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Autore: _Bittersweettaste    28/08/2016    2 recensioni
Ci sono cose che nessuno di noi sarà mai in grado di prevedere.
Ci sono eventi che sfuggiranno al nostro controllo, come se il fato avesse già disegnato il cammino delle nostre vite. Basta un solo gesto, per sconvolgere irrimediabilmente il corso del destino, in un attimo ogni cosa può cambiare. In un solo attimo le nostre vite potrebbero sconvolgersi completamente, lasciandoci persi in balia di noi stessi.
Che cosa faresti, se improvvisamente il destino decidesse di cambiare?
Che cosa sarebbe successo, se anche solo un evento del passato non fosse stato lo stesso?
Cosa sarebbe successo, se nel mondo di Goku e dei suoi compagni avesse fatto la sua comparsa un ulteriore Sayan?
Come sarebbero andate le cose, se improvvisamente le carte in tavola avessero contato un nuovo elemento?
WARNING: sebbene ci sia un nuovo personaggio, non è assolutamente una Mary Sue, in quanto ha caratteristiche, abilità e difetti che contribuiscono a renderlo completamente umano
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Goku, Nuovo personaggio, Piccolo
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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La disperazione sa essere compagna fedele, puntuale in ogni sua indesiderata visita, sino ad abituare la lingua al suo sapore acre e rivoltante. Viscido, nauseante, oramai familiare. Vibrante e bruciante come l’ennesima scarica che, ancora una volta, venne scagliata contro il nulla più totale. Contro uno spazio crudelmente indefinito e privo di confini apparenti, violento come l’urlo di rabbia che esplose dai polmoni della donna. Un urlo senza eco alcuno che lo accompagnasse, sfogo solitario al quale non seguì che un assoluto ed assordante silenzio. Silenzio tutt’intorno, silenzio lungo la pelle e sin dentro le ossa, in un contrasto feroce e crudele accanto alla rabbia che presto li avrebbe consumati dall’interno, alla sensazione d’assoluta impotenza al cospetto di un destino che altro non aveva fatto se non ostacolarli con ogni sua forza. Per poterli sconfiggere una volta per tutte.

-Lascia perdere, ti prego. Finirai per ammazzarti.-
-Dovrei mettermi in un angolo ed aspettare che tutti si risolva da solo? E’ questo che vuoi?-
Nello stesso istante in cui terminò di pronunciare quell’ultima, insensata domanda, si rese conto di quanto crudele ed immeritato fosse stato il suo scatto d’ira, soprattutto se ingiustamente rivolto contro chi invece non desiderava altro che proteggerla. Portò una mano al volto, la vecchia cicatrice quasi dolorante contro la pelle un poco più morbida e calda del palmo. Se avesse perduto la calma, se avesse lasciato che la rabbia e l’angoscia riuscissero ad avere la meglio sulla sua razionalità, allora tutto sarebbe andato in pezzi. E lui, lui non lo meritava. Il suo continuare a lottare, giorno dopo giorno, non era che per lui, per il desiderio di potergli donare la vita felice, serena, che più di ogni altri meritava.
-Perdonami. Perdonami.-
Una sola parola, pronunciata in un soffio di fiato, prima di sentire la gambe cedere, la terra mancarle sotto i piedi. Ancora una volta, non era stata in grado di mantenere il giusto controllo sulla propria forza. Ancora una volta, aveva lasciato che l’istinto sopraffacesse la ragione e prosciugasse ogni singola goccia di quella stessa energia che il corpo avrebbe dovuto invece custodire; perché nessuno sarebbe apparso dal nulla per salvarli, per riportarli a casa con un semplice schioccare di dita. Non avevano che le loro stesse forze su cui fare affidamento, e lei ora non ne aveva più. Si lasciò crollare con un’imprecazione mormorata a denti stretti, una silenziosa maledizione rivolta a sé stessa ed alla sua stupidità, ma il suo corpo non toccò mai terra. L’attesa dell’impatto, delusa dalla sensazione di un paio di braccia a stringersi attorno a sé, dalla sicurezza di un calore quanto più familiare ad infrangersi contro la pelle ed il cuore. Non una parola venne spesa da parte di Piccolo, non un solo accenno di conforto, ma un paio d’occhi fissi in un punto indefinito in quel orizzonte orribilmente infinito; mentre la sua aura continuava ad aumentare vertiginosamente, minuto dopo minuto. E lei, sapeva perfettamente cosa significasse quel silenzio, quello sguardo, cosa si celasse dietro quella calma calcolatrice, dietro quella traccia immortale della freddezza che un tempo tanto era stata capace di inquietarla sin nel profondo.
Piccolo aveva qualcosa in mente.

-Ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Ho bisogno tu raccolga ogni briciolo rimasto della tua energia, che la tua aura si dilati sino allo stremo, sino a quando non sentirai il tuo corpo minacciare di infrangersi in mille pezzi. Faremo un ultimo tentativo, e tu dovrai essere al mio fianco. Perché solamente unendo  le nostre forze potremo avere anche solo qualche speranza di uscirne vivi. Lo so, è rischioso, e sembra il classico piano destinato a fallire miseramente. Siamo soli, non abbiamo fagioli senzu, e se dovessimo ridurci in fin di vita questa diventerebbe la nostra tomba. Ma dobbiamo tentare. Per loro.-
Gli attimi di silenzio che seguirono alle sue parole, parvero dilatarsi in eterno. Paura, determinazione, disperazione,  speranza, fuse assieme in una continua tensione, tanto violenta da procurare quasi un dolore fisico. Tanto da lacerare l’anima.

-In fondo, rischieremmo di morire comunque.-
La stretta delle braccia di lui si sciolse lentamente, quasi con cautela, assicurandosi che la compagna fosse in grado di reggersi sulle proprie gambe prima di portarsi al suo fianco. Prima di lasciare le aure di entrambe libere di esplodere e divampare in tutta la propria forza, quasi al limite della disperazione. Solo un’ultima esitazione prima di sferrare il colpo finale, solo pochi secondi di umana debolezza nell’abbraccio che vide le loro mani unirsi.  Le dita dell’una morbidamente intrecciate attorno a quelle dell’altro, in una carezza che non ebbe necessità di parole alcune. Mormorarsi un “andrà tutto bene, non preoccuparti” senza doversi affidare alla voce ed al suo tremore, ricercare e trovare nell’altro la forza necessaria per un ultimo atto di coraggio. Il tempo di un respiro più profondo, nulla di più, ed un fascio di pura energia esplose dalle loro mani tese, pronto a divorare il freddo candore che ancora li circondava. Dardo insaziabile che squarciò violento l’atmosfera, rubando loro solamente altri secondi d’ansiosa attesa, prima che un varco si aprisse davanti ai loro occhi increduli. Dilatandosi pian piano, a fatica, sino a creare lo spazio necessario a permettere il passaggio di una persona adulta. E non ebbero bisogno che di scambiarsi un fulmineo sguardo d’intesa, prima di lanciarsi insieme in direzione della voragine, ancora l’uno accanto all’altra, ancora uniti. L’ultimo, disperato sforzo, l’ultimo barlume d’energia,  per lanciarsi verso l’ignoto senza mai guardarsi indietro, per svanire in un lampo di luce bianca poco prima che il varco si richiudesse dietro di essi.

 

_______

 

 

-Riconosco questo luogo. Lo riconosco, eppure continuo ad avere una brutta sensazione.-
-Come se qualcosa non quadrasse.-
Tutt’intorno flebili se non inesistenti tracce di passata presenza umana, sottili strati di polvere lungo la superficie di teloni bianchi a coprire quelli che ad un primo, rapido esame visivo, risultarono non essere altro che macchinari da tempo inutilizzati. Non più l’odore penetrante di fumo e carne bruciata ad appestare le narici, non un solo detrito ad ostacolare i loro passi, nessuna facciata dell’edificio spazzata via da violente esplosioni. La Asimov Tech. sembrava essere rinata e sepolta nel giro di poche ore, totalmente ripulita da qualunque prova, da qualsiasi traccia che avesse potuto anche solo rimandare al disastro consumatosi tra quelle mura. Com’era possibile, cancellare e dimenticare una simile tragedia in così poco tempo? Chi mai sarebbe stato capace di una simile ingenuità?
Il silenzio tombale regnante venne spezzato da un’imprecazione soffocata di Sherin, mentre gli occhi di Piccolo continuavano ad esaminare attenti ciò che li circondava, registrando immediatamente ogni nuovo dettaglio, ogni minimo particolare; mentre la mente cercava di incastrare ogni singolo tassello di un puzzle ben più complicato di quanto avessero creduto. Un dito fatto scorrere lungo la plastica ingrigita di un telo, inoltre, rivelò uno strato di polvere più spesso e stratificato di quanto intuito in un primo momento, indizio freddamente rivelatore dello scorrere del tempo. Quanto era realmente accaduto, durante la lor assenza? Quanto tempo era passato, durante il loro “esilio” nel varco spazio-temporale?

-Piccolo! Vieni qui, presto!-
La voce di Sherin giunse un poco distante alle sue orecchie, la figura della donna perfettamente visibile nonostante avesse raggiunto –ed infranto con un calcio- una delle vetrate superiori, per affacciarsi al mondo esterno. Pochi attimi e fu nuovamente al suo fianco. Pochi attimi ed una nuova, inquietante consapevolezza iniziò a farsi strada in loro; il gelo nelle ossa ed il pavimento improvvisamente instabile sotto i piedi.
La città aveva mutato aspetto. Non radicalmente, certo, ma sarebbe stato impossibile non accorgersi del maggior numero di grattacieli, della modernità più o meno lussuosa delle case, dei modelli d’auto mai visti prima  percorrere le strade sotto di loro. Attorno al perimetro del laboratorio, invece, era stato eretto un lungo, alto recinto di sbarramento in filo spinato, così da impedire l’accesso alla zona a chiunque potesse essere tentato di sbirciare all’interno dell’edificio. Non fu necessario voltarsi verso la compagna, per percepire la sottile ansia crescerle sottopelle, insinuarsi nella sua voce e nel ritmo dei suoi respiri, nell’ombra scura che le calò sullo sguardo. In loro assenza, il tempo aveva continuato imperterrito la propria corsa, e non avrebbero più potuto ignorare quell’assurda verità. L’unico dubbio ancora da sciogliere, quanto esattamente.

-Dobbiamo trovare Bulma.

 

_______

 

 
-Vuoi che lo faccia io?-
-No, non preoccuparti. Sto bene, è solo che ho paura.-
-Di che cosa?-
-Di quello che potremmo trovare al di là di questa porta.-
La Capsule Corporation non aveva subito alcun cambiamento, almeno non a giudicare dal suo aspetto esteriore. Al di la dell’ingresso principale era possibile udire il vociare ed il movimento al suo interno, che si trattasse di membri del personale quanto di elementi della stessa famiglia Briefs, ognuno di essi impegnato con la propria vita, ignaro di chi stesse attendendo solamente a pochi metri di distanza. Se solo avessero preso coraggio, se avessero finalmente rivelato la loro presenza, chi avrebbero trovato ad accoglierli? Tormentata dal dubbio, dal timore di vedere le poche certezze ancora rimastele infrangersi per l’ultima volta, Sherin rimase immobile, incapace di compiere anche il gesto più semplice.
-Al diavolo.-
Con uno scatto, il dito indice di Piccolo premette più volte contro il pulsante del citofono, lo stesso vecchio modello che la famiglia Briefs per tanti anni si era sempre rifiutata di rottamare per uno più efficiente e moderno. Un ricordo piacevole, tenero, che per qualche istante lasciò indugiare un debole sorriso lungo le labbra della donna. Sorriso che si congelò lentamente sul viso, quando finalmente la porta venne aperta.
Davanti a loro una ragazza di circa sedici o diciassette anni, il corpo dalle forme ancora un poco acerbe costretto dentro un completo scarlatto forse un po’ troppo aderente per la sua età, le labbra prive di rossetto curvate appena in un’espressione di totale disinteresse. Non si preoccupò minimamente di spezzare l’imbarazzato silenzio calato non appena gli sguardi dei due stranieri si erano posati su di lei, né di smettere di gonfiare e far scoppiare subito dopo bolle di chewing-gum di discrete dimensioni. Gomma rosa, capelli turchini.

 

-Mamma! Ci sono due tizi strambi alla porta, secondo me non parlano nemmeno la nostra lingua. Chiama papà, io non voglio averci nulla a che fare.-
Detto ciò si allontanò verso l’interno dell’edificio, senza una sola parola di commiato se non una linguaccia irriverente ed una scrollata di spalle, provocazioni che normalmente avrebbero irritato entrambi ma che passarono totalmente inosservati; spazzati via dalla disarmante confusione che aveva impedito loro di pronunciare anche solo una parola. Incapaci di entrare, incapaci di tornare indietro, come impietriti davanti ad un luogo un tempo così familiare ed ora così sconosciuto, quasi estraneo alla memoria dell’istinto.
Non dovettero attendere a lungo prima di udire il rumore leggero ed appena percettibile di nuovi passi, diversi da quelli che poco prima li avevano preceduti. Passi lenti, misurati, stanchi. Stanchi come le ombre scure sotto palpebre segnate delicatamente dal tocco leggero delle prime rughe, sottili e discrete come quelle ad incorniciare gli angoli d’una bocca morbidamente stretta attorno al filtro candido di una sigaretta ancora spenta. La donna teneva gli occhi bassi, chini ed attenti sul blocchetto fitto di appunti a pena stretto tra le dita di una mano, mentre le dita dell’altra continuavano a giocherellare con un accendino in plastica colorata. Il blocchetto sparì in una tasca del camice e la fiamma dell’accendino iniziava già ad attecchire all’estremità della sigaretta, quando lo sguardo di lei si decise finalmente a sollevarsi per affrontare i due visitatori. Aveva già scacciato non pochi seccatori dall’inizio della giornata, e di certo non avrebbe riservato un trattamento di favore agli ennesimi rompiscatole venuti a bussare alla sua porta. Il congedo frettoloso già pronto sulla punta della lingua, tuttavia, parve spegnersi in gola non appena la memoria, la consapevolezza, i ricordi si abbatterono su di lei come un fiume in piena; spazzando via tutto ciò che incontrarono lungo il loro cammino.

Appena il tempo di mormorare un “mio dio” strozzato, e le gambe di Bulma cedettero improvvisamente sotto il peso del suo corpo, senza che la sua vecchia amica potesse soccorrerla in tempo.

 

_______

 

Il silenzio era diventato ormai di rito, in quel giorno surreale.
Tra le mura del salotto di casa Briefs, pesante ed insostenibile come un macigno a pesare sul petto di ognuno dei presenti, mentre il posacenere in vetro sistemato sul tavolino continuava a riempirsi di mozziconi di sigarette. Bulma già alla quarta da quando era riuscita a riprendere i sensi, Sherin alla prima dopo anni e ben sapendo quanto Piccolo ne detestasse il solo odore. Per quel giorno, però, entrambi vollero concedersi il beneficio di un’eccezione. Nessuno di loro ancora in grado di parlare, di chiedere o di dare spiegazioni, tutti e tre troppo stanchi per indulgere nella gioia di essersi ritrovati.

-Vi avevamo dati per dispersi. Vi avevamo dati per morti. Abbiamo aspettato sino allo stremo prima di rassegnarci ed accettare la realtà, e vi assicuro non ci sia stato un solo giorno in cui io non abbia visto Gohan sull’orlo delle lacrime. Anche ora avrei voglia di pizzicarmi un braccio, perché troppe volte mi sono svegliata in questo preciso istante per riuscire a credere di non stare sognando.-
Ancora silenzio, ancora dolore. Sherin spense con un gesto secco nel fondo del posacenere ciò che ancora rimaneva della sua sigaretta, le labbra contratte in una linea dura, sofferente, il cuore lacerato dai sensi di colpa. Era stato un incidente, una fatalità al di fuori del loro controllo, e chiunque tra i presenti in quella stanza era perfettamente consapevole che, se doveva essere trovato un responsabile, altri non era che quel folle ragazzino reso imprevedibile da una mutazione genetica. Come se si fosse ricordata soltanto in quel momento della sua esistenza, Sherin sollevò di scatto il viso in direzione dell’amica.
-Che fine ha fatto Julius?-
La sua domanda non ricevette mai risposta. Bulma distolse lo sguardo, fragile come mai Sherin l’avesse vista, lasciando che il silenzio inghiottisse ciò per cui ancora non aveva la forza sufficiente a dilungarsi in spiegazioni. Almeno per il momento.

-C’è una cosa che dovete vedere, tutti e due.-

 

_______

 

Lo schermo a cristalli liquidi, ampio quasi quanto la parete adiacente, fu probabilmente la prima cosa che catturò la loro attenzione non appena entrati nel laboratorio principale. Forse un ultimo modello acquisito di recente e da Bulma tenuto ben protetto dalle zampacce indelicate di suo marito, a giudicare da quanto appariva lucido e ben tenuto. Una volta davanti al palmare di controllo, Bulma sembrò perdere in un solo istante tutta la sicurezza faticosamente racimolata solamente qualche minuto prima: le spalle scosse da un lieve fremito, lo sguardo perso in chissà quali riflessioni, così fragile e smarrita dentro quel camice da uomo. Sherin mosse un primo passo nella sua direzione, incerta se dire qualcosa o soltanto abbracciarla, stringerla forte a sé per assicurarla che no, non si trattava di un sogno, e che non avrebbe dovuto sopportare il dolore di un improvviso risveglio nella realtà. Prima che potesse compiere un qualsiasi gesto le dita dell’amica presero a muoversi lungo lo schermo del palmare, digitando codici, aprendo cartelle, sino a quando la schermata principale non mutò in un uniforme quadrante neutro.
Una, due, tre, quattro.
Una dopo l’altra, immagini di diverse dimensioni vennero proiettate a formare un irregolare mosaico di momenti catturati dall’obiettivo di una diligente macchina fotografica. Nell’arco di una sola manciata di secondi diciotto anni di vita sbocciarono silenziosi davanti ai loro occhi, inarrestabili, narrati da fotogrammi belli e dolorosi come una stretta mortale al cuore. Diciotto anni negati da un solo gesto crudele ed egoista, diciotto anni persi per sempre e consegnati loro dalla generosa magnanimità di chi invece era rimasto. Di chi aveva avuto la possibilità di viverli anche per chi non avrebbe desiderato altro che esserne parte a sua volta. L’ultima foto apparve al centro esatto dello schermo, tanto grande da occuparne quasi una buona metà. Il tempo di un respiro, nulla di più, e nell’assordante silenzio del laboratorio risuonò chiaro e straziante il pianto soffocato di Sherin, solo una mano premuta contro la bocca a soffocarne i singhiozzi. 

Un ragazzo di nemmeno diciott’anni sorrideva timidamente, seduto a gambe incrociate sulla riva di un lago, i grandi occhi traslucidi socchiusi appena e fissi verso l’obiettivo, verso chiunque avesse scattato quella fotografia; i lunghi capelli neri stretti in una treccia tanto lunga da sfiorare il centro della schiena.
Nel suo sorriso, non una sola traccia di dolore.

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Grazie per aver aspettato, chiunque abbia avuto la pazienza di farlo.

   
 
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