La disperazione sa essere compagna
fedele, puntuale in
ogni sua indesiderata visita, sino ad abituare la lingua al suo sapore
acre e
rivoltante. Viscido, nauseante, oramai familiare. Vibrante e bruciante
come l’ennesima
scarica che, ancora una volta, venne scagliata contro il nulla
più totale.
Contro uno spazio crudelmente indefinito e privo di confini apparenti,
violento
come l’urlo di rabbia che esplose dai polmoni della donna. Un
urlo senza eco
alcuno che lo accompagnasse, sfogo solitario al quale non
seguì che un assoluto
ed assordante silenzio. Silenzio tutt’intorno, silenzio lungo
la pelle e sin
dentro le ossa, in un contrasto feroce e crudele accanto alla rabbia
che presto
li avrebbe consumati dall’interno, alla sensazione
d’assoluta impotenza al
cospetto di un destino che altro non aveva fatto se non ostacolarli con
ogni
sua forza. Per poterli sconfiggere una volta per tutte.
-Dovrei mettermi in un angolo ed aspettare che tutti si
risolva da solo? E’ questo che vuoi?-
Nello stesso istante in cui terminò di pronunciare
quell’ultima,
insensata domanda, si rese conto di quanto crudele ed immeritato fosse
stato il
suo scatto d’ira, soprattutto se ingiustamente rivolto contro
chi invece non
desiderava altro che proteggerla. Portò una mano al volto,
la vecchia cicatrice
quasi dolorante contro la pelle un poco più morbida e calda
del palmo. Se
avesse perduto la calma, se avesse lasciato che la rabbia e
l’angoscia
riuscissero ad avere la meglio sulla sua razionalità, allora
tutto sarebbe
andato in pezzi. E lui, lui non lo meritava. Il suo continuare a
lottare,
giorno dopo giorno, non era che per lui, per il desiderio di potergli
donare la
vita felice, serena, che più di ogni altri meritava.
-Perdonami. Perdonami.-
Una sola parola, pronunciata in un soffio di fiato, prima
di sentire la gambe cedere, la terra mancarle sotto i piedi. Ancora una
volta,
non era stata in grado di mantenere il giusto controllo sulla propria
forza.
Ancora una volta, aveva lasciato che l’istinto sopraffacesse
la ragione e
prosciugasse ogni singola goccia di quella stessa energia che il corpo
avrebbe
dovuto invece custodire; perché nessuno sarebbe apparso dal
nulla per salvarli,
per riportarli a casa con un semplice schioccare di dita. Non avevano
che le
loro stesse forze su cui fare affidamento, e lei ora non ne aveva
più. Si
lasciò crollare con un’imprecazione mormorata a
denti stretti, una silenziosa
maledizione rivolta a sé stessa ed alla sua
stupidità, ma il suo corpo non
toccò mai terra. L’attesa dell’impatto,
delusa dalla sensazione di un paio di
braccia a stringersi attorno a sé, dalla sicurezza di un
calore quanto più
familiare ad infrangersi contro la pelle ed il cuore. Non una parola
venne
spesa da parte di Piccolo, non un solo accenno di conforto, ma un paio
d’occhi
fissi in un punto indefinito in quel orizzonte orribilmente infinito;
mentre la
sua aura continuava ad aumentare vertiginosamente, minuto dopo minuto.
E lei,
sapeva perfettamente cosa significasse quel silenzio, quello sguardo,
cosa si
celasse dietro quella calma calcolatrice, dietro quella traccia
immortale della
freddezza che un tempo tanto era stata capace di inquietarla sin nel
profondo.
Piccolo aveva qualcosa in mente.
Gli attimi di silenzio che seguirono alle sue parole,
parvero dilatarsi in eterno. Paura, determinazione, disperazione, speranza, fuse assieme in
una continua
tensione, tanto violenta da procurare quasi un dolore fisico. Tanto da
lacerare
l’anima.
-In fondo, rischieremmo di morire
comunque.-
La stretta delle braccia di lui si sciolse lentamente,
quasi con cautela, assicurandosi che la compagna fosse in grado di
reggersi
sulle proprie gambe prima di portarsi al suo fianco. Prima di lasciare
le aure
di entrambe libere di esplodere e divampare in tutta la propria forza,
quasi al
limite della disperazione. Solo un’ultima esitazione prima di
sferrare il colpo
finale, solo pochi secondi di umana debolezza nell’abbraccio
che vide le loro
mani unirsi. Le
dita dell’una morbidamente
intrecciate attorno a quelle dell’altro, in una carezza che
non ebbe necessità
di parole alcune. Mormorarsi un “andrà tutto bene,
non preoccuparti” senza
doversi affidare alla voce ed al suo tremore, ricercare e trovare
nell’altro la
forza necessaria per un ultimo atto di coraggio. Il tempo di un respiro
più
profondo, nulla di più, ed un fascio di pura energia esplose
dalle loro mani
tese, pronto a divorare il freddo candore che ancora li circondava.
Dardo insaziabile
che squarciò violento l’atmosfera, rubando loro
solamente altri secondi d’ansiosa
attesa, prima che un varco si aprisse davanti ai loro occhi increduli.
Dilatandosi pian piano, a fatica, sino a creare lo spazio necessario a
permettere il passaggio di una persona adulta. E non ebbero bisogno che
di
scambiarsi un fulmineo sguardo d’intesa, prima di lanciarsi
insieme in
direzione della voragine, ancora l’uno accanto
all’altra, ancora uniti. L’ultimo,
disperato sforzo, l’ultimo barlume d’energia,
per lanciarsi verso l’ignoto senza mai guardarsi
indietro, per svanire
in un lampo di luce bianca poco prima che il varco si richiudesse
dietro di
essi.
_______
-Riconosco questo luogo. Lo
riconosco, eppure continuo ad
avere una brutta sensazione.-
-Come se qualcosa non quadrasse.-
Tutt’intorno flebili se non inesistenti tracce di passata
presenza umana, sottili strati di polvere lungo la superficie di teloni
bianchi
a coprire quelli che ad un primo, rapido esame visivo, risultarono non
essere
altro che macchinari da tempo inutilizzati. Non più
l’odore penetrante di fumo
e carne bruciata ad appestare le narici, non un solo detrito ad
ostacolare i
loro passi, nessuna facciata dell’edificio spazzata via da
violente esplosioni.
La Asimov Tech. sembrava essere rinata e sepolta nel giro di poche ore,
totalmente ripulita da qualunque prova, da qualsiasi traccia che avesse
potuto
anche solo rimandare al disastro consumatosi tra quelle mura.
Com’era
possibile, cancellare e dimenticare una simile tragedia in
così poco tempo? Chi
mai sarebbe stato capace di una simile ingenuità?
Il silenzio tombale regnante venne spezzato da
un’imprecazione
soffocata di Sherin, mentre gli occhi di Piccolo continuavano ad
esaminare
attenti ciò che li circondava, registrando immediatamente
ogni nuovo dettaglio,
ogni minimo particolare; mentre la mente cercava di incastrare ogni
singolo
tassello di un puzzle ben più complicato di quanto avessero
creduto. Un dito
fatto scorrere lungo la plastica ingrigita di un telo, inoltre,
rivelò uno
strato di polvere più spesso e stratificato di quanto
intuito in un primo
momento, indizio freddamente rivelatore dello scorrere del tempo.
Quanto era
realmente accaduto, durante la lor assenza? Quanto tempo era passato,
durante
il loro “esilio” nel varco spazio-temporale?
La voce di Sherin giunse un poco distante alle sue
orecchie, la figura della donna perfettamente visibile nonostante
avesse raggiunto
–ed infranto con un calcio- una delle vetrate superiori, per
affacciarsi al
mondo esterno. Pochi attimi e fu nuovamente al suo fianco. Pochi attimi
ed una
nuova, inquietante consapevolezza iniziò a farsi strada in
loro; il gelo nelle
ossa ed il pavimento improvvisamente instabile sotto i piedi.
La città aveva mutato aspetto. Non radicalmente, certo,
ma sarebbe stato impossibile non accorgersi del maggior numero di
grattacieli,
della modernità più o meno lussuosa delle case,
dei modelli d’auto mai visti
prima percorrere le
strade sotto di
loro. Attorno al perimetro del laboratorio, invece, era stato eretto un
lungo,
alto recinto di sbarramento in filo spinato, così da
impedire l’accesso alla
zona a chiunque potesse essere tentato di sbirciare
all’interno dell’edificio.
Non fu necessario voltarsi verso la compagna, per percepire la sottile
ansia
crescerle sottopelle, insinuarsi nella sua voce e nel ritmo dei suoi
respiri,
nell’ombra scura che le calò sullo sguardo. In
loro assenza, il tempo aveva
continuato imperterrito la propria corsa, e non avrebbero
più potuto ignorare
quell’assurda verità. L’unico dubbio
ancora da sciogliere, quanto
esattamente.
_______
-Vuoi che lo faccia io?-
-No, non preoccuparti. Sto bene, è solo che ho paura.-
-Di che cosa?-
-Di quello che potremmo trovare al di là di questa
porta.-
La Capsule Corporation non aveva subito alcun
cambiamento, almeno non a giudicare dal suo aspetto esteriore. Al di la
dell’ingresso
principale era possibile udire il vociare ed il movimento al suo
interno, che
si trattasse di membri del personale quanto di elementi della stessa
famiglia
Briefs, ognuno di essi impegnato con la propria vita, ignaro di chi
stesse
attendendo solamente a pochi metri di distanza. Se solo avessero preso
coraggio, se avessero finalmente rivelato la loro presenza, chi
avrebbero
trovato ad accoglierli? Tormentata dal dubbio, dal timore di vedere le
poche
certezze ancora rimastele infrangersi per l’ultima volta,
Sherin rimase
immobile, incapace di compiere anche il gesto più semplice.
-Al diavolo.-
Con uno scatto, il dito indice di Piccolo premette più
volte contro il pulsante del citofono, lo stesso vecchio modello che la
famiglia
Briefs per tanti anni si era sempre rifiutata di rottamare per uno
più
efficiente e moderno. Un ricordo piacevole, tenero, che per qualche
istante
lasciò indugiare un debole sorriso lungo le labbra della
donna. Sorriso che si
congelò lentamente sul viso, quando finalmente la porta
venne aperta.
Davanti a loro una ragazza di circa sedici o diciassette
anni, il corpo dalle forme ancora un poco acerbe costretto dentro un
completo
scarlatto forse un po’ troppo aderente per la sua
età, le labbra prive di
rossetto curvate appena in un’espressione di totale
disinteresse. Non si
preoccupò minimamente di spezzare l’imbarazzato
silenzio calato non appena gli
sguardi dei due stranieri si erano posati su di lei, né di
smettere di gonfiare
e far scoppiare subito dopo bolle di chewing-gum di discrete
dimensioni. Gomma
rosa, capelli turchini.
-Mamma! Ci sono due tizi strambi
alla porta, secondo me
non parlano nemmeno la nostra lingua. Chiama papà, io non
voglio averci nulla a
che fare.-
Detto ciò si allontanò verso l’interno
dell’edificio,
senza una sola parola di commiato se non una linguaccia irriverente ed
una
scrollata di spalle, provocazioni che normalmente avrebbero irritato
entrambi
ma che passarono totalmente inosservati; spazzati via dalla disarmante
confusione che aveva impedito loro di pronunciare anche solo una
parola.
Incapaci di entrare, incapaci di tornare indietro, come impietriti
davanti ad
un luogo un tempo così familiare ed ora così
sconosciuto, quasi estraneo alla
memoria dell’istinto.
Non dovettero attendere a lungo prima di udire il rumore
leggero ed appena percettibile di nuovi passi, diversi da quelli che
poco prima
li avevano preceduti. Passi lenti, misurati, stanchi. Stanchi come le
ombre
scure sotto palpebre segnate delicatamente dal tocco leggero delle
prime rughe,
sottili e discrete come quelle ad incorniciare gli angoli
d’una bocca
morbidamente stretta attorno al filtro candido di una sigaretta ancora
spenta.
La donna teneva gli occhi bassi, chini ed attenti sul blocchetto fitto
di
appunti a pena stretto tra le dita di una mano, mentre le dita
dell’altra
continuavano a giocherellare con un accendino in plastica colorata. Il
blocchetto sparì in una tasca del camice e la fiamma
dell’accendino iniziava
già ad attecchire all’estremità della
sigaretta, quando lo sguardo di lei si
decise finalmente a sollevarsi per affrontare i due visitatori. Aveva
già
scacciato non pochi seccatori dall’inizio della giornata, e
di certo non
avrebbe riservato un trattamento di favore agli ennesimi rompiscatole
venuti a
bussare alla sua porta. Il congedo frettoloso già pronto
sulla punta della
lingua, tuttavia, parve spegnersi in gola non appena la memoria, la
consapevolezza, i ricordi si abbatterono su di lei come un fiume in
piena;
spazzando via tutto ciò che incontrarono lungo il loro
cammino.
Appena il tempo di mormorare un
“mio dio” strozzato, e le
gambe di Bulma cedettero improvvisamente sotto il peso del suo corpo,
senza che
la sua vecchia amica potesse soccorrerla in tempo.
_______
Il silenzio era diventato ormai di
rito, in quel giorno
surreale.
Tra le mura del salotto di casa Briefs, pesante ed
insostenibile come un macigno a pesare sul petto di ognuno dei
presenti, mentre
il posacenere in vetro sistemato sul tavolino continuava a riempirsi di
mozziconi di sigarette. Bulma già alla quarta da quando era
riuscita a
riprendere i sensi, Sherin alla prima dopo anni e ben sapendo quanto
Piccolo ne
detestasse il solo odore. Per quel giorno, però, entrambi
vollero concedersi il
beneficio di un’eccezione. Nessuno di loro ancora in grado di
parlare, di
chiedere o di dare spiegazioni, tutti e tre troppo stanchi per
indulgere nella
gioia di essersi ritrovati.
Ancora silenzio, ancora dolore. Sherin spense con un
gesto secco nel fondo del posacenere ciò che ancora rimaneva
della sua
sigaretta, le labbra contratte in una linea dura, sofferente, il cuore
lacerato
dai sensi di colpa. Era stato un incidente, una fatalità al
di fuori del loro
controllo, e chiunque tra i presenti in quella stanza era perfettamente
consapevole che, se doveva essere trovato un responsabile, altri non
era che
quel folle ragazzino reso imprevedibile da una mutazione genetica. Come
se si
fosse ricordata soltanto in quel momento della sua esistenza, Sherin
sollevò di
scatto il viso in direzione dell’amica.
-Che fine ha fatto Julius?-
La sua domanda non ricevette mai risposta. Bulma distolse
lo sguardo, fragile come mai Sherin l’avesse vista, lasciando
che il silenzio
inghiottisse ciò per cui ancora non aveva la forza
sufficiente a dilungarsi in
spiegazioni. Almeno per il momento.
_______
Lo schermo a cristalli liquidi,
ampio quasi quanto la
parete adiacente, fu probabilmente la prima cosa che catturò
la loro attenzione
non appena entrati nel laboratorio principale. Forse un ultimo modello
acquisito
di recente e da Bulma tenuto ben protetto dalle zampacce indelicate di
suo
marito, a giudicare da quanto appariva lucido e ben tenuto. Una volta
davanti
al palmare di controllo, Bulma sembrò perdere in un solo
istante tutta la
sicurezza faticosamente racimolata solamente qualche minuto prima: le
spalle
scosse da un lieve fremito, lo sguardo perso in chissà quali
riflessioni, così
fragile e smarrita dentro quel camice da uomo. Sherin mosse un primo
passo
nella sua direzione, incerta se dire qualcosa o soltanto abbracciarla,
stringerla forte a sé per assicurarla che no, non si
trattava di un sogno, e
che non avrebbe dovuto sopportare il dolore di un improvviso risveglio
nella
realtà. Prima che potesse compiere un qualsiasi gesto le
dita dell’amica
presero a muoversi lungo lo schermo del palmare, digitando codici,
aprendo
cartelle, sino a quando la schermata principale non mutò in
un uniforme
quadrante neutro.
Una, due, tre, quattro.
Una dopo l’altra, immagini di diverse dimensioni vennero
proiettate a formare un irregolare mosaico di momenti catturati
dall’obiettivo
di una diligente macchina fotografica. Nell’arco di una sola
manciata di
secondi diciotto anni di vita sbocciarono silenziosi davanti ai loro
occhi, inarrestabili,
narrati da fotogrammi belli e dolorosi come una stretta mortale al
cuore.
Diciotto anni negati da un solo gesto crudele ed egoista, diciotto anni
persi
per sempre e consegnati loro dalla generosa magnanimità di
chi invece era
rimasto. Di chi aveva avuto la possibilità di viverli anche
per chi non avrebbe
desiderato altro che esserne parte a sua volta. L’ultima foto
apparve al centro
esatto dello schermo, tanto grande da occuparne quasi una buona
metà. Il tempo
di un respiro, nulla di più, e nell’assordante
silenzio del laboratorio risuonò
chiaro e straziante il pianto soffocato di Sherin, solo una mano
premuta contro
la bocca a soffocarne i singhiozzi.
Nel suo sorriso, non una sola traccia di dolore.
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Grazie per aver aspettato, chiunque abbia avuto la pazienza di farlo.