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Autore: Silvio Shine    29/08/2016    0 recensioni
Rage.
Questo è il nome con cui mi conoscono ora.
Già, mi conoscono ma non sanno chi sono.
Chi sono?
O meglio.
Chi ero?
Prima che indossassi quel casco che maledico tutt’ora, ero uno studente, un sognatore, solo un’altra persona che cercava di rendere la propria vita migliore e sperava di viverla in tutto e per tutto.
Chi sono?
No.
Chi sono diventato?
Ora altro non sono che l’ennesima pedina in questa folle partita, dalla quale non so neanche se uscirò in vita.
Anzi.
Non so neanche se ne uscirò proprio.
Già, perché sono bloccato qui.
Da tre anni.
E con me siamo cinquecentomila.
Un numero destinato a decrescere sempre di più.
Sempre di più.
Qualcuno ci salverà?
Qualcuno farà accadere questo miracolo?
O forse…
Siamo noi che dobbiamo fare in modo da farlo avverare?
Silvio Shine non esiste più.
Ora esiste soltanto Rage.
Colui che ha giurato di porre fine a questo incubo.
[Disclaimer: questa fanfiction non si basa sulla storia originale di SAO, quindi non aspettatevi di vedere i personaggi originali della serie. Non sempre, almeno. Inoltre, si noteranno non pochi riferimenti ad altri anime, manga e videogiochi, quindi questa storia è anche da considerarsi "crossover".]
Genere: Azione, Introspettivo, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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« Shine! »

Mi riscossi immediatamente da quello che stavo facendo, solo per incontrare gli occhi incuriositi del mio professore di programmazione; costui, un quarant’enne calvo ed occhialuto, si avvicinò alla mia postazione, in laboratorio, dove, con tanto di sopracciglio inarcato, guardò lo schermo del computer da me occupato a lezione.

« Come va l’algoritmo? » chiese gentilmente; scrollai le spalle, reprimendo un grosso sbadiglio.

« Scritto e debuggato, » risposi, « ma è venuto un po’ lungo, quindi si sta prendendo il suo tempo, per compilare… »

« E cosa fai, nel frattempo? »

Feci di nuovo spallucce; « solo una ricerca su Google, giusto per ammazzare il tempo. »

« Mi raccomando, eh. » E se ne tornò al suo posto, permettendomi di scatenare quello sbadiglio in tutta la temibile potenza di cui era capace. Soltanto dopo circa trenta secondi la mia attenzione tornò alla pagina internet che avevo aperto poco più di cinque minuti prima. Circolare su MetaCritic come una sottospecie di non morto informatico era divenuta un’abitudine, durante le ore di programmazione, una che poteva benissimo rimpiazzare la camomilla e sonniferi vari; certo, leggere recensioni e novità riguardo il mondo dei videogiochi mi piaceva molto, ma il sonno causato da due o addirittura tre ore di lettura di recensioni tradotte malissimo era inevitabile. Specialmente quando nessuna di tutte quelle sezioni non aveva ancora rivelato nulla sul futuro video ludico del famigerato ed onnipresente NervGear, il miracolo della tecnologia virtuale.

Ovviamente, a causa della mia assai poca ricchezza, quando il marchingegno era stato per la prima volta lanciato sul mercato non mi era assolutamente possibile acquistarne uno. Poi, la fortuna: i corsi di informatica, grafica e addirittura meccanica di tutti i licei del mondo avevano reso obbligatorio l’utilizzo del NervGear durante specifiche ore di laboratorio; di conseguenza, non soltanto il prezzo era stato abbassato dell’ottantacinque percento per gli studenti, ma l’hardware era stato brutalmente potenziato, al fine di riuscire a sostenere ore ininterrotte di programmazione, disegno, test e quant’altro senza problemi. A dirla tutta, un problema in effetti c’era: il consumo energetico, al quale, però, i creatori avevano ovviato con una bella batteria interna, permettendo all’apparecchio di operare per due ore piene in autonomia.

Lo shock arrivò quando il nome del casco delle meraviglie venne rivelato, durante un tech expo. Ovviamente, noi giovani conoscevamo già il NervGear, e fin troppo bene, se è per questo.  Come? Grazie a uno degli anime giapponesi più appassionanti ed originali di sempre.

Certo, aveva ottenuto risultati altalenanti, ma Sword Art Online era riuscito a stregare migliaia, se non addirittura milioni, di ragazzi in tutto il mondo, specialmente grazie all’idea che componeva la sua anima: la prospettiva di rimanere intrappolati all’interno di un videogioco che, di punto in bianco e a causa di una mente malata, era divenuto una prigione per diecimila persone. Una prigione all’interno della quale la morte non era più il classico ciclo di HP azzerati e respawn, ma la realtà più assoluta. A detta di molti, la serie animata non era riuscita ad esprimere e sfruttare l’intero potenziale in suo possesso, e quindi abbia prodotto più delusioni che soddisfazioni; questo, però, non era, neanche lontanamente, lo stesso per me o diversi miei compagni di classe, gli unici con i quali potevo parlare di queste cose senza passare per un maledettissimo nerd accanito. Oltre a me, gli unici fan di quest’opera erano soltanto tre, tra di noi: Felix, un ragazzotto molto alto ed altrettanto magro, dai capelli neri che portava molto corti e dagli occhiali dalla montatura azzurra; non era un tipo molto studioso, e a buona ragione: il suo sogno non era diventare un programmatore, bensì un pilota professionista. Paolo, un giovine biondo scuro che era l’esatto opposto di Felix, con tanto di muscoloni tirati su durante gli allenamenti di rugby che aveva sostenuto quand’era poco più giovane; era un gamer appassionato, sì, ma durante le giornate aveva ben altro da fare. Infine, Filippo, detto Voky, a causa della sua curiosa somiglianza con l’omonimo YouTuber pugliese.

Con un sospiro profondamente annoiato, feci per chiudere la pagina e tornare al programma che avevo messo a compilare; « aspe’! » mi fermò Felix, che, appena mi vide muovermi per fare quello che stavo per fare, fece guizzare la sinistra con una velocità che farebbe impallidire anche Jigen Daisuke, il temibile pistolero dell’anime Lupin the Third, ed afferrò il mouse prima che riuscissi a fare nulla.

« Leggi qua, » con il cursore mi mostrò un articolo pubblicato appena ventiquattro ore prima, in fondo alla home di MetaCritic; lessi il titolo: « confermata la data di uscita di “project Art”, il primo videogioco ufficiale per la piattaforma NervGear.”»

Rimasi imbambolato come un idiota per quello che credei fossero almeno tre minuti. Poi: « …che? »

« Cosa, sei lento? » mi canzonò lo stecchino, « fanno un gioco per il NervGear! »

« E’ proprio di questo che non riesco a capacitarmi! » mi difesi, « prima ‘sta roba viene rilasciata solo per costringerci ad applicarci meglio nello studio e ora, dal nulla cosmico, viene fuori la notizia che sta per uscire un videogioco fatto apposta? Difficile da credersi. »

« Eppure è vero » si intromise Filippo, dalla mia sinistra, « dicono che sarà un gioco fantasy medievale in prima persona, con combattimento stile action, le armi saranno esclusivamente spade e archi… »

« Collega i puntini…! » Paolo riemerse dal suo codice e non tardò ad aggiungersi alla conversazione.

« Che intendi…? » ma le parole mi morirono in bocca, quando mi resi conto cosa stessero cercando di farmi capire. « Mi state dicendo che questo qui è un riadattamento reale di Sword Art Online? »

Gli altri tre alzarono le mani al cielo per ringraziare il Signore, appena prima che li mandassi tutti a quel paese.

« Quand’è l’uscita, allora? » domandò vagamente Felix e cliccò sull’articolo in questione; passarono diversi secondi e riuscimmo a leggere le poche righe stese dall’admin del sito:

Gente, ci siamo: dopo uno dei beta test più celati di sempre, il famigerato “project Art” ha una data di nascita, che è stata fissata per il diciotto ottobre duemilaventidue. Ovviamente non è trapelata nessun’altra notizia riguardo il gioco vero e proprio, ma i sospetti di giocatori di tutto il mondo che questo progetto segreto possa davvero risultare in un reale Sword Art Online non fanno che aumentare e aumentare, specialmente con la annunciata, iniziata e più che inoltrata fase gold. Ma saremo tutti pronti all’eventuale uscita di un titolo che rivoluzionerà il mondo del gaming moderno? O meglio ancora, riusciremo a sopportare una più che probabile e devastante delusione?

Qualunque sia la domanda che gli appassionati sparsi per tutta la faccia del globo si stanno ponendo, una cosa è certa: tra poco meno di una settimana scopriremo se potremo esplorare tutti e cento i piani di Aincrad, oppure ci ritroveremo con il classico pugno di mosche.

Subito accanto era piazzato il punteggio che project Art aveva già ottenuto, ancor prima dell’uscita: uno sfacciatissimo novantanove. Non avevo mai visto un singolo gioco con un punteggio che sfiorava il tetto di MetaCritic, specialmente non una leggenda metropolitana. Leggenda che, in cuor mio, speravo davvero corrispondesse al vero.

Feci una smorfia dubbiosa: mi sarebbe davvero piaciuto metterci sopra le mani, ma il mio portafogli piangeva al solo pensiero di organizzare una serata in pizzeria, figuriamoci comprare un titolo che valeva addirittura ottanta euro, in uno degli unici due GameStop di Reggio Calabria, la città in cui vivevo da dodici anni, molto più tempo di quanto ne abbia trascorso nel mio paese natale.

« Beh, forse se attingessi dai miei risparmi nascosti… » mugugnai a malapena, ma fu più che sufficiente affinché gli altri tre mi udissero e sghignazzassero.

« A dire il vero, noi l’abbiamo già preordinato » si vantò Voky; lo guardai, occhi e bocca spalancati. « Cazzate » sibilai tra il furioso e il disperato.

« Infatti, sono cazzate, » Paolo rise di gusto, « solo i beta tester hanno diritto al preordine del gioco, quindi a noi toccherà far la fila… »

« Non è una prospettiva invitante, in effetti… » commentai. L’istante dopo, l’idea: « ma potrei farmelo portare direttamente a casa… »

« Acquisto online? »

« Perspicace, un bel pupazzo a Felix che ha capito cosa intendo fare! »

 

 

Mi sedetti sul divano con un grosso gemito di dolore; sfortunatamente, mia madre non aveva mai avuto la possibilità di affrontare l’esame per la patente ed eravamo troppo poveri per acquistare un’auto, quindi ero costretto, ogni santo giorno, a camminare, andata e ritorno, a scuola. E non era esattamente vicino al quartiere nel quale vivevamo.

Appena riuscii a poggiare le natiche su quel soffice paradiso, i miei cani Jack e Luka, rispettivamente un Pinsher di quattro anni e un Pastore Maremmano di due, si fiondarono sui cuscini poggiati appena accanto a me e subito si scagliarono nella direzione opposta, inseguendosi in una corsa furibonda; il mio primo istinto fu di abbracciare la borsa contenente il mio NervGear, pronto a proteggerlo al costo della vita: quell’affare, anche con l’ottanta percento di sconto al quale avevano diritto gli studenti, costava un diamine di occhio della testa!

Quando l’attacco ebbe finalmente termine, mi alzai con cautela e posai il casco-console nell’armadio dove tenevo tutti i miei libri di scuola, nella speranza che lì sarebbe rimasto al sicuro; dunque mi distesi su quello stesso divano, troppo stanco perfino per pranzare, accendere la PlayStation o prendere un libro da leggere. Grugnii dal sonno. Avrei potuto benissimo addormentarmi lì, con le gambe gettate una sul comodino lì accanto, una sullo schienale del divano e le braccia un po’ per conto loro, come una qualche ridicola bambola di pezza buttata lì da un bambino dispettoso. Se non fosse stato per un piccolissimo problema: se nel malaugurato caso dovessi dormire per un intero pomeriggio, avrei considerato tutto quel tempo sprecato inutilmente.

Fu solo ed esclusivamente per questo motivo che mi costrinsi ad alzarmi nuovamente, andare all’armadio di prima, prendere la borsa con il NervGear e riaccasciarmi. Tirai l’apparecchio fuori dal suo involucro di stoffa e plastica termoindurente e me lo poggiai sulle ginocchia per qualche secondo, pensando a cosa farci, oltre a collegarlo ad una presa di corrente, in modo da prepararlo per l’indomani. Non smettevo mai di meravigliarmi del fatto che una cosa dall’apparenza così semplice contenesse una tecnologia così maledettamente avanzata: a detta del libretto di istruzioni, una volta indossato questo avrebbe dovuto quasi letteralmente scollegare le funzioni cerebrali dal corpo fisico. Cos’intendo dire: in virtù alla miriade di complicati emettitori di microonde, il NervGear convinceva il cervello che il corpo che stava comandando era all’interno del mondo ricreato dal primo, quindi, nel caso in cui fossi, per esempio, in una simulazione di guerriglia urbana (sì, esistevano già. Il motivo, apparentemente, era la preparazione ad un possibile attacco terroristico alle scuole. Ma valli a capire), la mia mente sarebbe stata forzatamente convinta che quello che stava accadendo era reale e avrebbe dovuto muovere le proprie membra in modo da fuggire e sopravvivere. Se dovessimo metterla sotto termini più semplici, ci teletrasportava quasi fisicamente nel mondo artificiale.

Possedevo diversi corsi di studio per il NervGear, tra cui l’assemblaggio e disassemblaggio di computer, con tanto di descrizione dettagliata di tutte le componenti, esplorazione di edifici e siti storici riprodotti con fedelissima grafica 3D e molte altre cose interessanti. Ma ero tra gli innumerevoli studenti che si erano lamentati (e parecchio) del fatto che esistesse perfino un dannatissimo corso di matematica. Ancora ricordo le notti passate in bianco dopo una sessione di almeno quattro ore di questa roba, con numeri e formule che mi apparivano dietro le palpebre ogni volta che tentavo di addormentarmi; sì, era buggato. Pesantemente.

Per fortuna avevo acquistato un paio di corsi di arti marziali. Potete immaginare l’ira dei maestri dei dojo di tutto il mondo, quando il primo corso di Tae-Kwon Do fu messo in commercio e fece il tutto esaurito in meno di una settimana. Io, invece, avevo optato per Kung Fu, Judo, Combattimento ravvicinato della Marina Militare e una demo di Ninjutsu, nel quale ero abbastanza abile. Ogni giorno, quando non avevo nulla da fare o un minimo di tempo libero, mi immergevo in uno o due di questi, finendo, talvolta, per rimanerci non poche ore, ad esplorare ogni singolo aspetto di tutte le tecniche nascoste in quelle arti che fin da bambino avevo così tanto bramato. Inoltre, un programmatore neo laureato, nonché mio amico, aveva perfino creato un programma di Parkour, che, però, non venne mai commercializzato perché troppo pericoloso. Stupidaggini, ci siamo detti entrambi, e mi ha dato una copia in dono, con mia immensa gratitudine, dal momento che per due anni interi mi ero allenato in questa disciplina, ma a causa di una inarrestabile serie di eventi che hanno sconvolto la mia vita, fui costretto a porvi fine. Fino ad ora.

Con una scrollatina di spalle, indossai il NervGear sulla testa e mi distesi comodamente; una volta acceso l’apparecchio, pronunciai: « Link start. »

Dopo un turbinio di colori, mi ritrovai in una stanza completamente bianca, salvo per una dozzina di colonne di colori diversi ad altezza di bacino, che spuntavano dal terreno. Quelle erano le applicazioni pre-installate dai produttori; quello che mi interessava, però, era l’app che avevo appena inserito nell’hardware, il corso di Kung Fu. I software erano distribuiti sia in copia digitale che copia fisica, sotto forma di Micro SD, che si inserivano in un minuscolo scomparto che si trovava vicino all’orecchio destro, sulla superficie del casco. Era proprio a causa di queste dimensioni ridotte che parecchi utenti si erano ritrovati a perdere cartucce su cartucce, e quindi finivano per preferire l’installazione digitale.

Toccai con i polpastrelli una colonna arancione, che immediatamente si aprì fino a raggiungere le dimensioni di uno schermo da settanta pollici. Presentava il titolo del corso di arti marziali e un tasto che confermava l’avvio di quest’ultimo; se mi fossi allontanato di un passo, in quel momento, lo schermo sarebbe tornato ad essere una colonna.

Sfiorai il tasto di avvio e mi venne chiesto di chiudere gli occhi; questo perché, apparentemente, durante i primi test gli utenti si erano ritrovati a vomitare, durante i caricamenti. Il problema non impiegò molto ad essere risolto: era sufficiente tenere le palpebre chiuse fino a nuovo ordine e tutto andava bene, senza essere costretti a rivedere il proprio pranzo.

Il messaggio “prego, aprire gli occhi” apparve poco dopo ed io ubbidii.

Ma quel che vidi non era il menù di selezione della modalità di allenamento. No. Quello che vidi era tutt’altro: in una stanza questa volta nera come la pece, un avatar per tutorial stava in piedi dinanzi a me. Un avatar per tutorial era una sorta di manichino di colore azzurro, senza volto o fattezze che contraddistinguevano un essere umano dall’altro, dal momento che, come dice il nome, il loro unico compito era illustrare le funzioni al primo accesso al NervGear oppure quelle nuove dopo aggiornamenti del firmware importanti.

L’avatar era perfettamente fermo. Proprio quando mi chiesi se il corso di Kung Fu si fosse buggato (cosa che accadeva piuttosto spesso, in effetti), questi proferì parola: « la profezia sta per divenire realtà, giocatore. Sarai il nuovo Spadaccino Nero, oppure morirai come tanti altri faranno? »

Spalancai gli occhi; di che diavolo stava parlando?! Non solo quelle due frasi non avevano un reale senso compiuto, ma suonavano ancor più strane, pronunciate da un avatar per tutorial! Avrei chiuso un occhio, se quella fosse stata una trovata pubblicitaria, ma sapevo ormai che gli annunci comparivano esclusivamente come messaggi privati e se l’utente aveva acconsentito a riceverli. Tutto questo era fin troppo assurdo; volevo soltanto allenarmi un po’ nel Kung Fu, prima di riprendere sotto mano il codice che avevo iniziato a scuola, ma forse ero stato troppo incosciente, nell’entrare in alcuni siti non autorizzati per programmatori e quello era un hacker sotto mentite spoglie.

« Sparisci dal mio NervGear, avanzo di imbecille! » latrai una volta ritrovata la parola, « prima che ti denunci! »

Allora, l’avatar sollevò la sua mano senza dita, aprì il menù dei messaggi privati spedì qualcosa. Un secondo più tardi mi arrivò una notifica di Messaggio Privato Ricevuto da Utente sconosciuto; con un ringhio selvaggio stampato sul volto, aprii la missiva digitale: conteneva un algoritmo scritto in Java, ancora da compilare.

« Avvia questo sul tuo computer e forse capirai » queste furono le sue ultime parole, subito prima che sparisse nel nulla, lasciando spazio alla selezione d’allenamento che cercavo prima di incontrarlo. Scossi il capo, già dimenticante dell’intera faccenda.

 

 

« Felix, te l’ho già detto stamattina: se modifichi la variabile dodici senza cambiare nulla della funzione che la coinvolge, manderai in crash l’intero programma! »

« Aspetta, ripeti, che mio fratello non ci crede! »

Finalmente, dopo un paio d’ore di duelli nel corso di arti marziali, mi ero messo al lavoro sull’algoritmo che avremmo dovuto riportare compilato l’indomani a scuola. E Felix aveva problemi a scrivere il codice, perciò mi aveva chiamato al cellulare per chiedere spiegazioni e, magari, scroccare qualche riga già creata.

« Whoa, ma sei tu che hai dubbi, oppure Nick? » chiesi al microfono degli auricolari, interrompendo per un secondo la programmazione, un sopracciglio inarcato dal sospetto; dall’altra parte del filo si sentì distintamente il mio compagno di classe deridere il proprio fratello maggiore, che subito lo mandò a cagare e lasciò la stanza.

Il ragazzo rise di nuovo e si rivolse a me: « allora, che intenzioni hai per project Art? »; grugnii. « Posso decisamente comprarlo, ma ho alcuni dubbi, riguardo la sensatezza dell’acquisto. »

« Eddai, è un Massive Multiplayer! Lo compreremo tutti e quattro, quindi ci divertiremo molto! »

Sospirai. Avevo tutta l’intenzione di far mio questo fantomatico “presunto Sword Art Online”, ma, curiosamente, avevo un tremendo presentimento a riguardo.

« Qual è il problema, scusa? » chiese poi l’altro, poggiandosi sul letto con un sonoro tonfo. « Prova a pensarci e magari ti insospettirai anche tu: non è mai esistito un videogioco per il NervGear per quanto, due anni, ovvero fin da quando è stato messo a forza nei negozi ed ora se ne escono fuori con un titolo che, almeno in teoria, dovrebbe rivoluzionare questo piccolo grande mondo. »

« Arrivi al nocciolo, per cortesia? »

Ringhiai dalla frustrazione. « Intendo dire che è assai improbabile che sia un gioco. Ho le mie ragioni per credere che ci ritroveremo con un altro, pallosissimo sistema di didattica, fidati. »

« O magari ti stai cagando in mano, pensando a quello che è successo nell’anime. » Felix mi prese in giro, come ogni volta che esplicavo una delle mie congetture. Eppure, la derisione dello stecco ambulante corrispondeva, almeno in parte, al vero: la prospettiva di ritrovarmi la mente intrappolata all’interno di un videogioco e dal quale era possibile uscire esclusivamente morendo oppure concludendolo mi spaventava a morte. E questa era una delle poche ma convincenti ragioni che mi stavano facendo intuire che c’era qualcosa di seriamente malato e, in qualche modo, pericoloso, dietro project Art. Forse mi sbagliavo, ma quando il mio istinto mi dice qualcosa, lo fa ruggendo ad un volume indefinito, talmente alto che talvolta mi sorprendevo che le persone a me esterne non riuscivano a sentirlo.

Imprecai. Quasi avrei voluto non aver letto quell’articolo di MetaCritic. Allo stesso tempo, però, i miei pensieri suggerivano che il gioco, forse, sarebbe valso la candela.

« Vedremo. C’è ancora un po’ di tempo, prima del day one. Prenderò una decisione per allora. »

Felix, dopo un leggermente seccato va bene, staccò la chiamata.

Terminai l’algoritmo mezz’ora prima di cena; assonnato e con la testa dolorante, risistemai tutte le mie cose nello zaino e mi assicurai che il NervGear stesse ricaricandosi propriamente. Mentre le mie dita e i miei occhi indugiavano sulla superficie liscia di quel marchingegno così sofisticato, così avanzato da apparirmi quasi alieno, a me, un gamer che proveniva dall’era del Sega Master System, NES, SNES e compagnia bella, anche se non così vecchio, ripensai a quello che aveva detto l’avatar:

La profezia sta per divenire realtà, giocatore. Sarai il nuovo Spadaccino Nero, oppure morirai come tanti altri faranno?

Cosa intendeva dire con profezia? E chi diavolo era questo Spadaccino Nero che, secondo lui, sarei dovuto diventare al fine di sopravvivere a qualsiasi cosa stesse riferendosi?

Ancora arrovellato, misi il casco al sicuro dai cani e andai a cenare.

 

 

« Raga, ho sentito che riceveremo un nuovo sistema di didattica, » comunicò uno dei miei compagni di classe facente parte della fetta dei fighi ai suoi amichetti, che subito presero ad imprecare a manetta.

« E che sistema è, questa volta? »

« Hanno detto in televisione che si chiama “proget Arr”, o qualcosa di così. »

« Che palle, non voglio altra roba per ‘sto coso! » un altro schiantò la propria borsa contenente il NervGear al muro, furibondo.

« Cosa, non ti unisci a noi, Silvio? » fece il primo a parlare, rivolto a me; scossi il capo. « Meglio che esegua qualche altro test sul programma che dobbiamo portare all’interrogazione di oggi » risposi, accendendo il mio telefono, all’interno del quale avevo inserito una copia esatta dell’algoritmo del giorno prima, desideroso di non immischiarmi in discussioni in cui si sfracellavano caschi ipertecnologici al muro.

« Che nerd… » lo sentii sibilare ad un’altra compagna, ma lo ignorai. Piuttosto incominciai a scervellarmi per trovare l’incongruenza nella riga sessantadue che provocava un errore di lettura…

Qualcuno afferrò la mia borsa, per dispetto; lo anticipai e, senza volgere lo sguardo, mi ripresi tutto, causando qualche esclamazione stupefatta.

Forse se avessi eliminato la variabile della riga quarantasette…

Quello che voleva infastidirmi tentò di strapparmi il NervGear di mano. Lo fulminai ancora e calciai la sedia che mi stava dinanzi, colpendolo alle rotule e facendolo quasi cadere.

No, così era ancora peggio. Avrei fatto meglio a riscrivere le parti che ho eliminato prima…

« Ah, spero che un giorno ci morirai, con quei cazzo di videogiochi! »

Morirai.

Questa parola mi riecheggiò nel cranio. Ma non mi aveva impressionato, tanto meno offeso. No. Quello che era riuscita a fare era far scattare qualcosa, nella mia mente, qualcosa di inaspettatamente illogico, folle ma anche sensato. Qualcosa che neanch’io, per quanto mi potessi sforzare, riuscivo a comprendere in alcun modo. Posai la borsa sul pavimento subito accanto a me, al sicuro da mani indesiderate, e mi massaggiai il mento, nel tentativo di intendere cosa il mio cervello stesse cercando di comunicarmi.

Magari l’avvertimento dell’avatar c’entrava qualcosa?

Scossi il capo: quello doveva essere stato un bug di sistema, una trovata pubblicitaria era sfuggita al controllo del suo creatore, o qualcosa di simile. Poi mi ricordai dell’algoritmo che mi aveva spedito tramite messaggio privato. Tutti i messaggi ricevuti su NervGear venivano salvati su un cloud privato, quindi avevo accesso al backup ogni volta che lo desideravo e da qualsiasi dispositivo. Avrei potuto accedervi anche dal cellulare, in quel momento. Facendo una smorfia come per dire “okay, facciamolo”, eseguii il log-in al mio cloud e ne recuperai l’algoritmo.

Leggendolo così non presentava nulla di anomalo, salvo per il fatto che sembrava essere una sorta di orologio. Incuriosito, compilai il codice che, nonostante la considerevole mole, impiegò veramente poco a far apparire il programma pronto.

Il nome dell’applicazione, All’inizio della fine, non prometteva nulla di buono; essendo, però, un codice grezzo non avrebbe dovuto presentare alcun tipo di spyware, quindi cercai di mantenere la calma, mentre attendevo che l’avvio avvenisse.

« Ehi, ragazzi, buongiorno, » Paolo arrivò in classe, tutto trafelato e Voky e Felix si risvegliarono dal loro letargo pre-scolastico per salutarlo. Non capitava spesso, ma perfino quel pignolo arrivava in ritardo a scuola, specialmente a causa degli orari sballati degli autobus. Sfortunatamente, le gambe di qualcuno non hanno bisogno di manutenzione, quindi il sottoscritto poteva assentarsi da scuola esclusivamente se in punto di morte.

« Allora, caro Shine, sai cosa fare per project Art? » chiese, dopo essersi sistemato a posto; lo guardai. Molto più spesso, invece, capitava che Paolo si divertisse ad infastidirmi con domande costanti, alle quali non ero ancora riuscito a rispondere. Per questo parecchie nostre discussioni terminavano spesso con un “hai creato il tuo primo videogioco?”, oppure un “quando ti compri la moto?”.

Lo mandai a quel paese, stiracchiandomi le braccia.

« E questo cos’è? » fece Voky, sistemi completamente riattivati. Stava indicando lo schermo del mio telefono, che avevo momentaneamente abbandonato sul banco. Poggiai lo sguardo dove stava puntando il dito.

E rimasi di stucco.

Su quello schermo, stilizzati come un orologio a tasselli, era possibile leggere diversi numeri.

No.

Quelli non erano semplici numeri.

Tre giorni, ventidue ore, cinquanta minuti, tre secondi.

 

 

 

   
 
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