, io lo so. Te ne porterò altri. Ti porterò i loro figli. Li ammazzerai tu, Lituania. Sarai tu ad ucciderli prima che arrivi l'inverno"
"No!" un urlo disperato, orripilato. Lituania ci crede veramente. Russia può farlo, lo sa. Potrebbe ordinargli davvero di uccidere altri bambini. Non vuole farlo. Non vuole uccidere altri come Dmitrij. Ma Lituania ha dovuto uccidere uomini che volevano vivere e migliorare il paese. Lituania non voleva che morissero, soprattutto per mano sua. Ma Russia gli ordinava di farlo e di dimenticare le loro mogli e i loro bambini. Dovette dimenticare i loro nomi, i loro volti. Le loro parole, i loro schiamazzi. Anche se burattino, Lituania sapeva di star cambiando. Si accorse di ciò quando notò di non ricordare più le suppliche di un vecchio signore, giornalista e scrittore di teorie capitaliste. Aveva dimenticato ognuno di loro e vedere altre volte gli stessi sguardi spezzati e udire le stesse urla distrutte dal dolore non gli trasmetteva più la compassione e l'indignazione che provava quando ancora Russia non decise di mutarlo a suo piacimento. Non può accettare di non soffrire più per delle creature innocenti. Crede fin troppo nelle parole di Russia e supplica di non farlo, di risparmiarlo. Di non ucciderlo più. Non vuole morire più di quanto lo stia facendo ora. Si aggiungono le lacrime e i gemiti. Lituania si vergogna e sbarra il volto con le sue mani, oltraggiato dal suo stesso cuore spezzato.
Russia non ha mai detto per davvero tutto ciò. Ha portato qui Lituania non per fargli del male, ma per insegnargli ciò che ha cercato di insegnargli in quella stanza senza finestre nè aiuti. Russia ama le persone che ridono e piangono facilmente, ma ora detesta vedere piangere Lituania. Anche se non l'ha fatto per anni. Si allontana, richiude le cosce del ragazzo. Lituania piange ancora, anche se più sollevato di non avere altro dolore se non quello alla coscienza. Russia gli si siede vicino. Le dita spesse toccano i capelli del ragazzo. Non dice nulla, non pensa a nulla. Lituania ha sbagliato e non dev'essere consolato. Ma sa bene cosa si provi ad essere ragazzo e avere la vita di un uomo fra le dita. Si china, bacia le mani al lituano, quelle che coprono il volto arrossato e piangente. Si ritira e continua a carezzargli i capelli.
Lituania lo sapeva, ma ora ne ha la certezza. Non può più vivere così. Non vuole vivere così.
E pianse molto. Anche dopo che Russia lo poggiò fra le coperte con lui. Anche dopo che i suoi fratelli, al mattino, pallidi, gli chiesero cosa gli fosse successo quella notte. Anche i giorni successivi, quando Russia gli poggiava la mano fra i capelli o gli baciava la fronte. Lo faceva di fronte ai suoi fratelli, increduli e terrorizzati. Pianse anche quando il muro di Berlino venne distrutto e Russia incominciò a sentirsi malato e debole. Pianse anche quando vide alla finestra il Cremlino e la bandiera dell'Unione Sovietica cadere e mai più ritornare alla cima dov'era sempre stata. Piangeva sempre, Lituania, anche quando Russia incominciò a chiamarlo nella sua camera, la notte, per riflettere sui suoi errori. Piangeva per Lettonia ed Estonia, che credevano che Russia l'avesse spezzato veramente così tanto da ridargli le lacrime e i sussulti.
Lituania lo sapeva e ora ne ha la certezza. Non vuole nemmeno ritornare bambino come prima. Non vuole che Russia lo modifichi ancora, a suo piacimento.





Il piccolo Lituania pianse anche quando i soldati lo trovarono in mezzo alla neve, stretto al corpo di Polonia. Pianse anche quando portarono il suo amichetto in camera loro, ma lo lasciarono fuori dalla porta a pentirsi per il suo errore. Pianse anche quando lo fecero entrare poco tempo dopo e vide la testa fasciata del principino. Non aveva sangue o lividi, ma era gonfio come una palla. E viola, tanto viola. Pianse anche quando raccontò, sconvolto, quel che era accaduto, ricordando la pietra e il tonfo secco che fece con la testa di Polonia. E smise quando gli spiegarono quel che era veramente accaduto.
Aveva ucciso.
Aveva ucciso il suo migliore amico. Aveva ucciso e non se n'era nemmeno accorto. Per tutto il giorno Lituania riflettè sulle sue colpe. Ricordò molte cose e gran parte dei suoi peccati. Ricordò anche che fece assai più male a Polonia di quel che aveva sempre creduto. Aveva spinto giù per le scale il suo amico per gioco e non si era mai accorto del suo zoppicare fino al mattino dopo. Gli aveva costellato il corpicino di segni blu e viola e aveva sempre dato colpa alla sbadatezza del piccino. Ricorda qualcosa di altrettanto pericoloso: gli aveva bruciato i piedini, ma Polonia, come sempre, non gli aveva raccontato nulla.
Il bambino si chiede perchè, nonostante il dolore, il piccolo non gli abbia mai detto nulla. Vorrebbe dargli colpa, ma non ne è in grado. Polonia non ha mai avuto un amico se non Lituania e non ha mai avuto idea di come si giochi. Vedendo il sorriso del fratello, Polonia ha semplicemente creduto che fosse naturale quel dolore fra compagni di gioco. Aveva creduto di essere fin troppo lacrimevole per lui e per questo ignorò le dita bruciate, le spinte e il legno della spada sulla sua testa. Ignorò così tante volte il sangue e i segni sul suo corpo da non vederli e non sentirli più. Vuole bene a Lituania e non vuole perderlo per qualche parola di troppo. Sa bene quanto facciano male le parole.
Nel lettone morbido, affianco a Polonia, Lituania smette di piangere. Polonia è ancora dormiente, con bende e guance blu. Per una volta non tira le corperte, il piccino. E Lituania non deve spingergli il cuscino sul naso per farlo stare fermo. Lo faceva spesso, ricorda. Polonia si agitava ogni notte, per questo lo faceva. Fino al mattino non si muoveva. Preoccupato di se stesso, si chiede se anche quello spingere e quell'agitare di manine e piedini fosse stato un male. Non riesce a rispondersi a questa domanda e ha paura di una risposta affermativa. Quando lo faceva, Polonia si svegliava sempre tardi al mattino. Che inconsapevolmente gli abbia fatto male anche anni prima?
Gli occhietti verdognoli del bambino si schiudono con lentezza e stanchezza. Guarda, riesce a guardare solo in alto. Si sente confuso ed impacciato. Gli duole un punto sensibile dietro la testa. Non si rende conto di quel che sia accaduto. La gola si apre con fatica. Sussurra, chiama l'amico. Lituania, molto più fraterno e preoccupato, si mostra. Ancora perplesso e dolente, il piccino gli chiede se si sia addormentato fuori. Alla risposta negativa sembra pensarci un bel pò. Il fratello spera che non gli chieda cosa sia veramente accaduto. Vorrebbe salvarsi dalle lacrime. Il piccolo, innocente Lituania teme che ricordi. Teme di essere ancora accusato, che durante la sera non ha mai ricevuto così tanti rimproveri e mortificazioni. Non si era mai reso conto di essere prepotente e cattivo.
Col palato secco e schiacciato dalla lingua, Lituania chiede perdono.
Polonia ora lo guarda. L'occhio fermo e perplesso viene interpretato male dal bambino. Crede che voglia condannarlo. Crede che non voglia più che sia suo amico. Crede che non voglia più giocare con lui. Il senso di colpa preme pesante e maligno sul suo subconscio. Non l'ha mai fatto prima d'ora, ma Lituania abbassa il capo, lo nasconde sul pancino vuoto di Polonia. Con più enfasi e tremori nella trachea, chiede perdono. Non voleva fargli del male. Non l'ha nemmeno mai pensato. Ha la lacrima facile, il piccolo angelo. Gli dice che non lo farà mai più. Che sarà più buono e non gli farà mai più del male. Lo tratterà come un fratello. Lo tratterà come un re.
Polonia, col capo fasciato e lo sguardo quasi ansioso, accetta le scuse. Non comprende, ma se questo possa far smettere di piangere Lituania, allora ben sia. La colpa e la paura s'imbagnano nel sangue del bambino. Per il piccolo piangente questa è come un'affermazione. Crede che Polonia abbia sofferto in silenzio fino a quel giorno e che attendesse solo il perdono per aprirsi, troppo timido e gracile. Forse ha persino avuto paura di lui, grande e maligno. Pensa che sia stato davvero crudele se il suo amico non gli abbia mai confessato nulla fino ad oggi. Fino a fasciargli la fronte e a gonfiare la sua testa.
Lituania aveva pianto anche quella notte e nemmeno l'abbraccio confuso e preoccupato di Polonia l'ha fatto smettere di credere di essere un mostro.





Ha sentito lo sparo, ma non era pronto ugualmente. Il proiettile è incandescente e brucia ogni frammento di ossigeno che il polmone gli regala. Non riesce più a respirare.
Il lampo della pistola l'ha visto coi suoi occhi. Il corpo da gigante cade e il materasso lo accoglie con fatica. Con le gambe a penzoloni come tronchi e il petto aperto, spalanca gli occhi. L'impatto è stato più forte di quel che immaginasse. La testa si adagia sul cuscino, poggiato là apposta, le braccia malamente gettate ai suoi fianchi. Non vede, ma immagina ora il suo petto, dov'è stato colpito. Immagina un fiore rosso sbocciare, incandescente come un fuoco infernale, sul suo cuore. Non sente nemmeno un battito. Non sente più dolore. Il corpo non gli risponde più. E' notte, il sole è morto dietro le montagne, la neve sbatte sul vetro come nel volerlo distruggere. Russia ricorda e comprende di non dover meravigliarsi. Ricorda perchè nessuno urla, perchè nessuno s'interessa del boato dello sparo sulle sue costole.
Se ne sono andati tutti. Ricorda Ucraina, sua sorella, che trattiene e porta via con sè Bielorussia. La porta via, lontano. Pensava che sarebbe tornata, che non poteva dimenticarsi di lui. Non poteva dimenticarsi di suo fratello. Lei non tornò più e nemmeno la sua sorellina vide più sulle scale di casa, la sera, a guardare il tramonto riflesso sulla neve. Se ne sono andate. Ricorda che una mattina vide Estonia inginocchiato, abbracciato a Lettonia. Lo baciava e lo rassicurava. Le lacrime le accoglieva le sue labbra e i capelli ricci le sue mani. Finse di non vedere. Finse anche di non vedere Lituania estraneo a loro. Anche il ragazzo aveva finto di non notare i bagagli. I due Baltici se n'erano andati insieme e hanno lasciato Lituania. Russia volle almeno che Estonia si voltasse e salutasse il fratello maggiore. Lituania venne abbandonato dai suoi fratelli, che a malapena conosceva. Come lui con le sue sorelle. Russia era malato e debole, ma il ragazzo non ha mai provato a fuggire. Russia vorrebbe tenerlo con sè e trattarlo come un fratellino. O come un figlio. Russia ha solo Lituania, ma Lituania non ha nessuno, per questo non se n'è ancora andato. Non per lui. Non per stare con lui che Lituania è ancora qui. Russia lo sa e per mesi non voleva rendersene conto.
Lituania si è spento ancora. E' ancora più freddo e bianco da quando i suoi fratelli l'hanno lasciato lì, senza nemmeno salutarlo. Senza nemmeno portarlo con loro, per fuggire. Non ride, non sorride, non piange nemmeno più. Russia dalla poltrona lo vede andare avanti e indietro per la casa, pallido e stanco. Stando con un malato, ci si ammala anch'essi. Russia di questo se n'era accorto e non voleva che Lituania morisse in quella casa, prima di lui. Alla fine dovette sempre costringerlo. Lo costrinse a non pulire più e a sedersi in poltrona con lui. Per tutta la sera ha guardato il fuoco, con occhi malinconici. Ora la casa è piena di polvere e ragnatele, sporca e marcia. L'ha costretto a sedersi vicino a lui e a leggere qualcosa. La sua voce era grave e morta, usata veramente poco in quelle settimane. Lituania non parlò più da quel giorno. L'ha costretto a dormire con lui, nello stesso letto, come facevano sempre quando anche c'erano i suoi fratelli e lo guardavano come si guarda una propria colpa. Dormiva tanto, Lituania. Più di quanto ricordasse. Non lo svegliava e lo lasciava in pace. Gli stava facendo del male e Russia non sapeva cosa fare. Un giorno costrinse Lituania a prendere fra le mani una sua vecchia pistola, la caricò con un proiettile e gli altri li lanciò dalla finestra. Lo costrinse a fare in gioco. Lo costrinse a scommettere sulla sua libertà. Russia stava morendo e non poteva neanche lui aspettare l'arrivo dell'angelo nero. Uno di loro due doveva fare qualcosa per rompere la pena all'altro e così salvarsi anch'egli. Così Russia poggiò la pistola sul tavolino nel soggiorno, visibile ed accessibile ad entrambi, e contento gli spiegò le regole. Russia non ha mai provato a vincere, già perdente alla partenza. Sono passati due giorni da come ricorda e il proiettile continua a sanguinare dentro il suo corpo.
E lo vede bene, Russia. Vede il suo assassino, avvicinato, caduto sotto i raggi bianchi della luna. Macchiato del suo sangue. Russia guarda Lituania che finalmente ha deciso il meglio per entrambi. Lo guarda e teme il demone che ha creato. Teme l'azzurro macchiato dal nero e un sorriso che lui non gli ha mai insegnato, ma che proverebbe malattia. Guarda, Russia, e vede zaffiri. Vede luce di luna. Vede un cavaliere compiere il suo compito. Vede un lupo osservarlo dall'alto del letto, pazientoso, saggio, elegante e virtuoso. Lituania è tornato nel suo corpo.
Russia non ha più udito, nè lingua, nè movimento. Vorrebbe sorridere, felice di non aver ucciso un bambino anch'egli. E di aver fatto tornare Lituania vero e dolce com'è. Russia cala le palpebre e spira, affatto udito dalla neve o dal proprio popolo incredulo nel vedere l'Unione Sovietica sciolta e il socialismo distrutto.
Lituania si muove. Adagia meglio il corpo sul materasso, gli poggia delle coperte. China il capo, rispettoso e affatto pentito, ed esce fuori.





Il treno l'ha abbandonato nella stazione e lui ha camminato tanto per arrivare fin lassù, sopra quella collina, con la valigia in una mano.
Una casetta distrutta, muro di pietra e legno bruciato dalle bombe e dalle mitragliatrici. E' passato tanto tempo per quella casetta in mezzo al nulla e forse il tempo per lei è ormai scaduto. La guerra ha premuto tanto su questa pietra, scalfita e caduta. Il tetto non ha retto più l'ira dell'Inverno ed è crollato su sè stesso. Avrebbe dovuto esserci una porta o un'entrata. Niente più esiste, niente più ritorna come un tempo. Un muro completamente distrutto, aperto, fa vedere quel che resta di una povera casetta di quasi cinquant'anni fa. Il legno nero e rovinato della cucina, il tavolo spaccato e caduto, le sedie affatto allegre. E' malinconica, questa casetta, ma anche lui si sente malinconico. Allora fa cadere la valigia sull'erba gialla e l'abbandona vicino al muretto. Ha visto qualcosa, ciò che cercava.
Non si è mosso da lì. Ha provato ad ignorarlo, ma il vento gli ha toccato i capelli, così come gioca coi suoi. Vede esattamente ciò che forse avrebbe potuto renderlo felice anni fa, prima di venire costretto in quella casa in mezzo alla neve. Sembra più maturo, più adulto. Non l'ha mai visto dopo la guerra, dopo aver saputo della sua morte. Gli sorride, i capelli ingarbugliati nelle dita del vento. Lituania sorride e il cuore batte per avere calore. Si è levato il cappotto. Il sangue di Russia lo tinge ancora di cremisi liquida. Lui l'ha visto, ma non ne cura. Lo accetta, così come da bambino l'aveva accettato. Quelle chiazze sporche non sono che soffi di vento per lui. Dietro a quel muretto, in mezzo al nulla, ha trovato un grande tesoro. E questa volta lo terrà stretto a sè, al suo cuore. Non sarà più demone ma principe, così come fu il suo vero fratello.
Polonia si muove e scavalca il muro, come un tempo fece Prussia nel vedere Germania. Tocca le macchie ora fredde e le ignora. Lo stringe. Lituania stringe lui. E pare che nulla abbia più importanza. Non pensa a Lettonia, nè ad Estonia. Non pensa a Russia, ancora abbandonato sul suo letto di sangue. Non pensa a tutto ciò che ha fatto e che forse vivrà ancora. Polonia è caldo, anche se magro come una spiga di grano. Ma Lituania è congelato e aspettava per anni di avere calore che nemmeno Russia nel suo letto poteva donargli. La spalla di suo fratello è gracile e leggera. Guarda la casetta e vorrebbe rifarla daccapo, costruirla ancora una volta e viverci come hanno sempre sognato di fare, lontano dal mondo, lontano da chiunque. Lituania guarda la loro futura casa e non pensa ad altro che ad un futuro più chiaro, più dolce e sereno. Polonia sente ancora le macchie, ora sui suoi vestiti, ma stringe più forte Lituania. Lituania sente musica, sente violini calmi e una primavera da provare. Chiude gli occhi e sorride.
Dopo anni di sangue, per la prima volta, si sente innocente come un bambino.


  
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