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Autore: makaalaure    30/08/2016    1 recensioni
Durante l'occupazione giapponese di Shanghai, un ragazzo di buona famiglia si chiede se la politica e la guerra possano davvero spezzare un legame profondo come quello della famiglia.
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[DAL TESTO]
[...]
Tai è deluso. È deluso da come Ming Lou non abbia protestato, non abbia negato di essere filo-giapponese, restando in quell’imperturbabile silenzio che non ha fatto altro che confermare ciò che gli ha urlato contro Ming Jing.
[...]
Come può Ming Lou, il suo amato fratello maggiore, appoggiare quelle persone?
Alza lo sguardo verso il cielo, così azzurro, così sereno. Il fratello che conosceva non era così.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Angolo dell’autrice:
Salve, lettori. Premetto innanzitutto che questa storia è ispirata a personaggi e contesti tratti dalla serie tv cinese “The Disguiser”, ma ho voluto inserirla tra le storie originali perché quella sezione “Altro” delle serie tv mi sembrava troppo squallida e, sinceramente, nessuno avrebbe saputo comunque di che serie si trattasse.
Detto ciò, la storia è ambientata nella Shanghai durante l’occupazione giapponese, come scritto già nell’introduzione. Non sono granché come scrittrice ‒ infatti qui su efp sono più una lettrice ‒ e se la storia è scritta male accetto tutte le critiche. Sempre che non stia parlando ad un pubblico inesistente >///<
Enjoy!









«Per chi lavori veramente? Chi sei veramente?!»
«Io sono cinese.»

{Wo shi zhong guo ren}
 


Quando le urla si sentono fin fuori dalla casa, le riunioni di famiglia non stanno andando esattamente bene, questo il ragazzo lo sa.
Ming Tai osserva in silenzio il fratello maggiore che subisce l’ennesima sfuriata della sorella. Ha smesso di stupirsene, e si è abituato a riderne sotto i baffi quando ciò avviene per una sciocchezza.
Stavolta però non è una sciocchezza, perfino Tai ha le sopracciglia aggrottate. E le grida di Ming Jing sono giustificabili con un fatto relativamente grave: Ming Lou, il fratello maggiore, si è unito ufficialmente al nuovo governo come maggiore responsabile del settore economico, e questo significa che appoggerà i Giapponesi insediati a Shanghai davanti a tutta la Cina.
«Come puoi anche pensare di fare una cosa simile!» strepita ancora Ming Jing, sbattendo in faccia al fratello il giornale dal quale ha ricevuto la vergognosa notizia. Si volta verso A Cheng, il fratello di mezzo che sta in piedi accanto a Tai. «E tu... e tu lo supporti nel fare queste... queste...» non termina nemmeno la frase, con la fronte corrugata per il disgusto che stilla fin troppo evidente dalla voce. Queste cose che tradiscono la tua stessa patria. Queste cose che tradiscono le persone che hanno versato sangue e sudore per costruire la tua terra. Ma ingoia queste amare parole, caccia indietro le lacrime di delusione che vorrebbe versare, e indossa la maschera di rabbia. «L’ultima volta che vi ho telefonato eravate a Hong Kong. Da quanto tempo siete a Shanghai?»
Ming Lou è pronto a rispondere obbediente. «Da un me-»
Il sibilo arriva prima dello schiaffo. Lui raddrizza la testa senza perdere la compostezza, sorride e alza le mani con fare pacificatorio. «Cara sorella, almeno non restiamo qui a discutere.»
Il tono del tutto calmo rende un contrasto quasi ridicolo, ma del resto lui asseconda sempre la sorella.
Ming Jing rappresenta l’autorità massima della famiglia. Da quando i loro genitori sono stati assassinati da alcuni filo-giapponesi invidiosi della loro fortuna, una vera e propria eredità che i Ming hanno creato nel corso dei secoli attraverso i commerci, lei ha preso le redini della casa, rinunciando alle possibilità di un matrimonio, una famiglia per sé, per crescere quel fratello ingrato e traditore.
Appena lui finisce di pronunciare quelle parole, gli occhi della donna si fanno di diversi gradi più freddi. «Ben detto» scandisce, ogni sillaba che pesa più di un macigno. «Discutiamone davanti ai nostri genitori.»
Con un affilato fruscio dello scuro cheongsam che indossa, Ming Jing si volta verso le scale e sale i primi gradini sbattendo tagliente i tacchi sul legno. “Discuterne davanti ai genitori” significa, per coloro che non devono partecipare alla suddetta discussione, recarsi nel tempietto di famiglia eretto in loro memoria, mentre per colui che ne è coinvolto, significa almeno una ventina di frustate da ricevere in ginocchio, davanti all’altare su cui si consumano lentamente i bastoncini d’incenso.
Ming Lou non commenta, non ribatte. Lui sottosta all’autorità della sorella, e la riconosce senza obiettare.
Tai incrocia appena il suo sguardo, prima che lui si tolga il cappotto e la consegni ad A Cheng senza lasciarsi andare nemmeno in un lievissimo sospiro. Così finisce la maggior parte delle sfuriate di famiglia, veloce ma terribile come una tempesta in mare aperto. Ma Tai è deluso. È deluso da come Ming Lou non abbia protestato, non abbia negato di essere filo-giapponese, restando in quell’imperturbabile silenzio che non ha fatto altro che confermare ciò che gli ha urlato contro Ming Jing.
A Cheng posa il cappotto sull’appendiabiti, e sgambetta via veloce a compiere le sue mansioni in veste di segretario di Ming Lou, come se l’accaduto non lo preoccupasse minimamente. Tai esce poco dopo, con un nodo in gola, fermandosi appena sotto il portico, mentre sa che, a Nanchino, i Giapponesi stanno uccidendo, torturando e violentando qualcuno in quello stesso istante. Come può Ming Lou, il suo amato fratello maggiore, appoggiare quelle persone?
Alza lo sguardo verso il cielo, così azzurro, così sereno. Il fratello che conosceva non era così.
 
 
 
Shanghai, 1926, dodici anni prima
 
Una giovane donna svolta l’angolo, mano nella mano con il figlio di appena otto anni. Un ragazzino paffuto, che si guarda intorno con la curiosità di qualsiasi bambino, non consapevole delle disgrazie che stanno per abbattersi sulle sue esili spalle in poco tempo. Con la mano libera stringe un tamburino cinese, e lo agita contento, con quel sorriso timido in viso.
La donna lo sta rassicurando, gli sta dicendo che papà non se n’è andato via per sempre. È solo al fronte, a combattere quegli uomini cattivi ma ancora lontani, che vogliono invadere casa sua. Presto la guerra sarebbe finita e papà sarebbe tornato da loro. Il bambino esulta, perché ci crede. Una mamma non mente.
Ma la mamma non finisce la frase, perché la sua attenzione viene catturata da qualcosa, o meglio, da qualcuno che il bambino non si premura di osservare bene. Sono due giovani studenti dall’aria benestante, fratello e sorella, che stanno attraversando la strada parlottando impegnati, e non notano l’auto che sta sfrecciando verso di loro senza rallentare. L’istante in cui lo fanno, è troppo tardi.
Il bambino barcolla improvvisamente, perde l’equilibrio e cade sul marciapiede: la mamma gli ha lasciato la mano e sta correndo in mezzo alla strada. Grida qualcosa, spinge via violentemente i due studenti e l’auto la investe in pieno. L’impatto è talmente violento che vola in aria, e in quegli istanti il bambino pensa, meravigliato: com’è leggera la mamma, e com’è bella.
La donna precipita e si schianta sulla strada; in quell’istante l’incanto si spezza. Il bambino comincia a piangere, spaventato dalla posizione disarticolata che la testa della mamma ha preso, dal sangue che sta dipingendo di scarlatto l’asfalto, mentre una strana sensazione gli pervade il corpicino, troppo giovane per sapere di cosa si tratti. I due giovani si rialzano dall’altra parte del marciapiede, e la ragazza, che ha una ferita sulla tempia, si porta una mano alla bocca non appena vede.
È troppo scossa, ma il suo sguardo si posa sul bambino, e stringe le labbra mentre sente solo la vergogna a scaldarle il cuore.
 
 
Sull’altare di famiglia c’è una nuova foto incorniciata. Quella della mamma del bambino.
Ming Jing e Ming Lou, inginocchiati su dei cuscinetti in pelle, battono le mani e si inchinano tre volte. L’incenso, con i suoi invisibili tentacoli di fumo, avvolge l’altare in un’aura mistica.
Il bambino sta in disparte, e osserva con gli occhi sgranati la foto della mamma: l’avrebbe ricordata così, per sempre giovane, per sempre bella. Indossa uno xiao fu, i bianchi drappi che vengono messi al funerale di qualcuno, per onorarne la memoria.
Ming Lou è il primo ad alzarsi, e osserva il bambino con aria grave. Non dice niente, ma scambia uno sguardo silenzioso con la sorella, che gli si avvicina. Ha gli occhi rossi, e il mento che trema, soffre per quel sacrificio da parte di qualcuno che non le doveva niente.
«Da oggi in poi, tu ti chiamerai Ming Tai» dice, fissando gli occhioni del piccolo nei propri. «Io sarò tua sorella, e Ming Lou sarà tuo fratello.»
Il bambino si stringe alla giovane, affonda il viso nell’incavo del suo collo, e sente per la prima volta quel profumo a cui si abituerà più tardi. Qualcuno gli accarezza la testa, arruffandogli i capelli con affetto.
Ming Tai alza lo sguardo e vede uno dei rari sorrisi sinceri del fratello. In quegli occhi profondi, scaltri e scuri vede il riflesso della famiglia che diventeranno presto: vede come il Capodanno dell’anno successivo lo passeranno nel cortile ad accendere fuochi d’artificio e petardi, con Ming Jing che lo tiene in braccio e Ming Lou che gli insegna ad accendere le stelle filanti, così colorati su quella coltre di neve invernale. Vede i due fratelli accogliere in casa un altro ragazzo sfortunato, A Cheng, figlio della governante che lo maltratta perché ha scoperto che non è il suo vero figlio. Vede Ming Lou sfondare la porta dell’ufficio numero 76, che ha arrestato Ming Jing perché sospettata di essere una ribelle al nuovo governo, e far tremare tutti i presenti con la violenza delle sue minacce. Quando qualcuno ribatte: “Al numero 76 non abbiamo bisogno di prove per arrestare un sospettato!”, vede il fratello tirare fuori una pistola con un gesto secco e sparare con un colpo impeccabile all’uomo che aveva parlato, sfidando chiunque a dire altro. Ming Jing, ancora ammanettata, viene liberata, e la prima cosa che fa è tirargli uno schiaffo. Ma Ming Lou perde l’arroganza e l’autorità di cui ha dato prova pochi secondi prima, e china il capo in segno di rispetto. “Possiamo parlarne a casa, sorella?” dice. “Sai ancora di avere una sorella?! Anche tu ti sei immischiato nella politica! Sai che ho promesso ai nostri genitori che ti avrei tenuto lontano da tutto questo!”, gli urla lei, tradita e arrabbiata.
Il bambino di otto anni che indossa lo xiao fu vede e non vede tutto questo allo stesso tempo, ma capisce comunque cosa vuole dirgli Ming Lou.
Vuole dirgli: io ti proteggerò sempre.
 
 
 
«Ming Tai.»
Il ragazzo si volta, e vede A Cheng sulla soglia della porta aperta a metà. Tai mette su il sorriso furbo che gli conferisce sempre quell’aria da giovincello spensierato. «Nostra sorella gliele ha suonate?»
L’espressione di A Cheng si fa più severa, e inarca un sopracciglio guardandolo con quell’aria di leggero rimprovero, dall’alto dei suoi ventisette anni. «Non fare tanto l’innocente. Lo so che più frustate si prende tuo fratello, più tu ti diverti.»
«Mi piace sapere che lui non sta in cima alla piramide di potere.» Tai scrolla le spalle, fingendosi allegro.
A Cheng sospira, e si chiude la porta alle spalle. Aggrotta la fronte fissando l’orizzonte, e con voce incerta dice: «Sai... questa volta davvero non se l’è cercata.»
Tai è intelligente, ha una mente analitica che da sempre è ben nota a tutti. Le sfumature del suo viso cambiano velocemente, e quando torna a guardare A Cheng è più serio che mai. «Ma è vero? Mio fratello è davvero... lui sta davvero con i Giapponesi?»
«Non sono affari che riguardano un ragazzino, Tai.» risponde A Cheng in tono pacato.
Tai si rabbuia. «Chi è Ming Lou veramente? Qual è la sua vera identità?»
A Cheng continua a guardare lontano, i suoi occhi sono indecifrabili perfino per la mente brillante di Tai. «Ming Lou è quello che vedi. Quello che è sempre stato: tuo fratello, e un cittadino cinese.» si volta, dandogli le spalle, e fa per rientrare in casa, quando ferma il passo di nuovo. «Nostra sorella è a pezzi. Farai meglio ad andare a consolarla, perché nessun altro ci riuscirà.»
Tai osserva il fratello entrare nella lussuosa villa, ma lui rimane lì ancora per qualche minuto. Certo che era l’unico che sarebbe riuscito a consolare la sorella. Lo amava così tanto, come se fosse un proprio figlio. Non riusciva mai ad essere veramente arrabbiata con lui, e quando faceva dei dispetti al fratello maggiore lei prendeva sempre le sue difese, motivo per cui quei dispetti venivano ancora messi in atto, a distanza di dodici anni.
Il suo cuore si stringe in una gelida morsa, immaginando la reazione di Ming Jing se solo avesse saputo che anche lui, il suo amato fratellino, si era immischiato in quegli “affari loschi” di politica e milizia. Se solo avesse saputo che, sulla via per il ritorno a Hong Kong da Parigi, era stato rapito da un comandante del Kuomintang e arruolato tra le file della resistenza cinese, e che non era più l’ingenuo e gioioso ragazzino di sempre, ma un assassino in grado di interpretare qualsiasi ruolo e di premere il grilletto senza ripensamenti.
Ma forse, pensò Tai, osservando di nuovo il cielo, forse non avrebbe mai dovuto saperlo.
Era un bel pomeriggio sereno.
   
 
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