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Autore: keska    30/04/2009    29 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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-Ohmmm-


Capitolo riveduto e corretto.

 

Feci scorrere lo sguardo sullo scaffale che mi stava dinanzi. C’era ogni sorta di colore, una vastissima gamma assortita. Eppure non riuscivo a selezionare quelli che mi sarebbero serviti per uno dei miei primi dipinti.

Forse era colpa del fatto che fossi stata piuttosto occupata, mentalmente, nell’ultimo periodo, e nonostante i miei sforzi, non riuscissi a dedicarmi all’arte. Dopotutto non vedevo in me quel talento che invece spingeva Edward a incoraggiarmi: speravo solo che non lo dicesse per amor mio, perché in quel caso mi avrebbe distrutta.

«Trovato qualcosa?».

Sussultai violentemente, il cuore in gola, facendo cadere diversi colori dallo scaffale. «Oh cavolo!» esclamai, chinandomi subito a raccoglierli.

Edward seguì i miei movimenti, fissandomi con aria pensierosa. «Ti ho spaventata?» chiese, riponendo immediatamente tutto nel giusto ordine.

Misi al suo posto l’ultimo colore, non potendo evitare che la mano mi tremasse. «N-no» balbettai, affrettandomi a nasconderla. «Niente».

Mi studiò attentamente. Non avrebbe lasciato correre, lo sapevo. Ero solo stata così in allerta, dopo tutto quello che era successo con Jacob… Così spaventata

Distolsi immediatamente lo sguardo, affrettandomi per afferrare un deciso rosso cardinale. «Ecco, prenderò questo, andiamo» mormorai velocemente, affrettandomi verso la cassa. Almeno mi lasciò pagare la poca attrezzatura che avevo comprato. Anche se, a tutta ragione… la carta nera e dorata era praticamente sua.

Lo ringraziai del fatto che non avesse indagato oltre sul mio piccolo momento d’isteria, perché quando fummo entrambi in auto mi chiese semplicemente quale fosse il soggetto della mia tela.

Sospirai, posando il gomito sullo sportello e il mento sulla mano. Osservavo il paesaggio che correva fuori dal finestrino, bagnato da alcune gocce d’acqua. «Devo rappresentare un prato inglese del Settecento».

«Quindi?».

Sospirai stancamente, voltandomi piano verso di lui. «Non lo so, di solito ho un’idea prima di cominciare. Una storia o un’illuminazione. Non è tutto chiarissimo, ma qualcosa sì, e da quello procedo con cose che mi vengono in mente man mano…» m’interruppi, battendo le palpebre «cavolo devo sembrare una di quelle artiste che si credono vissute» mi biasimai, scuotendo il capo «sono un’idiota».

«Affatto» ribatté Edward tranquillamente, «ti stavo ascoltando. Ero molto interessato a quello che volevi dirmi. Racconta, avanti».

Mi morsi il labbro, imbarazzata. Trovarmi in auto non mi faceva sentire a mio agio. Continuavo a guardare all’esterno, preoccupata che prima o poi un grosso lupo dal pelo rossiccio ci seguisse a grandi balzi per attaccarci. Portai la mano su quella che aveva sul cambio. Si voltò nella mia direzione, sorpreso. «Potresti… solo andare a casa mia, per favore? Vorrei rimanere con te» mormorai a fior di labbra, il viso rosato dal sangue.

Si portò la mano alle labbra, poi annuì. «Ma certo».

 

Avere il suo corpo freddo sul mio mi scaldava il sangue nella vene. Mi faceva sentire come il vino intiepidito in una bocca che lo gusta, ed era come una coperta che mi scaldava davanti a un camino in pieno inverno. Mi sentivo protetta e confortata.

Mi baciò il collo, scendendo sempre più in basso verso il decolleté. Affondai le dita fra i suoi capelli, traendolo a me. Avrei voluto che non si fermasse mai. Che scendesse in basso, più in basso, più in basso… Come stava facendo la mia mano in quel momento, fino a incastrarsi nella tasca posteriore dei suoi jeans.

Sollevò il viso ad osservarmi, un sopracciglio alzato.

«Scusami» mormorai. Ma il mio mormorio era uscito davvero impertinente, con quel sorriso sulle labbra, e la mano non accennava a spostarsi da dove stava ben annidata.

Edward sollevò il viso, con un leggero ringhio giocoso. Si tuffò sulle mie labbra, concentrandosi in un bacio pieno di passione, fatto di labbra, lingue, e affondi.

Mi concentrai sul suo bacio, evitando di pensare a ogni cosa che fosse problemi, disagi, paure. Quando stavo con lui era tutto così meraviglioso, tutto così magico. Non vedevo l’ora di sposarlo, farlo e mettere da parte ogni problema. Convolare a nozze con il mio fascinoso vampiro che in quel momento si stava impudicamente sfregando col suo corpo di teenager al mio.

Eccitante, pensai, passando la lingua sull’arcata superiore dei suoi denti, quasi a volermi sincerare dell’assenza dei canini.

Sussultai subito dopo, lanciando un’imprecazione farfugliata.

«Bella?!» mi richiamò Edward, sgomento, tirandosi indietro per guardarmi negli occhi.

Mi portai entrambe le mani alla bocca, saltando subito in piedi. «Mi sono tagliata la lingua!» biascicai in maniera quasi incomprensibile, saltellando sul posto.

Mi raggiunse immediatamente, mettendomi le mani sulle spalle. «Ma come ti è saltato in mente di fare una cosa del genere?».

Lo fissai supplicante e vergognosa, sentendo le lacrime nascere ai bordi degli occhi. «Brucia, brucia!» balbettai, insofferente, continuando ad agitarmi. Un dolore pungente si stava irradiando dalla lingua alla bocca al collo. Dannato veleno di vampiro.

«Vieni qui, avanti. Apri la bocca» mi ordinò immediatamente Edward, mettendomi una mano sotto al mento.

Il sapore metallico del sangue si stava diffondendo in bocca, facendomi quasi venire un contato. Resisti, pensai, imponendomi di respirare con il naso e riuscendo a trovare un minimo di stabilità. Edward esaminò la ferita con lo sguardo per alcuni secondi, e poi mi ordinò: «stai ferma» per chinarsi come se mi stesse per baciare. Fece roteare la sua lingua attorno alla mia, poi strinse le labbra, succhiando.

Spalancai gli occhi, persa nel suo volto attento e concentrato. Se non avessi saputo che lo stava facendo per riassorbire il veleno in circolo mi sarei già sciolta sotto il suo tocco. Anche così, osservando la sua espressione quasi sofferente…

Mi sostenne per le spalle, forse perché - nonostante il mio cervello faticasse a comprenderlo - non mi stavo più reggendo autonomamente in piedi, o magari perché non avevo alcuna intenzione di staccarmi da lui.

Mi fissò con serietà, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Meglio?».

La lingua mi formicolava, intorpidita, e quasi non riuscivo più a sentirla, figuriamoci sentire dolore. Stavo per annuire, inebetita, quando un altro tranquillo fiotto di sangue mi colò in bocca. Arricciai il viso in una smorfia. «Sto per vomitare» biascicai mortificata.

 

Mi aveva sistemata sul letto, con diversi cuscini sotto le gambe, quando avevo minacciato di dare di stomaco. Nonostante cercasse di mascherarlo non faceva che ridacchiare sotto i baffi. Mi sentivo così imbarazzata.

«Fai “a”» m’incitò, chinandosi sul mio viso.

Aprii piano le labbra imbronciate. «Aaaaahia, Edward» borbottai, sussultando, quando le sue dita tastarono la mia lingua.

Sorrise candidamente. «Stavo solo controllando. Ti rendi conto che è come se avessi passato la lingua su una lama, vero?» fece, ripetendo lui stesso il gesto con la sua lingua super resistente «a cosa stavi pensando?».

«Non stavo pensando!» brontolai offesa e sempre più umiliata «a cosa vuoi che pensi mentre ho la lingua nella tua bocca?».

Mi sorrise, ma questa volta sembrava quasi contento della risposta, come se fosse compiaciuto dell’effetto che mi causava. Mi carezzò dolcemente una guancia, baciandomi il lato della bocca. «Forse ti ci vorranno dei punti. Potremmo chiedere a Carlisle di…».

«Nemmeno in un’altra vita!» sbottai, tirandomi immediatamente a sedere col viso paonazzo.

«Perché no?» chiese Edward, sorpreso dalla mia reazione.

Sgranai gli occhi, saltando giù dal letto. «Come perché no? Non andrò mai a dire al padre del mio ragazzo che mi sono tagliata la lingua perché era troppo impegnata ad esplorare la bocca di suo figlio, mai!».

Scoppiò a ridere, tenendosi la pancia con le mani. «Non puoi dire sul serio» biascicò fra le risate.

Gli lanciai un occhiata torva. «Posso. Non giocare con la mia pazienza, Edward» borbottai, incrociando le braccia sul petto. «Devo anche cominciare il dipinto. Lo devo consegnare fra due giorni, e ancora non ho idea… di cosa fare» sospirai.

Venne accanto a me, mettendo da parte l’ilarità. «Qual è il problema?».

Scossi il capo. «Mancanza d’ispirazione. Forse dovrei documentarmi un po’ in giro sul soggetto e sperare che mi venga in mente qualcosa… non lo so».

Edward mi fisso attento. «Hai detto che si tratta di un prato inglese del Settecento?».

«Sì, del Settecento. Perché pensi che… oh. E chi?».

Mi sorrise, radioso. «Carlisle, ovviamente. Non c’è nessuno più informato di lui. Ci ha vissuto!».

«Non lo disturberemo?» provai ancora a trattenerlo, titubante.

Ma lui mi aveva già preso per mano, recuperando il suo giaccone e precipitandosi giù per le scale. «Sarà contentissimo, vedrai. Oggi ha la mattina libera. E poi ha detto che voleva parlarmi di qualcosa, non c’è momento migliore».

 

«Hai freddo?» mi chiese, osservandomi dal suo sedile.

Scossi il capo, ma mi strinsi più forte il giaccone addosso. Con il suo modo di guidare saremmo arrivati a casa sua in meno di tre minuti. Non vedevo l’ora.

Sospirò spostando nuovamente lo sguardo sulla strada. Imboccò il vialetto che portava a casa sua, quello che per la festa del diploma era stato decorato con mille lucine. «Bella, tesoro…» cominciò, e capii immediatamente che questa volta non avrebbe lasciato correre. Mi feci rigida sul sedile. «Lo sai che non c’è nulla da temere, vero?».

«No, nulla. Nulla» avevo sbottato prima che potesse finire di parlare, tenendomi con forza con una mano alla sportello.

Frenò bruscamente, e prima che potessi intuire che fossimo semplicemente arrivati avevo cacciato uno strillo acuto.

Girò la chiave nel cruscotto, osservandomi con un sopracciglio alzato. Mi prese la mano fra le sue. Un discorso serio era in arrivo, lo sentivo. «Carlisle ti ha detto che puoi prendere dei leggeri tranquillanti per un primo periodo».

Scossi violentemente il capo, eppure mi sollevai dal mio posto, andandomi a rannicchiare sul suo petto. Lo strinsi fra la braccia, invitandolo a fare lo stesso. «Non voglio drogarmi. Posso resistere, fino alla trasformazione».

Mi baciò il capo, accarezzandomi i capelli. «Non voglio che arrivi al matrimonio con i nervi a pezzi».

Mi scostai per guardarlo in faccia con un sorrisetto divertito. «Non è la missione di ogni sposa?».

Mi sorrise, toccandomi il naso con la punta del dito. «Sì, probabilmente. Sì».

 

Carlisle fu molto gentile con me e m’illustrò tutto quello che volevo sapere, dagli usi e costumi londinesi del secolo alla politica all’arte. I suoi occhi luccicavano mentre parlava dei tempi passati, e per un attimo mi sentii intimorita davanti a lui. Era facile scordarsi quanti anni avesse.

Passò ben presto ad illustrarmi le varie tipologie di abiti e accessori utilizzate sia dagli uomini che dalle donne. Sembrava davvero contento di essermi utile in quel senso. «E poi le dame indossavano un’intelaiatura sotto la gonna, la crinolina, che la rendeva più vaporosa, ed era formata da due drappi, così…» disse disegnandomi uno schizzo di vestito. I suoi bozzetti corrispondevano ai miei disegni originali: vivere in una casa di vampiri non faceva bene alla mia autostima.

Annuii, osservandolo. «Capisco…» mormorai fra le labbra, attenta.

Esme entrò nello studio di Carlisle, con un vassoio di biscotti al cioccolato in mano. Ovviamente, sapevo perfettamente a chi erano destinati, e con Esme in giro, soprattutto perché sapevo che li aveva fatti lei esclusivamente per me, non potevo rinunciare.

«Grazie» dissi, prendendone uno. Con un sorriso, andò a mettersi accanto a Carlisle, posandogli una mano sulla spalla.

«Allora, come sta andando? Hai ottenuto le informazioni che ti servivano?» mi chiese cortese.

«Oh, si… Ora però devo andare a casa a dipingere, sono un po’ indietro con il lavoro…» dissi mordendomi il labbro.

Edward mi prese una mano. «Ti accompagno».

«Edward» lo chiamò Carlisle, sollevandosi dal suo posto. «Potresti aspettare un attimo per quella cosa cui ti dovevo parlare?».

Edward fece scorrere lo sguardo fra me e lui, e subito Esme si drizzò, afferrando il vassoio di biscotti e venendomi accanto. «Bella, tesoro, vieni con me. Sono sicura di avere del succo ai mirtilli in frigo».

Mi lasciai trascinare con lei, riluttante. Speravo che dopo la discussione che avevamo avuto con Edward, se si fosse trattato di qualcosa che concerneva Jacob, mi avrebbe resa partecipe, dopo. Forse che prima ne parlassero fra loro era meglio, in modo che poi la notizia mi sarebbe arrivata filtrata e sarei stata in grado di filtrarla meglio.

«Hai pranzato tesoro?» mi chiese con gentilezza Esme, sistemando delle stoviglie sporche nella lavastoviglie.

Sollevai il capo, distolta dai miei pensieri. «No, non ancora. Aspettavo di tornare a casa e farmi venire un’illuminazione mentre mi cucinavo qualcosa».

I suoi occhi si illuminarono. «Vuoi che prepari un po’ di pasta? Un panino? Un risotto? Un’insalata?».

Sorrisi appena, e non ebbi il cuore di dirle di no. «Cosa vuoi tu, grazie».

Mi fece un sorriso radioso. «Non te ne pentirai» dichiarò mettendosi immediatamente all’opera. Sembrava fosse davvero fatta per essere una madre, a differenza della mia. Avrei voluto chiederle com’era stato avere un bambino, o se crescere cinque vampiri l’aveva soddisfatta abbastanza, ma non ne ebbi il coraggio. Mi limitai a stare in silenzio e mangiare il delizioso pranzo che mi offriva.

 Edward tornò da me dopo appena dieci minuti, e io avevo già servita un’insalata al pollo o noci condita con una deliziosa salsa di cipolla e yogurt.

«Dobbiamo andare via?» mormorai, sollevando il viso dal piatto e finendo di masticare ciò che avevo in bocca.

Scosse il capo, sorridendomi e sedendosi accanto a me. «Fa’ con comodo».

«Ehi, fratello!» ci raggiunse  la voce di Emmett «Devo andare a fare il pieno all’auto per la partenza, prendo la Volvo o la Mercedes?».

«Partenza?» domandai, gli occhi ampi dalla sorpresa.

Edward sibilò fra i denti, scontento. Mi rivolse un’espressione gentile. «Finisci di mangiare tesoro» m’invitò, prima di sollevarsi per guardare in cagnesco il fratello.

Ovviamente, non lo ascoltai. Lasciai andare la forchetta per voltarmi a fissarli in attesa di una spiegazione.

«Andiamo in Alaska, sorellina» fece Emmett, lanciandomi un occhiolino.

«Emmett» ringhiò Edward, troncando le sue parole.

Sollevai un sopracciglio, osservando il mio fidanzato. «Perché in Alaska?».

«Andiamo a trovare il clan di Denali» mi rispose senza tergiversare «Irina ha preso come un’offesa personale la morte di Laurent, e abbiamo paura che anche il resto del clan sia dalla sua parte. Andiamo a chiarire la situazione con loro».

«Ma…» biascicai «devi andarci ora? Non potete farlo dopo la mia trasformazione?».

Edward strinse le labbra, e scoccò un’occhiata di ammonimento al fratello che si era già preparato per parlare. Si avvicinò, riprendendo posto accanto a me e prendendomi le mani fra le sue. «Preferiamo che sia ora, perché quando sarai trasformata voglio occuparmi solo di te. E poi, sarebbe bene che… in misura precauzionale, siano presenti anche loro al matrimonio».

«Precauzionale per Jacob» farfugliai agitata.

Mi carezzò una guancia, sorridendomi per rassicurarmi. «Vogliamo essere tranquilli, va bene?».

Sospirai, annuendo, seppur riluttante. Non mi andava che partisse, lasciandomi sola, ma allo stesso tempo non volevo lasciar trapelare il mio morboso attaccamento nei suoi confronti. Sarei stata bene, Edward non avrebbe mai permesso che mi facessero del male. «Mi chiamerai?» chiesi, quando fui sicura che la mia voce non sarebbe stata stridula.

Mi prese fra le braccia. «Ogni ora. E starò via solo un giorno, te lo prometto. Inoltre non sarai sola. Faremo in modo che nessuno si avvicini a casa tua».

E sapevo che con quel nessuno indicava solo una persona.

Mi baciò appena le labbra. «Mangia, adesso» m’invitò, sollevandosi dal posto per tornare a parlare con Emmett.

Malvolentieri presi un altro paio di bocconi, cincischiando con quello che rimaneva.

«Perfetto, allora. Mercedes sia. Ci divertiremo un mondo lassù, fratellone» esclamò entusiasta Emmett, lanciando e riafferrando le chiavi. Prima di andare via si voltò a lasciarmi un gran sorrisone e dicendo qualcosa che ebbe il potere di riscuotermi rapidamente dia miei pensieri. «Ah, sorellina. Cosa hai fatto alla lingua?».

Tossii, affogandomi con il boccone, il viso improvvisamente rosso.

Se ne andò con una risata. «Hai capito il fratellino…».

Edward mi riaccompagnò a casa subito dopo che ebbi finito di mangiare. Mi spiegò che si sarebbero organizzati in turni per sorvegliare la casa e farmi stare al sicuro, e poi, dopo un lungo bacio d’addio, mi lasciò con la promessa che sarebbe presto tornato da me.

Per occupare il tempo senza nascondermi sotto le coperte in preda al terrore, decisi di mettermi all’opera con il dipinto. Avrei, comunque, dovuto terminarlo nel giro di due giorni. Presi la tela e la fissai sul cavalletto. Poi, ricuperai i colori dal cassetto nella scrivania e cominciai a prepararli. Mi misi all’opera, di fronte al quadro, dipingendo un tranquillo paesaggio verde, piuttosto anonimo. Speravo che intanto potessi avere una vera ispirazione.

Erano solo le cinque quando sentii la porta di casa aprirsi. Per un secondo il cuore prese a battermi all’impazzata, ma quando realizzai che Jacob non si sarebbe disturbato ad entrare dalla porta o che una delle mie guardie non gliel’avrebbe mai lasciato fare, mi diedi subito della stupida. Forse la proposta dei tranquillanti non era poi tanto assurda. Stavo diventando paranoica.

Quando andai a controllare, di fatti, era mio padre. «Cosa ci fai qui?» chiesi sorpresa dalla cima delle scale.

Torse il collo per guardarmi. «Oh, Bells, sei qui. Pensavo fossi da… lui, sai. Sono tornato prima per sistemare alcuni scatoloni che sono saltati fuori dal mio armadio. Non avevo più spazio».

Mio padre che non aveva più spazio nell’armadio, questa sì che era una notizia. A parte tre completi, una polo e un paio di pantaloni di velluto e le due divise non gli avevo visto indossare poi molto. Doveva esserci aria di cambiamento, in giro. «Hai bisogno d’aiuto?».

«No, no, non ti preoccupare. Ma… umh… lui non c’è?» chiese, una volta giunto sulla cima delle scale, guardandosi attorno.

Sollevai gli occhi al cielo. Si ostinava a non chiamarlo per nome. «No, papà. Edward non c’è. Tornerà domani. Preparo la cena alle sette, come al solito».

«Le sette, come al solito. Certo Bells, certo» borbottò, infilandosi in camera sua.

Tuttavia il pomeriggio fu poco produttivo. Non riuscii a far altro che completare lo sfondo, senza però avere niente di simile all’ispirazione che stavo cercando. Raccolsi la chiamata di Edward, che, come promesso, si stava facendo sentire ogni ora, e poi mi recai al piano di sotto per preparare la cena.

Mi sentivo triste, e avevo voglia di ciondolare per casa senza fare nulla. Non mi andava neppure tanto di mangiare. Era incredibile quanto Edward potesse mancarmi. Non vedevo l’ora di mettermi a dormire per far passare velocemente il tempo o poi ritrovarlo di nuovo, come sempre, accanto  ame.

Al contrario mio padre, affamato, apprezzò il mio risotto col pesce. «Allora Bells, come va con il dipinto?» mi chiese, continuando a rimpinzarsi.

Storsi le labbra. «Sono un po’ in ritardo. Temo che dovrò lavorare per tutta la notte».

Sollevò le sopracciglia, mormorando qualcosa e ciondolando sulla sedia. «Oh, beh, comunque. Volevo darti questo» disse, passandomi quello che aveva tutta l’aria di essere un album fotografico.

«Cos’è?».

«Sono… foto. Beh, credo che debba averlo tu, figliola. Specialmente adesso, ecco» borbottò, arrossendo vistosamente.

Sollevai le sopracciglia, prendendolo, ma non commentai per non metterlo ulteriormente in imbarazzo. Fu solo quando fui in camera, sola, che decisi di aprirlo per vedere di che foto si trattasse. Rimasi a bocca aperta quando vidi mio padre e mia madre in abiti da sposi. Charlie non sembrava nemmeno lui, con tutti quei capelli.

Sorrisi, voltando pagina. Dopo una decina di foto del matrimonio ne seguì una in una posa che non riuscii a comprendere immediatamente, ma che quando lo feci mi lasciò di stucco. Mio padre era chino sulla pancia di mia madre, sdraiata, e l’accarezzava amorevolmente. Le successive ritraevano mia madre con un pancione crescente e la gioia dipinta sul volto. Mi chiedevo cosa fosse andato storto, fra loro, vedendoli così felici. Realizzai di star piangendo solo quando vidi la foto che ritraeva Reneè e Charlie stretti in un abbraccio, con me, piccolissima, incuneata nelle braccia di mio padre.

Presi due respiri, lentamente. Le mani mi tremavano.

Il telefono squillò. Edward.

Mi asciugai le lacrime e mi sollevai di scatto. «Edward?» mormorai velocemente, ansiosa di sentire la sua voce.

«Tesoro. Siamo quasi arrivati. Tutto bene?».

«Mm-mm. Avevo voglia di sentire la tua voce» mormorai, senza riuscire a nascondere la malinconia.

«Oh, amore. Lo sai che tornerò presto, vero?». Lottai, e riuscii ad arginare le lacrime. Mi passai una mano attorno al busto. Stavo così bene quando pensavo a lui, non mi mancava nient’altro. Rimasi così, cullata dal suono della sua voce finché non mi fui calmata del tutto. «Ti amo» mi salutò.

«Anch’io. Ti amo» sospirai, chiudendo la cornetta. Fissai il vuoto nella mia stanza. Avevo una tela da finire.

Dipinsi per tutta la sera, fino a notte fonda. Avevo abbozzato due dame, una cortigiana con una vestito rosso e un ombrellino e una dama di compagnia, e intorno a loro tre bambini giocavano felici, correndo da una parte all’altra. Erano tutti e tre figli della dama di compagnia e la cortigiana li aveva adottati come suoi, perché non poteva averne. Sul suo volto avevo dipinto un’espressione di ammirazione e allo stesso tempo rammarico, per quella situazione.

Dovetti addormentarmi, perché sentii delle mani scuotermi poco delicatamente. Di certo così sudate e goffe non erano di Edward. «Bells! Credo che tu ti sia addormentata, piccola» mi chiamò mio padre.

Probabilmente avevo ancora addosso gli abiti del giorno prima. Dove mi ero stesa? E quando? Non riuscivo a ricordarlo. «Ho sonno…» mi lamentai, ricadendo sui cuscini. La luce del sole penetrava attraverso le mie palpebre. Era giorno? Quanto avevo dormito?

Sentii mio padre sbuffare. «Non hai una bella cera… Alzati e vestiti, io devo andare a lavoro, ti lascio un’aspirina sul ripiano della cucina e ricordati che deve passare il mio collega a ritirare la bottiglia che sta in cucina, quella trasparente che abbiamo sequestrato a quei teppistelli che…» le sue parole persero di consistenza e mi riaddormentai.

«Bells! Mi hai sentito?».

«Teppistelli. Aspirina. Afferrato» mormorai, riaprendo gli occhi a fatica. «Vai».

Sospirò. «Vado, vado…».

Mi alzai di malavoglia, strisciando i piedi. Controllai un attimo il cellulare e notai che c’erano due chiamate perse. Mi dovevo essere addormentata prima di dire a Edward che sarei andata a dormire, così per prima cosa lo chiamai. Fu un colloquio semplice e piuttosto monosillabico, da parte mia, ma almeno lo tranquillizzai.

Decisi di prendere un’aspirina e fare colazione prima di cambiarmi e rimettermi al lavoro. Così, ancora mezza addormentata, mi ritrovai in cucina. Presi l’aspirina in granuli che mio padre aveva lasciato sul tavolo della cucina e la sciolsi in un bicchiere dell’acqua che avevo trovato lì accanto, probabilmente lasciata da mio padre. Aveva un saporaccio, decisamente peggiore anche del solito. Quindi presi un altro bicchierone d’acqua per mandarlo via, tuttavia sembrò solo peggiorare.

Desistetti, e decisi di mettere qualcosa sotto i denti. Preparai i cereali, e il latte, e quando mi misi seduta, stranamente, già sentivo gli effetti del medicinale. Avvertivo la testa molto più leggera, quasi come se levitasse. Mangiai la colazione e mi resi conto che la vista era leggermente sfocata; probabilmente avrei presto avuto bisogno di occhiali, ma considerando che sarei diventata un vampiro quello non era un mio problema.  Salii le scale e andai a cambiarmi, ma quella sensazione di leggerezza non mi abbandonava, inoltre, ero inciampata più del solito sulle scale. Mi presi una mezz’ora per mettere apposto la casa. Sistemai la mia camera, misi i panni a lavare, rifeci il mio letto e quello di mio padre e scesi al piano di sotto a sistemare la cucina.

Misi il cartone del latte in frigo, le goccioline di condensa che si erano formate sullo sportello del freezer mi caddero sulla mano. Improvvisamente mi venne da ridere, forte. Trovavo la cosa estremamente divertente, per qualche strano motivo. Le cose peggiorarono quando chiusi lo sportello del frigo e notai che la luce che lo illuminava si spegneva. Aprii ancora lo sportello, per controllare il motivo per cui si fosse spenta e magicamente si riaccese. Restai un po’ sorpresa, ma poi, la richiusi, ed ecco che ancora una volta si spense. Poi, l’aprì ancora e si accese. Risi ancora, piegandomi a metà. Era una cosa assurda. Poi singhiozzai. Mi portai immediatamente una mano alla bocca e scoppiai di nuovo a ridere.

«Estremamente divertente» biascicai, sentendo la voce distorcersi malamente in alcuni punti. Scossi il capo, vedendo il pavimento ondeggiare stranamente. Dire che mi sentivo un po’ su di giri era un eufemismo. Afferrai il cartone dei cereali e presi uno sgabello per metterli al loro posto nella dispensa. Salii sullo sgabello e tesi il braccio per sistemare i cereali, ma un’ondata di vertigini improvvise mi assalì, facendomi sbilanciare all’indietro.

Mi ritrovai fra due braccia fredde e non spiaccicata sul pavimento come mi sarei aspettata. Scoppiai a ridere. «Oddio, non sei Edward!» esclamai fra le risate mal trattenute «ciao Jasper».

Mi fissò, con un sopracciglio alzato, facendomi scendere dalle sue braccia. «No, non lo sono». Mi mise in posizione eretta, ma le mie gambe cedettero.

«Ops!» dissi, cercando di contenere le risate, mentre lui mi afferrava.

«Bella? Ti senti bene? Sembri… euforica direi…» sembrava estremamente confuso.

«Oh, ma certo! Che male c’è ad essere contenti!?» esclamai, ridacchiando come una scolaretta.

«Niente, suppongo… Non ho capito perché Alice mi abbia detto di venire qui, ma deve avere a che fare con il tuo comportamento» disse scrutandomi.

«Meglio» dichiarai gioiosa. Mi strinsi al suo braccio. «Sai, mi sentivo molto sola» mormorai, la voce intinta nel miele.

La sua espressione si fece ancora più scettica. «Stai male?» domandò, posandomi una mano sulla fronte.

La bloccai lì dove l’aveva messa, schiacciando il mio petto al suo. «Mi sei mancato, Edward. Non lasciarmi più sola. Promettilo».

«Pensavo che avessimo chiarito il punto che non sono Edward».  Si sventolò una mano davanti al naso, facendo una smorfia, come se avesse sentito un pessimo odore. «Hai bevuto?».

Sgranai gli occhi, sorpresa dalla domanda. «Chi? Io? Umh… ho bevuto l’acqua. E il latte. Vuoi bere qualcosa insieme a me? Avanti, Edward, non farti pregare».

«Si, hai bevuto» constatò.

«Non ho bevuto niente con te. Quindi non conta. Vuoi bere un po’ da me?» domandai, chinando il collo per esporre la giugulare e dimenando le sopracciglia maliziosamente. La mia voce era così strana, eppure non riuscivo a curarmene.

«Adesso chiamiamo Alice…» disse Jasper, come se stessa parlando con una bambina.

«Oh» m’imbronciai. «Ma poi Alice vorrà fare tutte quelle prove per il matrimonio. Non ho tempo!» sbottai, allontanandomi da lui ma non riuscendo a fare neppure due passi in linea retta.

Jasper scosse il capo, caricandomi sulle spalle e trascinandomi fino al piano di sopra.

«Oddio, mi piace questo gioco! Gira tutto, è così strano» ridacchiai. Il pavimento era diventato il soffitto.

Mi lasciò cadere sul letto. «Aspetta qui» mi ordinò perentorio.

Annuii, chinando il capo a fissare le mie quattro mani, mentre sentivo Jasper parlare velocemente con qualcun altro dall’altro capo del telefono.

Sentii qualcosa del tipo “sì, ti dico che ha bevuto, e anche tanto…” e poi “no, Edward non sa niente”, “ho capito, allora non gli dirò nulla”, poi chiuse la chiamata e tornò a guardarmi.

«Edward, non sai niente?» domandai disorientata.

Sospirò. «Ok, adesso tu te ne stai qui buona buona e io trovo un modo per farti ritornare normale…».

Intanto ero sgattaiolata verso la finestra e l’avevo spalancata, avvistando la mia vicina. «Ehi, lei!» la chiamai, sporgendomi. La signora sobbalzò, sentendo la mia voce e mi rivolse un saluto timido con una mano.

«Vieni qui!» sibilò Jasper nel momento in cui un raggio di sole m’illuminò.

«Signora! Le volevo dire che non sono incita! Vede?!» dissi sollevandomi in maglione per mostrare la pancia «non c’è più bisogno di spiarmi io mi sposo perché amo il mio fidanzato!».

La signora mi fissava con gli occhi spalancati, sbigottita, mentre il sole fu coperto dalle nuvole e io mi sentii afferrare da dietro da due macigni ghiacciati.

«Vieni qui e non ti muovere, capito?»

«Ciao, Jasper!» lo salutai contenta «e tu cosa ci fai qui? Dov’è finito Edward?» domandai, improvvisamente triste.

Sollevò gli occhi al cielo.

Abbassai il viso, presa da una nostalgia immensa. Come poteva, nel giro di così pochi secondi? Mi portai una mano alla bocca, sentendo le lacrime salire agli occhi. Mi sentii improvvisamente stanca e fui sommersa da un senso di nausea. Scattai in bagno e mi ritrovai piegata sul gabinetto a vomitare. Tutta l’euforia provata si era trasformata d’un tratto in tristezza. Jasper mi aiutò a sciacquarmi la bocca, poi mi sedetti sul pavimento del bagno, fissando le  piastrelle davanti a me.

Jasper era guardingo al mio fianco.

«Edward non c’è…» constatai tristemente.

«Vuoi che vada a chiamarlo?» mi chiese con dolcezza.

Scossi il capo, depressa. «Voglio… voglio rimanere sola…» mormorai, tirando su con il naso. Abbassai il viso, premendomi una mano contro il ventre.

Mi sentii investire da un’ondata di calma, ma la tristezza faticava a scomparire.

Lasciai scivolare la guancia contro la sua spalla. Per un attimo sussultò, poi si adattò alla mia posizione. «Ieri mio padre mi ha dato delle foto. C’era mia madre, e lui. E lei era incinta. Avevano… un bambino. Beh, ero io. Sembravano davvero felici, Jasper… così felici… ed io ho dipinto un quadro su tutta questa storia, perché per un attimo ho pensato che avere un figlio sia davvero una delle più belle cose che possa accadere, e io… oh. Sono come la mia Cortigiana, non l’avrò mai…» singhiozzai, portandomi le mani al viso.

Jasper s’irrigidì, e poco dopo sentii invadermi da nuova calma. «Bella, sei sicura di quello che vuoi?» mi chiese preoccupato dopo un po’.

Nonostante il notevole annebbiamento mentale, capii la sua domanda. Battei le palpebre, sorpresa dalle parole che mi erano uscite dalla bocca. «Lui. Io voglio lui, tutto il resto non importa» dichiarai convinta, tuttavia sempre più assonnata. Era vero, nonostante forse lo volessi, nessun ipotetico figlio avrebbe potuto darmi la felicità di avere Edward al mio fianco. Mi pentii di essermi lasciata sfuggire una stupidata del genere con suo fratello.

Mi sentii sollevare per aria e mi ritrovai nel mio letto.

«Jasper… Non dire niente a Edward, per favore…» mormorai, macerata dal senso di colpa.

Sospirò. «Certo Bella. Ora dormi».

«Per favore, niente» ribadii, scivolando sempre più nel sonno.

«Niente, te lo prometto».

 

   
 
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