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Autore: Blablia87    29/08/2016    7 recensioni
Cosa si può fare, in 180 giorni?
Alle volte, si può cambiare una vita intera.
[AU][Tematiche delicate]
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incompiuta
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 -155
 
“Professore, cosa ne pensa della Sindrome di Capgras?”
 
Uno studente del corso sui principi delle neuroscienze mi ha posto questa domanda, oggi.
 
Immagino di dover essere apparso davvero sorpreso, perché raramente chi frequenta il ciclo di lezioni di introduzione alla materia conosce patologie simili. E, in tutta la mia carriera all’interno dell’università, lui è stato il primo a far menzione di quella specifica malattia.
 
“Vuole sapere di cosa si tratti, o quale sia il mio parere in merito alla veridicità di molti dei casi annoverati sotto tale dicitura?” Ho chiesto, cercando di circoscrivere il campo il più possibile, in modo da poter fornire una risposta esaustiva ma non troppo articolata.
 
Lui è apparso confuso. “Entrambe, se possibile.” Ha ribattuto poi, dopo qualche secondo di esitazione.
 
Sono rimasto in silenzio, cercando di riordinare le idee.
Non analizzavo quella specifica condizione da molto tempo, e renderla chiara ad un gruppo di ragazzi con poca dimestichezza delle disfunzioni cognitive non è esattamente un compito semplice.
Si rischia di confonderli con paroloni inutili o, ancor peggio, di annoiarli.
 
Alla fine, mio malgrado, ho optato per la descrizione più banale - ma immediatamente comprensibile - tra quelle che affollavano la mia mente in quel momento: “Capgras syndrome: ovvero di come mio marito sia stato sostituito da un alieno.”
 
 
 
Sherlock avrebbe reagito con un’espressione disgustata, di fronte ad un sunto simile…
E io, invece, DEVO smettere di pensare a lui.
 
 
 
“Chi soffre di questa patologia neurologica è in grado di riconoscere le fattezze ed il volto dei propri cari ma, nonostante la familiarità, l’attivazione affettiva ed emotiva nei loro confronti viene completamente a mancare. Per esempio, un uomo può continuare a riconoscere correttamente la propria moglie, ma allo stesso tempo non provare più alcun sentimento per lei: una simile dissonanza cognitiva viene “risolta” dal paziente con un delirio, ossia con la ferma convinzione che il proprio caro sia stato sostituito da un impostore, un robot o un alieno che si limita ad assomigliare in tutto e per tutto alla persona amata.”
 
Nella classe si è sparso un basso brusio. Qualche studente distratto fino a quel momento ha iniziato a prendere appunti. Altri, invece, hanno sollevato le penne dai blocchi per poter ascoltare con più attenzione.
 
“È comunque qualcosa che studierete più in là, nei corsi avanzat—“
 
“Come reagiscono le persone, di fronte a questi “sosia”?” Ha chiesto ancora il ragazzo.
 
“Beh, spesso mettono in atto comportamenti aggressivi e violenti nei confronti di quelli che considerano a tutti gli effetti degli impostori, soprattutto in risposta a tentativi di mettere in discussione le loro convinzioni deliranti.”
 
Al termine di questa spiegazione sommaria si sono alzate molte mani, e la discussione si è approfondita ed ampliata via via.
 
Il ragazzo che aveva dato inizio a tutto, però, non è più intervenuto. Si è limitato ad osservarmi in silenzio, lo zaino sul banco e l’espressione distante.
 
Quando - alla fine della lezione - gli ho chiesto perché avesse fatto proprio quella specifica domanda, si è limitato a rispondere con un’alzata di spalle prima di uscire in fretta dall’aula.
 
 
 
Non so perché stia scrivendo tutto questo.
 
Forse perché sono quasi le due di notte, ed io non riesco a dormire. O forse perché una parte del mio cervello si ostina a non voler lasciare andare quel momento, come se la riflessione non fosse terminata al suono della campanella.
 
 
La sindrome di Capgras.
 
 
Perché mai dovrebbe essere tanto importante?
 
 
 
 


 
 
 
-155
 
“Mio marito è un alieno”.
 
Questa è stata la sintesi stringata di John alla mia domanda su cosa pensasse della sindrome di Capgras.
 
E - per quanto non mi sarebbe mai passato per la mente di definire una cosa tanto complessa in un modo così banale - quella frase dimostra in modo palese quanto bravo sia nel suo lavoro di insegnante.
 
La domanda lo ha spiazzato, è stato evidente: per una frazione di secondo la sua presa sul bastone si è allentata.
 
Era una richiesta particolare, in un contesto simile, e immagino che i suoi “recettori” alle potenziali fonti di argomentazioni interessanti abbiano vibrato, così come vedevo accadere quando era qui.
 
Ogni volta che un argomento fuori contesto emergeva dalle analisi che stavamo compiendo, le sue pupille si allargavano appena, ed il respiro diveniva più superficiale.
 
L’adrenalina viene rilasciata nel nostro corpo in vari modi e sotto la spinta di fattori scatenanti diversificati.
 
Immagino che discorrere di argomenti stimolanti sia il palliativo con il quale ha sostituito la violenta risposta emotiva provata durante gli anni nell’esercito.
 
Mi piace, quando il suo viso assume quell’aspetto.
 
Riesco a vedere sotto le rughe dell’uomo fiaccato lo sguardo del Capitano che, un tempo, è stato.
 
 
 
Avevo iniziato a leggere il fascicolo dell’ultimo caso poco prima che Mycroft decidesse di mostrarmi la lezione di John.
 
Dopo giorni passati per la maggior parte a letto, le gambe stavano venandosi di eritemi sempre più estesi, anticamera di gravi lesioni da pressione.
 
Avere nuove parti del mio corpo da sottoporre a tediose sessioni di pulizia e medicazione è l’ultima cosa che desidero, mentre sbatto tra le pareti di questa stanza come una mosca bloccata in un barattolo.
Ho ripreso ad analizzare i plichi, quindi, scoprendo - non senza una certa sorpresa - di non riuscire a concentrarmi in modo adeguato senza la presenza di John.
 
E, quando l’ipotesi della Capgras ha fatto capolino tra le righe dei verbali, ascoltare la sua voce parlarne è divenuta una necessità.
 
Non ho mai sentito l’esigenza di condividere pensieri e riflessioni con qualcuno, in tutti gli anni trascorsi a seguire tracce, collegare parole ai fatti e scoprire menzogne.
 
Ma con lui…
 
Non so nemmeno se si sia mai reso pienamente conto di quanta chiarezza portasse tra i miei pensieri, nella confusione organizzata del mio Mind Palace.
 
È come se non brillasse di luce propria, ma riflettesse e accrescesse quella che riceve da stimoli esterni, ampliandola in uno spettro di consapevolezza talmente… vasto, da risultare abbacinante.
 
Per quanto smielato e assurdo possa apparire è, per la mia mente, quanto di più vicino ad un brillante possa esistere.
 
Come lui, la sua “bellezza” nasce da una reazione banale, apparentemente priva di ogni interesse. Carbonio, nient’altro.
 
Come lui, la luce nasce dal suo essere diviso, frammentato.
 
 
 
Dio, quanto patetico può mai apparire, un ragionamento simile?
 
 
 
Come se scrivere parole del genere su questo schermo cambiasse la realtà delle cose.
 
Come se sentirlo rispondere ad una mia domanda posta tramite la bocca di qualcun altro servisse davvero a fingere di lavorare ancora con lui su questo caso.
 
Come se mi ridesse qualcosa, di quanto ho perso.
 
 
 
L’unica cosa alla quale è servita questa idiozia è stata vedere l’espressione soddisfatta di Mycroft mentre mi osservava pagare il mio pegno, ingoiando controvoglia pezzi di pane tostato e uova.
 
Basta.
 
 
 
 



 
 
 
-154
 
[19:46] Sto per staccare. Ti va una birra? GL
 
[19:48] Non è serata. Ma grazie lo stesso. JW
 
[19:50] Avanti John! È più di una settimana che esci di casa solo per andare a lezione! GL
 
 
[19:53] Sai, inizio a pensare che non avrei dovuto mandarti da lui. GL
 
 
 
[20:13] No… Forse non avresti dovuto. JW

 
 
 


 
 
 
-153
 
Credo di essere impazzito definitivamente.
 
Forse dovrei ricominciare ad assumere le pillole per dormire, e porre fine a questa ruota di elucubrazioni mentali senza alcun senso.
 
L’ultimo caso… quello che dovevamo iniziare ad analizzare con Sherlock prima che…
Prima che sapessi.
 
La sindrome di Capgras renderebbe comprensibili molti dei comportamenti messi in atto dalla sospettata.
 
In realtà, li spiegherebbe tutti.
 
È per questo, credo, che non sono stato in grado di allontanare del tutto quel pensiero dalla mente, in questi giorni…
 
Ma non è questo il problema. A preoccuparmi è il fatto che tenti di legare quanto successo a Sherlock, ancora una volta.
 
È come se fossi improvvisamente divenuto incapace di immaginare che qualcosa possa accadere nella mia vita senza che lui ne sia l’artefice, in qualche modo.
 
Sua la capacità di distrarre la mia mente dai fantasmi del passato.
Lui la causa del dolore che ho provato nello scoprire che volesse morire.
Suo il viso che compare nei miei sogni, rendendoli un’agonia dalla quale cerco ristoro nella veglia.
Suo il senso di estraneità che mi si è aggrappato addosso da quando sono di nuovo a Londra, come se avessi lasciato il mio involucro tra quei campi, portando con me solo nervi scoperti e scossi.
 
E sua, adesso, anche la risoluzione di un caso che neanche abbiamo affrontato insieme.
 
È assurdo.
Privo di ogni logica.
 
Ho vissuto più di quarant’anni portandomi dietro una sola certezza: chi fossi.
E, adesso, una conoscenza di poco più di dieci giorni mi ha modellato su una forma che non sapevo nemmeno di avere.
 
Mi sento rovente, piegato a forza sull’incudine di sensazioni che credevo dimenticate.
 
Ho bisogno di trovare il modo di riempire ancora una volta le falle. Devo rimanere a galla.
 
Eppure non faccio altro che imbarcare dolore, aspettando che l’ultima boccata di sale richiuda finalmente l’acqua sopra di me.
 
Come può, un uomo che ha deciso di morire, essere divenuto un faro per chi annaspa in cerca della sopravvivenza?
 

 
 

 
 

-153
 
John ha disdetto la lezione di oggi.
 
Ho guardato l’aula vuota riflessa nello schermo per qualche minuto, fino a quando l’uomo di Mycroft non mi ha chiesto se potesse andare.
 
Non mi piace vedere quella cattedra senza la sua borsa di cuoio poggiata sopra.
È John il cuore di quell’apparato di sedie e menti. Senza di lui, quel posto è solo una stanza.
Sbagliata. Spoglia.
Morta.
 
 
 
 
 
Questa mattina ho realizzato che la mano sinistra ha riacquistato una leggera sensibilità.
 
Il mignolo formicolava e, tentando di fermare la sensazione di fastidio che la cosa mi procurava, ho premuto con forza attorno alla falange. Sentire la pressione è stato inaspettato, tanto che per svariati secondi ho osservato il dito stretto nella presa della mano destra senza riuscire davvero a collegare il gesto con la reazione celebrale che stavo avendo.
 
“Conosci la leggenda del filo rosso del destino?”
 
Non so nemmeno perché sia stato quello il primo pensiero che ho avuto, poco dopo.
 
Quel ricordo risale alle estati della mia infanzia, passate all’ombra dei grandi alberi del giardino di mia nonna, seduto accanto a lei con qualche libro aperto sulle ginocchia sbucciate, le sue dita nodose ad indicare sulla pagina una specifica frase o parola.
 
“Ogni persona porta - fin dalla nascita - un filo rosso invisibile legato al mignolo della mano sinistra, che lo lega alla propria anima gemella. È un filo magico, sai? Non può essere distrutto in alcun modo.” Aveva detto, pizzicandomi appena il dito incriminato.
 
A ben pensarci dev’essere per quello, che proprio quell’immagine è riaffiorata dalle nebbie di un passato tanto lontano.
 
“Le due persone che il filo lega sono destinate, prima o poi, ad incontrarsi ed innamorarsi.”
 
Chissà se funziona ugualmente, quando una paralisi ti impedisce di sentire se dall’altro capo qualcuno tira o meno la fune, mi è venuto da pensare. Mia nonna inorridirebbe davanti a tanto cinismo, immagino.
 
La verità è che neanche un filo indistruttibile arresta una Caduta.
 
E, se muori senza averla incontrata, la tua anima gemella – così tanto predestinata a te - neanche se ne accorgerà.
 
Perché, poi, le persone tendano a rivestire l’amore di mantelli dorati che nascondano cosa in realtà sia, non riuscirò mai a capirlo.
 
Siamo macchine gestite da reazioni chimiche, innamorarsi non è un’eccezione a questa regola.
 
In un certo modo, sarebbe altrettanto romantico scendere a patti col fatto che l’odore di qualcuno attivi in noi recettori che giacciono inerti in presenza di altri.
 
Se sol…
 
 
 
 
 

 
 
 
 
[15:33] La sindrome di Capgras. JW
 
[15:35] Non credo di capire. SH
[15:36] Hai letto il fascicolo del caso Pierce? JW
 
[15:38] C’è un motivo in particolare, per cui dovrei discutere di cosa abbia fatto o meno con te? SH
[15:39] Lo prenderò come un sì. La moglie è affetta dalla sindrome di Capgras. JW
 
[15:41] Per quanto odi ripetermi, vedrò di fare un’eccezione per te: non credo di capire. SH
 
[15:43] E comunque non c’è alcun motivo per discutere del caso insieme. SH
[15:44] Te ne sei andato. SH
 
 
 
[15:53] Avresti dovuto dirmelo. JW
 
[15:55] No, non avrei. E non l’ho fatto. Cosa decido di fare della mia vita non è affar tuo. SH
[15:56] Come io decido di reagire alle tue scelte, allora, non è affar tuo. JW
 
[15:58] Non è la stessa cosa. Non sei tu quello costretto a convivere con un corpo che non riconosci. SH
 
[16:00] Sono davanti a Baker Street. Non so neanche come ci sia finito JW
[16:00] Anche se per qualche strano motivo, era più facile, quando eri qui. SH
 
 
[16:04] Hai ragione. Sono un egoista. JW
 
[16:06] No, sei un codardo. SH
 
 
[16:11] Sai… avrei preferito non conoscerti. JW
 
 
 
[16:15] Anche io. SH
 
 
 



 
 
Idiota. Sono solo un idiota.
 

 
 
 
 

-152
 
“Penso che dovresti parlargli. Spiegare.”
 
“Non vuole spiegazioni. Vuole solo che sparisca dalla sua vita. Cosa che mi chiedo ancora perché mi ostini a non fare.”
 
“Ascolta, conosco Sherlock da molto tempo. E so che se non desiderasse avere contatti con te, si limiterebbe a non averli.”
 
“Ho detto una cosa orribile, ieri. È… stato imperdonabile.”
 
“Ma ti ha risposto, giusto?”
 
“Certo. Due parole per sottolineare quanto anche lui detesti il fatto di avermi conosciuto.”
 
“John…”
 
“Sono un codardo, Sherlock ha espresso il concetto in modo egregio, come sempre. Spiegargli perché io lo sia, non sarebbe di alcun aiuto.”
 
“Non sei un codardo, maledizione. Sei un essere umano.”
 
“E lo è anche lui, per quanto ami atteggiarsi a macchina invincibile. Non gli serve che qualcuno gli riversi addosso il proprio vissuto. Ha già il suo con il quale fare i conti.”
 
“Senti - Dio, questa birra è orribile - senti, dicevo. Sherlock non ammetterà mai che tu abbia potuto migliorare la sua vita in un qualche modo ma credimi, lo hai fatto. Non c’è niente… di sbagliato, a fargli vedere le tue ferite. Lui non ha potuto evitare di farlo, e questo è qualcosa con il quale non è bravo a convivere. Mostragli che… come dire…”
 
“Vuoi che cerchi di muovere a compassione un uomo che ha deciso di morire?”
 
“No, dico che secondo me apprezzerebbe se “giocaste” ad armi pari… Dio, John, sei stato congedato da anni, e nemmeno io so cosa diavolo sia successo, laggiù. Sarebbe così terribile, lasciare almeno una parte di quel peso?”
 
“E dovresti lasciarla a lui? Io non voglio gravare su di lui in alcun modo, e…”
 
“Lui non vuole la tua compassione, John.”
 
“Io non lo compatisco!”
 
“In realtà è esattamente quello che fai. Lo proteggi, e preservi, come se fosse fragile ed indifeso. Pensi che lo apprezzi?”
 
“Io…”
 
“Se a metterlo su quella sedia fosse stata una mina in Afghanistan, gli avresti parlato di quanto successo in missione?”
 
“Greg…”
 
“Ne fai una questione di grado di sofferenza, ma non è così. Non ti aveva detto di aver scelto di morire perché non voleva che tu cambiassi la tua prospettiva su di lui, che lo trattassi in modo diverso, come un moribondo, o un pazzo. Eppure, per quanto tu non voglia, compatirlo è esattamente quello che stai facendo, fin da quando hai capito cosa stesse succedendo.”
 
“Tu non capisci… Io non… Non ha alcun senso, me ne rendo conto, ma… Io non voglio lasciarlo andare. Non ci riesco.”
 
 
 
“Allora smettila di scappare.”
 
 
 
 

 
-149
 
 
Avrò iniziato questa lettera almeno cinque volte.
Intestandola, non intestandola, provando un approccio distaccato ed uno più amichevole.
 
La verità è che non esiste modo corretto per raccontare il contenuto di queste pagine, per cui, alla fine, ho smesso di cercarne uno.
 
Mi hai chiesto che genere di militare possa mai essere stato.
La risposta è: uno pessimo.
 
La verità è che ho provato ad essere un buon soldato, ed un buon Capitano. Ma questo non ha impedito che ci assaltassero, e uccidessero quasi tutti i miei uomini in un’imboscata.
 
Essere sopravvissuto a loro è la mia pena, e non sarà mai troppo pesante, o opprimente. Nessun dolore mi proverà al punto da farmi sentire di averla espiata a dovere, rendendomi libero di lasciarla andare.
 
Sogno quello scontro quasi ogni notte, e negli occhi persi e vuoti che popolano i miei incubi e nei quali continuo a rispecchiarmi non c’è riposo, o perdono.
 
C’era un ragazzo, quel giorno… Il soldato Ross. Aveva poco più di vent’anni, sul viso l’entusiasmo e l’orgoglio di non essere più costretto a fare simulazioni, ma di essere diventato “un soldato vero”.
 
Il ginocchio destro fu la prima cosa che colpirono. Si piegò davanti a me con lo sguardo sorpreso, le labbra schiuse. Non credo che il dolore abbia mai avuto il tempo di raggiungere pienamente la sua coscienza. Lo tenevo stretto per le spalle, cercando di fare in modo che non cadesse, quando pochi secondi dopo un altro colpo gli oltrepassò la visiera.
 
Se chiudo gli occhi… vedo ogni goccia di sangue. Sono così nitide che potrei contarle. Così reali, che se allungassi una mano ne sentirei il calore, la viscosità.
 
L’ho lasciato cadere… Quel poco che ne rimaneva. Ho lasciato che toccasse il suolo, e si riempisse di polvere. Non faccio altro che pensare a questo.
 
Ci sono attimi in cui non percepisci niente, nemmeno te stesso. È come precipitare nel vuoto.
 
Il proiettile dentro la spalla non l’ho sentito fin quando la sabbia non è entrata nella ferita, e non mi sono reso conto di essere sdraiata tra le dune.
 
E allora ho pregato di vivere, perché se avessi avuto il fiato per respirare, lo avrei avuto anche per dare ordini per il rientro ai pochi uomini che potevano essere sopravvissuti.
 
La realtà è che non sono stato in grado di parlare. E che sono stati loro, gli unici due superstiti di quella carneficina, ad aver trovato me.
 
Non meritavo quegli uomini. Non meritavo il loro rispetto e non meritavo di sopravvivere a ragazzi con la metà dei miei anni.
 
La mia mente ha elaborato la zoppia come cilicio. Mi ha azzoppato, come se il primo proiettile di Ross fosse stato mio, non potendomi prendere il secondo.
 
È vero.
Sono scappato, quando ho saputo della tua scelta.
 
L’ho fatto perché non posso vivere accanto a qualcuno sapendo che ancora una volta una vita mi scapperà dalle dita.
 
L’ho fatto perché non riuscirei ad impedire a me stesso di tentare ogni cosa, pur di farti cambiare idea, e questo non mi renderebbe migliore ai tuoi occhi di chi ogni mattina cerca di trascinarti in bagno contro la tua volontà.
 
Tu... mi hai regalato un sonno senza fantasmi, e giorni senza catene.
Ed io sarei in grado di ripagarti solo con la mia paura.
 
 
Mi hai definito codardo.
Come vedi, non è che la verità.
 
E sono anche un bugiardo.
Ritengo l’averti conosciuto un privilegio.
Non mi aspettavo niente, da questa vita, e la sorpresa di un incontro come il nostro è più di quanto potessi augurare a me stesso. O ritenga di meritare.
 
Mi dispiace di averti deluso. Di averti lasciato solo.
 
Il tuo disprezzo sarà un altro peso del quale mi farò volentieri carico, se servirà a sapere di averti lasciato libero di vivere in pace la tua vita, in qualunque modo tu voglia condurla, o terminarla.
 
 
 
Mi manca Brahms, per quanto non l’abbia mai ascoltato prima di quel pomeriggio con te.
Mi piace il modo in cui la sua musica balla nei tuoi occhi, quando lo ascolti.
 
E mi dispiace che tu non possa vederti per come ti vedo io. Forse non detesteresti tanto la tua vita.
 
Ecco, questo è proprio il tipo di frasi che mi troverei a ripetere ad ogni ora.
Immagino già la tua faccia.
“Dio, John, dov’è finita l’infermiera? Meglio la rasatura coatta a sciocchezze simili!”
 
Sto divagando, me ne rendo conto.
Non sapevo come iniziare questa lettera, e ancora meno so come terminarla.
 
Penso che lascerò che a farlo siano le due parole che più occupano la mia mente se ripenso a “noi”. Dopo il tuo nome, chiaramente.
 
 
Scusami.
 
 
Grazie.
 
 
 
 
 



 
 
-148
 
[11:09] La signora Pierce è sicuramente affetta da Capgras. Ma per confermarlo ho bisogno del tuo aiuto. SH
 
 
[11:16] Sherlock… JW
 
[11:18] Ho bisogno del mio violino. SH
[11:19] E tu hai promesso che avresti trovato il modo di portarmelo. SH
 
 
 
 

Angolo dell’autrice:
 
Scrivere questo capitolo non è stato facile, per vari motivi. Primo fra tutti, la lettera di John. Come già successo, dar voce al suo dolore è stata un’esperienza densa, perticolare, e… totalizzante. Spero di essere riuscita a portare a voi un po’ di quelle sensazioni. Purtroppo, quando scrivo di getto, raramente riesco ad essere del tutto obiettiva sul risultato. ^_^’'
 
Poi, la comparsa qualche giorno fa di una storia improntata sullo stesso identico concetto dal quale questa è nata mi ha "spiazzata", diciamo.
 
Mi sono domandata se fosse il caso di continuare o fermarmi fino alla conclusione dell’altra, per non incorrere in confronti tra trame e sviluppi (com’è naturale che succeda) o confusione da parte di chi legge.
 
Dopo un bel po’ di riflessioni (e di pazienza da parte di adlerlock XD) ho ritenuto che interrompere non fosse la scelta giusta.
 
Amo questa storia, come amo da impazzire scriverla.
 
Finché vi andrà di seguirla, sarà qui per voi. :)
Ed io mi godrò il viaggio di trasformarla in parole fin quando non mi avrà condotta in un porto sicuro.
 
 
Quindi, come sempre, grazie a chiunque abbia letto fin qui. :)
 
A presto,
B.
   
 
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