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Autore: ElideWM    30/08/2016    0 recensioni
C’è una stanza che non ho mai toccato; ce n’è una che non ho mai voluto cambiare.
In questa stanza i miei quadri sono rimasti di spalle, le mie spalle scoperte. Aveva le pareti bianche e non ho avuto idea di usarle come tela, mai. Scricchiolavano le assi di legno, alcune erano addirittura staccate, ma avremmo pagato per avere delle assi del genere a sostenere il nostro materasso, che invece era buttato a terra, gonfio di polvere. La toppa della porta difettosa e la chiave non girava mai; Il mio mondo girava, vorrei dirti adesso.
Il mio mondo girava.
Genere: Avventura, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La sistemazione della tappezzeria, la riparazione della caldaia e nuovi scaffali in legno ancora poggiati a terra assieme ad una massa infinita di viti e istruzioni, era questa la condizione della nostra casa ormai, da un paio di settimane gli operai erano un gran via vai e le stanze erano pregne dell’odore di intonaco e di pittura.

Sistemati a terra, poco distanti, tra quei follami di oggetti, uno, due ragazzini tutti chiacchiere. Osservai i due ragazzi spostare le viti da terra, confonderle con le loro costruzioni, sembravano di gran lunga preferire giocare con quelle che con i loro mattoncini. Mio marito era in piedi, dirigeva i lavori degli operai con una mano sul fianco e l’altra che reggeva il suo foglio delle istruzioni, non aveva neppure potuto pensare che per i nostri figli sarebbe potuto rivelarsi pericoloso giocare con quegli arnesi.

“Abbiamo anche da tingere il soffitto” dissi ad alta voce cercando di farmi ascoltare da mio marito, era una constatazione fatta ad occhi stanchi, lì, su due piedi, giusto per dir qualcosa.

 Erano giorni che quella casa era in fermento e anche di notte, proprio come ora, si faticava a dormire serenamente, devo essere onesta, il mio fisico risentiva di questa condizione. Mio marito era il solito uomo imperturbabile, aveva sempre un aspetto fresco, le mie occhiaie, i miei capelli fragili, raccontavano una storia completamente diversa.

L’uomo annuì appena ma la sua espressione rimase seria “Io lo metterei più a destra quello” spiegò agli operai, era evidente che prendesse davvero sul serio quei lavori, poi tornò con il viso sul foglio delle istruzioni dell’ennesima mensola.

Quei giorni comunque mi avevano, se non altro, permesso di scoprire di mio marito dei lati che non avrei mai creduto appartenergli, così la prima cosa di cui accorsi quando cercò di montare la sua mensola era che si trattava di un uomo assolutamente impedito per i lavori manuali, ma se si fosse trattato solo di questo, sono certa, sarei passata su con tranquillità. Era anche un tipo nervoso, aveva impiegato tre quarti d’ora per il lavoro e per tutti e tre i quarti d’ora fummo costretti ad ascoltarlo bofonchiare ed inveire. Era in momenti come quelli che io pensavo a come sarebbe stato sposare un altro uomo, con delle qualità diverse, una propensione per i lavori manuali e chissà, magari uno meno irascibile.

Non potevo fare altro che sentirmi in colpa, era colpa mia, infatti, se adesso mi ritrovavo a condividere la fede nuziale e il letto con un uomo con la quale non volevo condividere neanche la stessa aria, così come ero certa che quel bofonchiare, a qualche altra donna, sarebbe stranamente piaciuto da morire. 

“Ragazzi, andate a dormire, su” incitai sulla soglia della porta, i ragazzini seduti a terra sembrarono annoiati dal mio ordine ma erano anche loro visibilmente stanchi, sbraitarono un po’, come il padre, poi silenziosi capirono cosa fosse la cosa giusta da fare, coscienziosi come me.

Solo in quel momento l’uomo si accorse davvero della donna “Oh ma, anche tu dovresti dormire cara, cosa ci fai qui?” domandò

“Sì, io adesso torno a letto” risposi sistemandosi una ciocca di capelli castana dietro le orecchie.

“Papà, la buona notte?” chiese il più piccolo, subito l’altro lo imitò “La buonanotte” esclamò a braccia aperte avvicinandosi al padre.

Mi fermavo a guardare spesso i gesti di mio marito in quelle occasioni e tentavo di recuperare qualche ricordo dal passato, ormai sepolto.

Questi diede un bacio sulla fronte ad entrambi i ragazzini ma non si concesse ad altre coccole e ad altri giochi. I due ragazzini sapevano, dal canto loro, che quella era la sua dimostrazione d’affetto più estrema e che scherzare mentre lui era intento con il lavoro non era nelle sue corde, quindi saggiamente mi vennero incontro e tornarono nella loro stanza da letto.

Appoggiata alla porta del corridoio, continuai ad osservare quello che era diventato mio marito e la lunga catena di situazioni e scelte che mi avevano portata lì in quella casa, lì con lui, intanto torturavo la catenina al collo, non era stato certo lui a regalarmela e proprio per questo, forse, io ci giocavo così spesso.

“Vai a riposare, io ti raggiungo, tranquilla” spiegò l’uomo, ma io non volevo essere raggiunta, non ero certo lì per osservare lui, per aspettarlo, io quella sera volevo raggiungere e non essere raggiunta.

Osservai le piccole macchie gialle che tappezzavano il soffitto della sala, erano lì, sopra il capo di mio marito, erano ancora più vicine agli occhi degli operai, alti, sulle scale, ma nessuno sembrava curarsi di loro.

Mio marito le notò benissimo il primo giorno in cui lo portai a vedere l’abitazione, storse il naso guardandole e scommetto che pensò “quelle vanno proprio eliminate” ma da quel giorno, scommetto con la stessa intensità, che poche altre volte vi si soffermò con lo sguardo.

Ed io posso sembrare pazza e a costo di sembrarvi, devo confessare che quelle macchie sono la cosa più bella che in questa stanza ho, di là ci sono i miei bambini, e non potrei dire lo stesso, ma ora, qui, non c’è davvero nulla che possa competere con loro. Degli infissi color ciliegio, un vaso di cristallo, regalo di mia suocera, sì, c’è mio marito e delle tende pregiate che aspettano solo di fare la loro figura appese sul bastone dai pomi d’acciaio, ed il valore che per me hanno quelle macchie è qualcosa che va ben oltre.

Seguii con lo sguardo quello sciame giallo, fin sul mio capo, a tratti più scuro, a volte quasi invisibile, ovunque riuscivo a vederlo perfettamente, poi mi voltai, ubriaca mi feci condurre da loro per il corridoio, erano anche lì, in quel corridoio stretto, reso ancora più stretto dagli sgabelli imballati. Sentii una voce riempire la stanza, poi ascoltai la sua, era proprio lì, proprio lì, la sentivo con la stessa chiarezza con cui sentivo il vociare degli operai alle mie spalle.

Mi riconobbi in quella voce ma era una voce che non esisteva più, era leggera, scanzonata. Udii una risata sfociare in un’altra risata, gli occhi puntati su quelle piccole macchie, ora si nascondevano dietro la porta della camera, era da lì che veniva anche il vociare e quelle risate, aprii la porta senza domandarmi nulla e senza aspettarmi niente, ma rimasi intontita quando scoprii quella pozza scura sulla mia testa, non era più gialla, come nelle altre stanze era stata, era scura, quasi grigia, non ricordavo ci fosse stata una macchia del genere. La tenda svolazzava per la stanza ed una finestra sbatté con velocità, si chiuse un attimo con una folata di vento, e la folata fu talmente forte che la fece riaprire con ancora più insistenza.

Sentii una goccia cadermi sul naso, alzai gli occhi. “Sì” sussurrai per poi sgranarli, adesso ricordavo, ora sì, cercai immediatamente con le mani di pescare sulla mia pelle quella goccia, ma non ne trovai.
“Pioveva qui” sussurrai.

“Ah, di nuovo sulla schiena” sentii dire da una voce femminile, poi ci fu una risata, ancora una “Dovremmo spostare il materasso più a destra” propose sempre la stessa voce. A cosa si riferiva? Alle gocce d’acqua?

Il cuore mi saltò dal petto quando al centro della stanza, sul letto dove prima avevo dormito io, ora vidi una ragazza nuda, non c’era quando ero entrata, fu immediato per me, mi parai gli occhi di fronte a quella vista e l’istinto fu quello di gridare, eppure solo un “Uscite fuori di qui” mi feci uscire, un’esclamazione decisa, la mia voce esitò solo verso la fine della frase, quando mi accorsi di qualcosa.

La voce della ragazza lasciò spazio a quella dell’altro “Tutte le case fatte a modo hanno il bagno in stanza, noi abbiamo la doccia sopra il letto, cos’hai da lamentarti?” domandò il ragazzo, non sembravano ascoltarla, né tanto meno essere intenzionati a lasciare la stanza.

Io sbiancai, se poteva sembrarmi strana la presenza di una ragazza nuda in stanza, ascoltare quella voce, lo era decisamente dieci volte di più, aprii piano le dita delle mani, feci spazio agli occhi curiosi di quell’intima scena giacché ormai avevo capito e volevo vederli, volevo vederla e vederlo, volevo vederci, anche solo tra le dita.

Al centro della stanza, mi sbagliavo, non c’era più quel letto sulla quale fino a poco fa avevo dormito io, solo un materasso sporco con il bordo smangiucchiato e proprio lì dov’era smangiucchiato portava l’enorme peso di due iniziali, una N ed una A, scritte con il pennarello indelebile nero in una sera che ricordo fin troppo bene.

Osservai il corpo di lei, i seni coperti dalla lunga matassa di capelli azzurri e, stranamente, neppure una sbavatura di quel trucco che so di avere messo per tutta la mia tarda adolescenza. Aveva le ciglia pulite e le sopracciglia chiare, la vidi toccarsi il lobo dell’orecchio “Voglio anch’io un dilatatore, uno come il tuo” spiegò lei al ragazzo.

Io sobbalzai spaventata, chissà da cosa poi “Per l’amor di dio, no” sussurrai alla ragazza che ero stata, non proprio d’accordo sulle sue parole.

“No” concluse il ragazzo “Non dire stronzate” sorrise “Lo sai che non te lo farei mai fare”

Io tirai un sospiro di sollievo a quella risposta.

“Mi tratti come una bambina, non lo sono, so cosa voglio per me” riconobbi quel modo di parlare, era l’inclinazione che prendeva la sua voce quando aveva intenzione di metter il broncio, da quanto tempo non la usavo?

Non riuscivo ancora ad osservare lui e mi concentravo invece su me stessa, sulle mie labbra rosse e i capelli distrutti, non era mai stata una buona idea decolorarmi i capelli, e poi perché avevo così tanta voglia di averli di quei colori strani? Perché il mio castano chiaro non mi bastava? Era stata
l’esaltazione, l’età, la stupidità, ma le sue labbra arrivavano fino agli occhi e questo era innegabile, i capelli sfibrati e il sorriso smagliante. Cosa c’era, in quel quadro, che stonava?

Vedevo un suo gomito, nel mio campo visivo, alcune volte, si faceva invadente una sua ciocca di capelli, una sua mano, dovetti farmi forza prima di puntare i miei occhi interamente, esclusivamente, solo e soltanto su di lui e mi accorsi, solo quando lo vidi, di quanto male fino a quel momento avevo portato il suo ricordo. La pelle pallida che ricordavo non aveva nulla a che fare con quello che adesso vedevo, non c’era un minimo di grigiore nella sua pelle e le lentiggini che avevo toccato tutte le notti, le aveva fin sulle labbra, ora era chiaro, scontato, ma non lo sapevo più e l’avevo
dimenticato.

E poi, loro, le labbra, erano di un arancio naturale, sebbene “arancio” non renda, nessuna parola, avrei, per meglio specificarle, erano, erano le mie preferite. Salii su di lui per gradi, dal momento che ogni dettaglio mi mozzava il respiro e mi rubava al presente e a quella visione. Cos’è che costituisce l’amore? Vidi i seni di quella ragazza avvicinarsi alla pelle pallida del ragazzo, c’era una sfrontatezza in quel gesto, che non penso io potrei riavere mai più, che mi stupisco, ora, persino di aver avuto in quell’attimo. Salii con gli occhi le lenzuola e mi fermai sul punto della sua guancia sulla quale si erano posate le mie labbra tanto tempo fa, ebbi un fremito di gelosia. Amerebbe ancora, ancora, quello che sono diventata? Una ragazza con i capelli scuri e corti? Oppure amava di me solo quella visione? Gli occhi chiari e puliti, e nessun lucidalabbra, solo la nostra saliva ad ammorbidirne i contorni. Ma io resistetti, fino a quando non risalii sui suoi capelli, arancio, arancio.

Mi estraniai da quella visione per osservare la gonna color arancio che ora indossavo, l’avevo acquistata ad occhi chiusi in un discount, non l’avevo neanche provata, tanto mi ero sentita ridicola per quella scelta, ma era arancio arancio. Tra tante sfumature di quell’arancio, ora sapevo che ero sempre andata in cerca del suo, osservavo i suoi capelli e solo ora mi rendevo conto di quanto fosse diverso il suo arancio rispetto a quello della mia gonna.

Gli occhi, i suoi occhi, li incrociai poi senza preavviso, li vidi precisi in quei dettagli, le ciglia lunghe e il nocciola chiaro, erano così chiari, mio dio, così chiari che mettevano soggezione i miei verdi, quelli di ora e quelli di allora.

Lo sapevo che non l’avevo amato per tutto questo, ma ora di lui ricordo bene questo, una sensazione. Ho dimenticato che il tempo fa perdere tante circostanze. Così fatico a ricordare quali fossero le nostre abitudini, devo fare uno sforzo immane per ricordare chi di noi due si svegliasse prima la mattina e cosa mi frullasse in quella mente per quegli anni. Se fui me stessa, se fui condizionata.
Avevo avuto quei capelli azzurri e prima ancora rosa e ricordo il ciuffo scuro che feci a lui in un attimo di frenesia, mi faceva sorridere ancora adesso quel ricordo. Ma io ora sono solo così diversa da ciò che ero, i miei occhi si gonfiarono di lacrime, promettevano una violenta pioggia. In piedi, in una stanza che sembrava cacciarmi via. “Non è loro meno di quanto sia mia” pronunciai e mi domandai se davvero sarebbe mai potuta essere solo la mia e di mio marito, se forse non sarebbe stata sempre e solo loro.

Mi appoggiai con le spalle a quelle mura, mi lasciai scivolare e con le braccia poi mi cinsi le ginocchia, osservai con muta tranquillità quei battibecchi, dentro di me non si agitava più frustrazione, né nostalgia, ascoltai soltanto con pazienza. Lì dove prima mi si era agitato un mostro in corpo, lì dove prima ebbi l’istinto di saltare su quel materasso e avvisare entrambi che c’ero ancora, che esistevo ancora, che potevo essere ancora la ragazza dai capelli blu, ora solo una lenta accettazione delle cose che erano state e non erano più.

“Peccato, perché mi piacciono molto” conclusi sistemandomi dietro la schiena i capelli azzurri, mi accucciai a lui

“Non sono nulla di che” spiegò il ragazzo posando il suo anello sul pavimento, fuori al materasso, si voltò a prendere il mio e lo sistemò accanto al suo.
“La gente di solito guarda quelli, come dire? Attirano
l’attenzione” spiegai carezzandomi i capelli chiari

“E quindi?” chiese lui ridendo “Questo li
rende belli?”

“Sono felice che la ragazze osservino prima il tuo lobo, insomma, prima del resto”

Era incerto e mi osservò in modo strano

“Non guardarmi così” esclami arrossendo
“sono solo felice che gli occhi degli altri si posino il meno possibile su di te”

E così facevo, li osservavo parlare in quella stanza bianca, vuota, spoglia.

“Cos’è che costituisce l’amore?” mi domandai, scossi un attimo la testa e mi ritrovai con la schiena poggiata contro l’armadio, osservai il portafoto posato sul comodino e il volto di mio marito dall’altra parte del letto, la stanza scura e il soffitto viola, e poi…e poi disperatamente ricercai con gli occhi la mia stanza bianca.

 
   
 
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