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Autore: mikyintheclouds    30/08/2016    2 recensioni
tutti passiamo perodi un po' così. questa volta è il mio turno e io sono fatta così, elaboro scrivendo e poi condivido, magari posso aiutare qualcun altro ad elaborare.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Certe volte capita.
Capita di venire colti da quei momenti in cui non si è più sé stessi, o forse in cui si lascia cadere la maschera e si diventa finalmente sé stessi e si fa ciò che il nostro carattere orgoglioso ci vieta strenuamente di fare.
Si piange.
L’azione più naturale del mondo, la prima che facciamo quando nasciamo, molto spesso l’ultima prima di tornare ad essere angeli.
Eppure, per essere così antica, primordiale e innata, porta con se una grande responsabilità.
Debole è chi piange, triste è chi piange, misero, sciagurato, perduto, viziato, piagnucolone, capriccioso, invidioso, geloso, non amato, non voluto, indesiderato, sfruttato, messo in disparte, solo, disperato; pochi coloro che lo fanno per gioia, anche perché è un momento effimero di felicità che segue solitamente un dolore, un lutto, un momento buio, una grande difficoltà, una meta che sembrava irraggiungibile, la fatica, la salita, la scalata.
Eppure, in quelle rare circostanze in cui ci si prende un momento per riflettere e ci si guarda dentro, si riesce per un attimo a scorgere quel fanciullo che abbiamo messo da parte, troppo adulti, troppo maturi, troppo pronti a prenderci il mondo sulle spalle, pensando che il suo incessante moto rotatorio dipenda da noi, singoli e infimi puntini in uno spazio troppo vasto di un cui non concepiamo nemmeno la reale esistenza.
Quelle volte, in cui ci rendiamo conto che quel bambino impaurito dentro di noi ha ancora bisogno di aiuto, nonostante tutto, lasciamo che le lacrime escano, calde e salate, amare e velate dall’ombra del trucco che indossiamo per far finta che i nostri occhi siano allegri e sorridenti, mentre mascherano l’aridità che abbiamo all’interno.
E finalmente possiamo liberarci.
Sentiamo il cuore risollevarsi, il peso che l’opprimeva si sgretola, si scioglie come neve al sole e capiamo che, in fondo, per quanto forti siamo, avremo sempre bisogno di un qualcuno che ci dica: “Tranquilla, va tutto bene.”
Non importa il motivo per cui si piange, non c’è mai un solo motivo, è più un insieme di tutto il contesto che ci rende fragili e deboli, bisognosi di cure e di affetto, di una piccola pacca sulla spalla, di qualcuno che ci porga il fazzoletto.
Perché non sono le parole del ragazzo di cui pensi di essere innamorata che ti soggiogano, ti penetrano dentro e toccano corde che nessuno aveva mai pizzicato, non sono i suoi occhi che ti guardano un po’ delusi, o il suo corpo teso che implicitamente pone la distanza, irrigidito e teso.
È il contesto, è l’accontentarsi, non per propria scelta, di essere in un posto a cui non apparteniamo, che non tira fuori il meglio di noi, che ci rende infelici, insicuri, fa uscire sempre più spesso quel povero bambino nascosto in un piccolo armadio e quasi sempre dimenticato che ci fa sentire così.
È l’aver dato troppa confidenza, troppa fiducia, l’aver abbassato le difese e l’aver permesso che la vita avesse il sopravvento sulla sopravvivenza.
Ma quando anche la fiducia che avevi riposto in quelle poche persone che ti erano sembrate fidate svanisce, in quel momento si può piangere.
E singhiozzare.
E lasciarsi andare.
E bagnare il cuscino.
E morderlo per non urlare.
E spegnere la luce.
E dormire.
Dormire e non sognare.
Fino a quando il bambino non torna nell’armadio, l’adulto esce e affronta un altro giorno.
Ciò che non ammazza rinforza.
Tu continua a ripetertelo, un giorno, forse, sarà vero.
 
  
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