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Autore: SpinellaTappo98    02/09/2016    0 recensioni
Esco per strada e sento l'odore sbagliato. Mi aggiro per i vicoli in cerca di quello giusto per arrivare a scuola e vedo solo il colore sbagliato. Addento quello che doveva essere il mio pranzo e sento il sapore sbagliato. Tendo le orecchie a cogliere i suoni del risveglio della città, ma trovo solo qualche pigro brontolio sui futuri compiti in classe della giornata. Anche questo è sbagliato, per le strade non c'è il suono giusto. Ah, non dimentichiamoci del clima, pure quello è sbagliato. Non fraintendetemi, non è che non riesca a trovare nulla di positivo in questa città, è solo che...non è il posto giusto per me, è il luogo sbagliato.
Genere: Generale, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Palermo in due minuti

Esco per strada e sento l'odore sbagliato. Mi aggiro per i vicoli in cerca di quello giusto per arrivare a scuola e vedo solo il colore sbagliato. Addento quello che doveva essere il mio pranzo e sento il sapore sbagliato. Tendo le orecchie a cogliere i suoni del risveglio della città, ma trovo solo qualche pigro brontolio sui futuri compiti in classe della giornata. Anche questo è sbagliato, per le strade non c'è il suono giusto. Ah, non dimentichiamoci del clima, pure quello è sbagliato. Non fraintendetemi, non è che non riesca a trovare nulla di positivo in questa città, è solo che...non è il posto giusto per me, è il luogo sbagliato.

Scusate, temo di aver dimenticato di presentarmi. Io sono una ragazza, una normalissima ragazza che vive in una normalissima città del centro Italia, che frequenta una normalissima scuola superiore e che ha una famiglia normalissima. Ok, magari quest'ultima cosa non è troppo vera. La mia famiglia non è normale, è un covo di pazzi, se decidessero di riaprire i manicomi, probabilmente tutta la mia famiglia, il che comprende anche me, vi sarebbe rinchiusa come ospiti d'onore. O forse come cavie per testare un qualche psicofarmaco. Che ci volete fare, i parenti uno non se li sceglie.

Potrebbe scegliere il luogo dove vivere, però, ma non se vive ancora con i suoi genitori, cosa di cui mi rammarico parecchio. Mio padre mi sgrida di continuo, dice che dovrei essere grata a questa città grigia e mezza triste, perché mi ha consentito di crescere senza troppi pericoli ed in tranquillità, offrendo ad i miei genitori lavoro, servizi pubblici decenti e poca criminalità. Tuttavia, come può chiedermi di non sentire la mancanza del mare, del sole, del caldo? Palermo è la città che mi ha rubato un posto nel cuore e che da li proprio non ha intenzione di andarsene. Se potessi scegliere, vivrei in Sicilia.

Non so come farei per alcune piccole questioni, come ad esempio il problemuccio con il lavoro ed i piccoli inconvenienti con la legalità, ma quello sì che è un posto giusto. Ha l'odore giusto: pane appena sfornato misto a salsedine, la sveglia ideale alle cinque come alle sette del mattino, specie se poi si passa vicino ad uno dei mercati che iniziano ad essere allestiti, dove ortaggi e frutti si mischiano a pesce appena pescato e formaggi appena usciti dai caseifici. Ha i colori giusti: blu limpido punteggiato di bianco, come il mare e le sue onde, oro di mille e più sfumature, come il sole e le spiagge e la pelle di chi è abituato a otto mesi di caldo e qualsiasi cosa venga baciata dai raggi di vita, nero, come gli occhi penetranti di chi porta ancora dentro sé i segni di secoli di arabi e spagnoli. Ha i sapori giusti: olio, zafferano, melanzane, pesce, riso, basilico, lievito, come quello della pizza e dei calzoni più buoni del mondo. Ha i suoni giusti: il caos del risveglio di una città che ha troppo da fare per permettersi di dormire sin dalle prime luci dell'alba, dove gli studenti per andare a scuola con i loro brontolii sono uno degli ultimi brusii ad aggiungersi alla sinfonia mattutina.

Invece vivo qui. In mezzo al freddo e alla pioggia. I negozi non aprono prima delle otto o delle nove ed ultimamente i panifici sono sempre meno, per non parlare dei mercati, che ne è sopravvissuto solo uno alla settimana. Se ti serve qualcosa, vai al supermercato. Ma se volessi del cibo fresco? Come faccio a sapere se il pesce è quello buono, ancora fresco, se non c'è Totò, il pescivendolo di fiducia di mia nonna, che mi assicura che posso comprarlo? Me lo ricordo bene, Totò. È uno dei venditori che stanno al mercatino di via Montalbo, proprio dietro casa di mia nonna, che abita invece in via Rallo. Quando ho il lusso di poter accompagnare mia nonna al mercato e girare a braccetto con lei per quella lunga via, passiamo sempre davanti al banco di Totò. E lui le parla, le consiglia il pesce, ma lo fa in modo che le altre donne non capiscano bene il loro linguaggio, ormai si conoscono da quasi quaranta anni, nonna ed il signor Totò, sono bravi a parlar tra loro. Se lui le dice “Signora Giuseppa, buongiorno! Vinni a fari ru chiacchiri? Eh, oggi avutru nun si pò fari, nun è pisci pi lei chistu!” allora la nonna non si azzarderebbe mai a comprare quel pesce, non è pesce fresco e lei è fissata con le cose fresche, specie con il pesce.

Eh sì, sin da piccola non ho mai dimenticato il mercato di via Montalbo. Quando ero una bambina passavo molto più tempo di ora in Sicilia e nonna mi insegnava a fare spesa. Io chiudevo gli occhi e mi lasciavo invadere dalle urla dei venditori, dalle voci delle donne restie ad accettare un prezzo senza prima contrattarlo, dal vociare dei bambini che si godono la propria estate come possono e giocano a calcio in mezzo alla strada e si divertono da matti, dagli odori di tutto quel cibo messo insieme e dei fiori dolci che crescono sotto il sole caldo. Il quartiere di mia nonna non è uno di quelli messi meglio in tutta Palermo, ma non è neanche tra i peggiori. Lei mi ripeteva sempre che c'erano rioni ben peggiori, almeno nel suo abitavano lavoratori onesti, gente rispettabile.

Palermo però non è la mia città, è la città di mia madre, dei miei nonni, dei miei zii, dei miei cugini, anche. Catania è quella di mio padre e di tutto il resto della sua famiglia. Qualcuno di voi si starà chiedendo cosa ci faccio allora a mille chilometri da quella terra che la mia famiglia chiama “casa”. Beh, riguarda quei due piccoli problemucci, inconvenienti di poco conto a cui ho accennato prima: il lavoro e la criminalità, che giù prende il nome di Mafia. I miei hanno trovato lavoro qui e non volevano far crescere i loro figli in un posto dove la mentalità era ancora quella dell'età feudale.

Sin da bambini, a scuola ci parlano di Mafia, di come dobbiamo combatterla e di come venga associata al nostro Sud. Ci insegnano a fare da subito le associazioni di base. Campania uguale Camorra. Calabria uguale 'Ndrangheta. Puglia uguale Sacra corona unita. Sicilia uguale Mafia. A me non sembra giusto, non è mai sembrato giusto. Perché da piccola, io in Sicilia ci passavo quasi più tempo che qui, dove sono nata e abito, perché mi avevano insegnato che sì, c'era la Mafia, ma c'era anche chi la combatteva, VEDEVO che c'era molto di più di quello che ci raccontano.

Mentre nella mia mente si accende una discussione contro me stessa sui pro ed i contro di vivere al meridione, discussione che sono destinata a perdere essendo contro me stessa, mi rendo conto di essere arrivata a scuola. Mi ricordo perché ho iniziato a pensare alla Sicilia già appena sveglia, questa mattina. Oggi è il ventiduesimo anniversario della morte di Padre Pino Puglisi, una delle figure antimafia preferite di mia nonna. Credo che se esistesse un fan club per quel prete, mio nonna ne sarebbe membro onorario. Però non so se don Puglisi è definibile “figura antimafia” nel senso proprio della parola, credo che sarebbe una riduzione del compito che quel piccolo e straordinario uomo si è assunto sulla terra, con umiltà, nelle sue possibilità a scuola e nel quartiere di Brancaccio. Grazie a lui ho capito che è proprio vero che è nel proprio piccolo che si può iniziare a fare qualcosa di grande.

Proprio con queste parole inizio il tema che la professoressa ci ha assegnato come compito in classe. Un tema di attualità. “Legalità: la Mafia e chi la combatte” un tema spinoso, direi. Spinoso, come deve esserlo senz'altro stato quel prete di periferia per quelli di Corleone, ed è proprio per questo che oggi il mio tema lo inizio con la frase: “Se dobbiamo parlare di Mafia e di antimafia, allora dobbiamo senz'altro chiedere parere a mia nonna, membro onorario del fan club di Padre Pino Puglisi.”, un inizio un tantino sul comico, così, perché mi va di sdrammatizzare. Non perché non dia importanza ad un simile problema, solo ritengo che se continuiamo a parlare della Mafia con i soliti termini claustrofobici e seriosi, prima o poi le persone si annoieranno e smetteranno di ascoltare. Lo stesso Don Puglisi, durante le sue omelie, alle quali assistevano anche i delinquenti che perseguitavano lui e le persone che lo appoggiavano apertamente, parlava con parole semplici ai suoi tormentatori e chiedeva loro di parlarsi, di chiarirsi, di spiegargli perché non volessero che lui insegnasse ad i loro figli la legalità. Sarà per il fatto che a forza di sentire mia nonna, mi è entrato nella testa, ma anche io inizio ad amare Padre Puglisi. Vorrei tanto averlo potuto conoscere, tuttavia non ho avuto altra alternativa che far visita alla sua tomba. Spesso i grandi uomini sono quelli più scomodi per gli uomini vili e codardi, spaventati dalla luce del carisma che i primi emanano. E così dei grandi uomini non rimane altro che una tomba a cui far visita una domenica, stando in silenzio a fissare la lapide chiedendosi come faccia quell'iscrizione a decretare la morte di una persona che si sente così viva, che ancora oggi ci insegna tanto. Che quelle persone abbiano trovato la scappatoia per farla in barba alla vecchia signora? Chi lo sa, magari questa è un'altra delle tante altre cose da imparare da loro. O forse ciascuno ha bisogno di trovare il proprio modo.

Il resto delle ore le passo a pensare, come sempre. Non riesco a smettere di pensare. Basta una parola pronunciata a caso da una delle persone che mi circondano, per far sì che io inizi a fantasticare senza più limiti. La cosa strana è che seguo lo stesso le lezioni, una parte del mio cervello ascolta, l'altra fantastica o ragiona su quello che ha ascoltato. Non riesco a descrivere come vorrei la baraonda che si crea nei miei pensieri, è normale che io appaia un pizzico folle o strana, sfido io a tenersi in testa un simile aggrovigliamento di idee. Se decido di scrivere una frase, mi conviene fissarla subito, perché dopo un paio di secondi, ecco che è già corsa appresso ad un'altra. Ecco, temo che i miei pensieri giochino ad acchiapparella tutto il giorno. Ma vai un po' a vedere che razza di irrispettosi, io a momenti non finisco dentro un pozzo come Talete per cercare di sentirli tutti e loro giocano. Per colpa di quei dispettosi sono talmente distratta che diverse volte sono finita giù dalle scale o in una buca procurandomi lividi o distorsioni alle caviglie. Non sarà il pozzo di Talete, ma neanche la mia sbadataggine è poco fastidiosa. Per questo scusatemi se nel corso di questo racconto troverete digressioni e digressioni di digressioni, pensieri infiniti e chiacchiere, tante chiacchiere. Però sono fatta così, se qualcuno si sarebbe immaginato che fossi venuta su così bizzarra, probabilmente avrebbero posto più cura nello spiegarmi come di solito si comportano le persone normali. Come ho detto prima, la mia famiglia è un covo di matti. Ci si trova dentro un po' di tutto, dipende da come si svegliano.

Comunque, uscita da scuola vado a pranzo con dei miei amici. Già, persino io ne ho. Un paio sono anche normali! Per riprenderci dalle ore in cui il cervello si è andato fondendo pian piano, ci prendiamo dei pezzi di pizza e li mangiamo seduti su una panchina. Anche se amo la pizza, quasi piango a mangiare quella che fanno qui. È tutto un sapore diverso. È una consistenza diversa. Un odore diverso. Ed ecco che con la mente sono già altrove.

Mi riporta alla realtà la voce di Sabrina, che mi chiama: “Ei! Cerca di non vagare troppo oggi, ho sonno e non ho voglia di venirti a ripescare ovunque tu sia finita”.

“Ah, sì, scusa” rispondo, anche questa volta sovrappensiero. “Cos'hai scritto sul tema?”.

Sabrina ci pensa un po' su. Lei è una di quelle persone che molte cose le dimenticano anche mentre le stanno facendo. Lineamenti nordici ereditati dalla madre slovacca, carnagione eburnea, capelli biondi alle spalle e occhi di un limpido azzurro, atletica e per nulla sbadata. Il mio opposto. Io sono mora, con tonalità di capelli che cambia a seconda della stagione per via del sole, passando dal quasi nero al castano con striature ramate, ho occhi neri, anzi, nerissimi, come le olive, la pelle sarebbe olivastra, se non fosse per il pallore che mi accompagna sempre, non vado troppo d'accordo con l'atletica, forse anche per quella lieve anemia mediterranea che mi ricorda da dove vengo, e sono stata capace non solo di inciampare sui miei piedi, ma di farlo da ferma. Mia madre ci chiamava “le veline” da piccole, perché eravamo una bionda ed una mora e stavamo sempre insieme. Probabilmente Sabrina è l'unica persona che ancora mi sta accanto sin dall'infanzia. Il resto degli amici no, li ho presi da poco, quasi come si prendono delle medicine.

Dopo minuti di riflessione che hanno lasciato spazio ad i miei più vaghi pensieri, Sabrina decide che è il momento di rispondere: “Ho scritto qualcosa di quello che ho letto sui fogli che la professoressa ci aveva dato qualche settimana fa. Ci ho aggiunto qualche notizia che ho sentito al telegiornale e un paio di considerazioni che ha fatto papà durante quei servizi. Non è che avessi molte altre idee...” beata lei, io ne ho fin troppe. “Tu cos'hai scritto? Ho visto che ridevi da sola e che svogliavi un libriccino mentre scrivevi. Sinceramente devo ammettere che mi hai spaventata un tantino...”.

Io rido. Di solito faccio quest'effetto. Quando i miei sprazzi di follia iniziano a dilagare al di la della mia mente, le persone si preoccupano o si spaventano. Qualcuno ride. Far ridere le persone, se è per queste cose e non per disprezzo, è bello. Improvvisamente mi ricordo che la biondina che ho davanti mi ha fatto una domanda. “Oh, io ho descritto Palermo. Ho anche parlato del fan club di mia nonna per Don Puglisi. E di quello che mio nonno mette su per Petrosino, ne parla sempre quando c'è qualcuno che ci fa visita in Sicilia. Lui lo porta a piazza Marina e, tutto impettito declama 'Ca muriu Joe Petrosino. Vinni rall'America pi essere sparato ca, quattro pirtusi gli trovarono a Giuseppe, paci all'anima sua. Grand'uomo era!' e mio nonno ama i grandi uomini.”.

Sabrina guarda Jacopo e Jacopo guarda Sabrina. Mi ero quasi dimenticata che ci fosse anche Jacopo, quando mangia tende a diventare invisibile. Quest'ultimo, che aveva giusto finito la sua pizza, mi domanda: “Ma chi è Petrosino?”.

“Come chi è?! Era un poliziotto italo-americano ucciso dalla Mafia. E pensare che per una indagine era partito dalla Little Italy di New York per essere ucciso a Palermo. Credeva che in Sicilia le cose fossero come a New York, che la Mafia non si azzardasse ad uccidere un poliziotto. Se solo si fosse ricordato quali erano le leggi del luogo in cui era nato...” e mi vien quasi da piangere. Una così bella terra rovinata da un gruppo di delinquenti.

Jacopo non sembra soddisfatto delle mie risposte: “Non evitare i pezzi delle domande, hai detto cosa hai scritto, ma riguardo al libriccino che sfogliavi mentre scrivevi il tema?”

“Ah, quello! Era il nuovo libro di Alessandro D'Avenia, 'Ciò che inferno non è'. Da quando l'ho letto mi capita spesso di pensarci, il modo in cui lo scrittore descrive Palermo, il sentimento che attribuisce alla città, che varia a seconda dello stato d'animo dei personaggi o della loro maturazione. Mi fa impazzire quel libro. Palermo che prima è un fiore, poi è un porto, dopo ancora parole, infine spasimo. Dovreste leggerlo. È uno di quei libri che, se letti nel modo giusto, ti entrano nel cuore.”

“E quale sarebbe il modo giusto?”

“Lasciare che sia il libro a pensare per te.”

“Ok, ma io non sono mai stato a Palermo” Jacopo.

“Neanche io, i miei hanno paura della criminalità” Sabrina.

“Se prendi due cuccioli, anche se uno è più minuto e l'altro è più grosso e prepotente, quello che sopravvive è comunque quello a cui dai da mangiare. A prescindere dalla loro forza e prepotenza. Quando si rinuncia ad andare a visitare quei posti fantastici per paura della Mafia o quando si lascia che le cose continuino così, che la natura faccia il proprio corso, che venga applicata la legge del più forte, si decide di dar da mangiare al cucciolo sbagliato e si lascia morire l'altro pian piano. È questa la lotta alla criminalità, è questo che facevano le figure antimafia di cui andiamo tanto orgogliosi, davano nutrimento alla giustizia e alla legalità. Tuttavia, che senso ha se continuiamo a lasciar spazio alla paura e alla violenza? Non molto, se ci pensate bene...” sono partita per uno dei miei monologhi ispirati. Li chiamo monologhi perché parlo più con me stessa che con gli altri.

I miei amici stanno un attimo in silenzio. Rimuginano, chissà a cosa pensano.

“Facciamo così” mi è venuta un'idea per far capire ad i miei amici quello che provo. Mi sono arresa all'avere mille pensieri in testa, tanto vale sfruttarne qualcuno. “Che ne pensate se vi portassi a Palermo in due minuti?”

“Cosa? A Palermo? In due minuti?” Sabrina è scioccata.

“Rosalia, ma ti senti bene?” evidentemente Jacopo è preoccupato, in genere non usa il mio nome per intero, mi chiama Rosi.

Io sono troppo eccitata dalla mia idea per contenere l'entusiasmo: “Massì! A Palermo! Ora! Non ci vuole nulla! Basta abbandonare il proprio corpo e far vagare la mente. Lasciate che sia io il vostro libro da leggere nel modo giusto. Lasciate che sia io a pensare per voi, a vedere per voi. Dovete solo ascoltare. Fidatevi di me!”. Non abbandonerò la mia idea di portarli a Palermo in due minuti. Il corpo non posso portarcelo, ma la mente è già lì. Mi basterà portare con me anche la loro.

Si scambiano sguardi confusi, so che stanno comunicando tra loro mentalmente, frutto di sei anni di amicizia, poi parlano all'unisono: “Va bene, ma niente cose strane!”.

Sorrido ed inizio il mio racconto. Potete seguire anche voi, se vi va. Che ne dite? Vi va di provare ad arrivare a Palermo in due minuti? Magari fatevi leggere il racconto da qualcun altro, dato che non potete farlo da soli ad occhi chiusi, perché è proprio questa la prima cosa che dico ad i miei amici.

“Chiudete gli occhi. Mi raccomando, svuotate la mente. Ora ascoltate. Le sentite le voci dei bambini? Giocano e corrono per le strade, sono loro i protagonisti del loro piccolo mondo, ignari di quello che a pochi passi da loro sta per accadere. Siamo nella Palermo del 1909. 12 Marzo 1909 per la precisione. È una tiepida sera di primavera qui, a piazza Marina, nel centro storico di questa storica città, siamo a due passi dal mare e sono circa le 20.45, ora in cui si inizia a cenare nelle terre dove il sole tramonta più tardi. Sentiteli i bambini, ascoltate i loro versi di gioia, parlano in dialetto, nella loro lingua, nella lingua dei loro nonni, ancora non vanno a scuola per imparare l'italiano. Sentiteli. Io li sento, uno sta dicendo 'Curri! Curri! Matruzza addulurata, Fulippo! Curri o ni fannu gol!', tra poco le loro madre li chiameranno per cena, perciò ogni minuto di gioco è importante. Ad un certo punto il pallone finisce addosso ad una delle donne che stanno aspettando il tram proprio lì a piazza Marina. 'Vastasieddi! Ah, curriti, eh? Tanto u sacciu ri cu siti figghi!' la signora li ha rimproverati ed i bambini corrono via, elettrizzati da questa piccola ragazzata che hanno fatto. Si inizia a sentire della musica provenire da un rione poco lontano. 'A vucciria', la confusione, chiamato così per il mercato che ogni giorno vi è allestito e che ancora oggi, se vi capita di passarci, è pieno di vita e voci. Immaginatevelo, una piazza color sabbia, pelli dorate, un pallone che rotola abbandonato vicino ad un parco verde.

Poi, improvvisamente, ecco che qualcosa si spezza. Tra colpi di pistola, rapidi, vicini. Subito dopo un quarto. La folla che un momento prima aspettava il tram, è nel panico. Chi fugge e chi accorre verso il boato. A terra c'è un uomo. Indossa un'uniforme. Nessuno sa chi sia, ma poco dopo si scoprirà che era Giuseppe, detto Joe, Petrosino. Un poliziotto italo-americano venuto dall'America arrivato in Sicilia sui passi di una indagine. Non immaginava, era troppo tempo che non stava in quella terra, non poteva ricordare che in quei posti la Mafia non guarda certo un uniforme. E così se ne va Joe Petrosino, figura antimafia. In quella piazza ad ora di cena.

Ma chi era questo Giuseppe Petrosino? Nato a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860, di famiglia modesta, non povera: con il suo lavoro di sarto, il padre era riuscito a far studiare i suoi quattro figli maschi; emigrò con la famiglia a New Yorknel 1873 e crebbe nel sobborgo di Little Italy. Il piccolo Giuseppe per vivere si era messo a vendere giornali, a lucidar scarpe e a studiare la lingua inglese. Nel 1877, Joe prese la cittadinanza statunitense, facendosi assumere l'anno dopo come netturbinodall'amministrazione newyorkese. Era caposquadra quando, una dopo l'altra, avevano incominciato ad arrivare in America le fitte schiere degli emigranti italiani. Questo fenomeno aveva posto le autorità americane di fronte a gravissimi problemi, primo quello dell'ordine pubblico. I poliziotti, quasi tutti ebrei o irlandesi, non riuscivano a capire gli immigrati né a farsi capire da loro: questo generava un clima a favore delle organizzazioni criminali che giunsero in breve a controllare tutta la Little Italy, ghetto malsano, fetido, superaffollato, dove una povera umanità sradicata doveva lottare ogni giorno per la vita. Little Italy era il terreno ideale per la pianta del crimine. Con gli emigrati ansiosi di lavoro erano sbarcati negli Stati Uniti avventurieri, evasi e latitanti. Nel 1905, divenendo poi tenente gli era stata affidata l'organizzazione d'una squadra di poliziotti italiani, l’Italian Branch, e ciò aveva reso più proficua ed efficace la sua lotta senza quartiere contro la Mano Nera, una tenebrosa organizzazione a carattere mafioso, con ramificazioni in Sicilia, attraverso la quale si esprimeva il racket. Fu proprio dietro alle piste della Mano Nera che Joe Petrosino arrivò a Palermo, dove quella sera primaverile, venne ucciso.

In poco tempo tutti seppero la storia di Giuseppe Petrosino, le notizie passano veloci di bocca in bocca, le storie si tramandano e così il ricordo non svanisce. È per questo che le storie di persone come il poliziotto italo-americano arrivano a noi.

Bene, ora spostiamoci avanti di circa sessanta anni. 1964, in seguito ad un concorso per la magistratura, Giovanni Falcone diventa procuratore a Lentini per poi spostarsi subito come sostituto procuratore a Trapani. All'indomani del tragico attentato al giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre 1979, Falcone comincia a lavorare a Palermo presso l'Ufficio istruzione. Siamo ancora nella stessa città di prima, con i bambini che giocano, le persone indaffarate per le strade, l'odore di pane appena sfornato a qualsiasi angolo e a qualsiasi orario. Tuttavia c'è qualcosa di diverso nell'aria, è iniziata una lotta pubblica, attiva e serrata alla Mafia. Ed è proprio in quest'aria che si distingue il profumo di un uomo diverso, l'avvento di Giovanni Falcone.

Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affida nel maggio 1980 le indagini contro Rosario Spatola, un processo che investiva anche la criminalità statunitense, e che vide il procuratore Gaetano Costa, che poi sarà ucciso appena un mese dopo, ostacolato da alcuni sostituti, al momento della firma di una lunga serie di ordini di cattura. Proprio in questa prima esperienza Giovanni Falcone avverte come nel perseguire i reati e le attività di ordine mafioso occorra avviare indagini patrimoniali e bancarie, e come soprattutto occorra la ricostruzione di un quadro complessivo, una visione organica delle connessioni, la cui assenza in passato aveva provocato una 'raffica di assoluzioni'. Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici, a capo del team di magistrati di cui fanno parte Falcone, Barrile e Paolo Borsellino, viene ucciso con la sua scorta in via Pipitone; lo sostituisce Antonino Caponnetto, il quale riprende l'intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Insomma, Giovanni Falcone fu uno di quei magistrati che non si vanno a nascondere dietro ad un dito, che sanno con precisione qual è il problema e qual è la soluzione. Da persone come lui dovremmo imparare a non derogare ad altri ciò che noi stessi possiamo fare. Cosa sarebbe successo se il giovane Giovanni avesse deciso di andare a mangiare un panino con la milza in riva al mare con gli amici piuttosto che rischiare la sua vita per la sua città?

Già, perché Giovanni Falcone è stato ucciso dagli uomini di Cosa nostra, dalla Mafia che per tutta la sua vita aveva combattuto. Questo perché era un grand'uomo, uno di quelli che restano scomodi, si sa, a chi di voglia di cambiare ne ha ben poca. Falcone sapeva bene a cosa andava incontro, però sapeva vivere con la sua paura, perché i veri coraggiosi sono quelli che sanno vivere con la propria paura giorno dopo giorno senza lasciarsi condizionare da essa. Questo ce lo ha insegnato lui. Lui che sapeva che la Mafia è potente, radicata nello Stato, che arriva ovunque. Lui che decideva di lasciare Palermo perché ormai gli era troppo difficile lavorare in quelle condizioni, dove molti dei suoi colleghi erano in realtà i suoi più grandi nemici, informatori della malavita, attenti ad ogni suo singolo movimento. Lui che disse che 'Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco molto grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno'. Lui che faceva il magistrato, era un servitore dello Stato e che tuttavia non aveva timore, ma solo profonda vergogna di affermare che 'In Sicilia la Mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere'. Lui, che sentendosi prima italiano e poi siciliano, era restio a rassegnarsi a lasciare la Sicilia ad i siciliani.

Per mettere a tacere una persona decisa e forte e coraggiosa come Giovanni Falcone, gli uomini di Cosa nostra hanno dovuto dar vita alla stage di Capaci. Prestate attenzione, qui. Capaci, un paesino palermitano dove regnano il mare e la sabbia. 17.56 del 23 maggio 1992. Si direbbe un tardo pomeriggio primaverile, passato da molti a passeggiare sulla battigia o a fissare l'orizzonte. Il suono della risacca culla le menti con dolcezza. L'odore della salsedine ha un qualcosa di familiare che spinge a sentirsi a casa. Poco lontano da quella pace, c'è un'autostrada, sulla quale un'auto con a bordo cinque persone sta sfrecciando senza troppe preoccupazioni. Poi, in un secondo, l'Inferno si riversa in terra. Cinquecento chili di tritolo fanno esplodere l'auto. Nessuna speranza per le persone a bordo. Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo ed i tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco di Cillo e Vito Schifani. In quel momento la Sicilia perse le sfumature dorate.

A rendere ancora più buio quel momento della storia della nostra nazione, vi è la scomparsa del magistrato Paolo Borsellino, un altro grand'uomo, quello che fu il più giovane magistrato d'Italia, amico e compagno di ideali di Giovanni Falcone. Anche la loro fine sarà simile. Uomini di Cosa nostra. Esplosivo. Automobile. Neanche un mese e l'incubo pare ripetersi. Cambiava il luogo. Invece di Capaci, ci fu via D'Amelio.

Nel 1980, l'anno in cui la Mafia cambia volto ed i vecchio uomini d'onore sono sostituiti dai sanguinari seguaci di Totò Riina, Paolo Borsellino inizia a collaborare con Rocco Chinnici, procuratore capo di Palermo. È un incontro importantissimo nella vita del magistrato. Come racconta Rita Borsellino, sorella del giudice: 'In Chinnici Paolo trova la figura paterna che aveva perso quando era giovane'. Chinnici ha l’intuizione giusta: indirizzare le indagini verso le attività finanziarie di Cosa nostra. Che la strada è quella giusta lo dimostra le reazione della mafia. La scia di sangue lasciata da Cosa nostra è sempre più lunga. Al funerale del suo amico Falcone, Paolo Borsellino dirà: 'Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la Mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte'. Borsellino vuole sottolineare che chi intraprende una lotta contro la Mafia lo fa pienamente consapevole di tutto ciò che comporta, perché conosce ciò che combatte e sa come agisce. È per questo che un'altra delle frasi da ricordare dell'elogio funebre che il magistrato fece in onore di Falcone è: 'La lotta alla mafia (primo problema orale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità'.

La morte di Borsellino è anche più triste di quanto non dovrebbe essere, resa tale dalla piena consapevolezza da parte della vittima di quale sarebbe stata la sua fine. Il magistrato era infatti venuto a conoscenza dell'arrivo a Palermo di un carico di esplosivo destinato al suo omicidio e venti giorni prima aveva chiesto di disporre la rimozione dei veicolo nella zona antistante l'abitazione della madre. Richiesta rimasta inevasa. E fu proprio lì, in via D'Amelio che nel primo pomeriggio di domenica 19 Luglio 1992, davanti l'abitazione della madre del magistrato Paolo Borsellino che quest'ultimo fu assassinato insieme ai cinque uomini della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina. Provate ad immaginare. Sentite il suono delle voci delle donne che parlano da un balcone all'altro nei palazzi vicini, tranquille nella loro normalità di un giorno di festa, dopo essere state a messa e aver preparato il pranzo alle loro famiglie. Nessuno poteva aspettarsi quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Mia nonna c'era. Era lì. Via Rallo, appena una traversa e mezzo dietro via D'Amelio. Tutto procedeva silenziosamente quando uno scoppio fece correre tutti in strada. Vecchi, uomini, donne e bambini. Per le strade era il caos. Gente che piangeva. Gente che urlava. Una tragedia! Ecco cosa dicevano le urla, terrorizzate o disgustate. Ma cosa è successo? Cos'è stato? È morto? Ma chi è morto? Poi ecco la risposta che inizia a farsi largo tra la folla. Paolo Borsellino e la sua scorta. Dolore. Dolore per un grande uomo che non aveva colpe, se non forse credere con fermezza nei propri valori. Ma p forse questa una colpa? Dolore per una città che ancora non si è ancora ripresa da un'altra grave perdita. Dolore perché un po' tutti si sentivano partecipi alla speranza che portava con sé quell'uomo. Cento chili di tritolo si sono portati via la tranquillità e la speranza di un'intera città, quella domenica.

No, non rattristatevi troppo. Pensate che questi grandi uomini noi li consideriamo tali e diamo importanza a quello che hanno fatto. Vale a dire che ci ricordiamo di loro. Che sono morti, ma rimangono vivi nei loro ideali.

Ed ecco l'ultima storia che vorrei raccontarvi. Padre Pino Puglisi, soprannominato 3P, prete e professore di religione, aveva dato alla sua vita lo scopo dell'insegnamento all'amore e alla legalità. Nato nel quartiere di Brancaccio, a Palermo, il 15 settembre 1937 e morto sempre nel quartiere di Brancaccio il 15 settembre 1993, a cinquantasei anni. Gli hanno sparato il giorno del suo compleanno. Immaginatevi. Sono le 20.45 di una mite sera di metà settembre e ci troviamo per i vicoli di un quartiere abbandonato al tempo, seppure sia abitato. Per quelle strade non c'è nessuno. Non si sentono neanche rumori. Nulla. È tutto fermo questa notte. C'è solo un parroco di periferia che tenta di aprire la porta di casa sua, incurante che ci siano due uomini ad attenderlo. Uno finge una rapina, per nascondere il delitto di Mafia a discapito di un prete, l'altro attende per sparare. Don Puglisi guarda il falso ladro e gli risponde 'Me l'aspettavo' e poi sorride mentre il secondo gli spara. Sarà questa la cosa che tormenterà l'assassino del parroco, il sorriso dipinto sul suo volto al momento della morte, nonostante avesse appena ammesso di aspettarsi una simile fine. Una morte diversa, la sua. Forse perché il suo è stato un modo di agire diverso.

Innanzitutto Padre Pino ha insegnato nelle scuole, perché è lì che si può fare di più, dando mostra dell'amore in mezzo a decine, centinaia!, di ragazzi che, una volta cresciuti, sarebbero stati i cittadini di domani. Per combattere la Mafia, è necessario educare i bambini alla legalità, sottrarli all'insegnamento della paura e della remissione, far capire l'importanza della verità e della semplicità. 'Parliamoci' è quello che Don Puglisi ripeteva nelle sue omelie rivolto ai suoi tormentatori. Anche combattere l'ignoranza era di fondamentale importanza per quell'uomo. Per questo motivo ha lottato tanto anche per ottenere una scuola media a Brancaccio, dove i bambini smettevano di studiare alle elementari in modo da lasciare più spazio alla mentalità della sottomissione. 3P mi piace particolarmente perché era un uomo normale, anzi, era un piccolo uomo con delle grandi orecchie, per ascoltare molto di più degli altri. E proprio perché lui sapeva di essere solo un piccolo uomo diceva che 'Se ognuno fa qualche cosa , allora si può fare molto'. Era un uomo dinamico. Quale modo migliore di portare amore e Dio a qualcuno se non mostrandoglieli? Infatti, riferito alla lotta contro la Mafia, dichiarò anche: 'Non ci si fermi, però, ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore, attenzione, non vorrei essere frainteso. Hanno valore, ma se ci si ferma a questo livello sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti'.

Noi non facciamo abbastanza, ogni grande uomo ce lo lasciamo sfuggire così, come se nulla fosse. È per questo che mi prende la tristezza ogni tanto. Vedete, io amo la Sicilia. Tutto quello che ho sentito e respirato lì, non l'ho ancora trovato da nessuna altra parte. Proprio perché l'ho tanto a cuore, mi rattristo. È giusto, secondo voi che una terra così bella e potenzialmente ricca sia venga svenduta così? Per fortuna che ci sono ancora persone e associazioni che lavorano per combattere la Mafia, che è un cancro cresciuto su una fertile popolazione. Persone che una soluzione credono ci sia e vogliono trovarla” faccio un lungo respiro, ho le lacrime agli occhi. Un misto di tristezza e malinconia. “Perciò, per tornare alla partenza di questo discorso, chiudete gli occhi, se li avete aperti durante il racconto, e sentite il suono della risacca, della vita che scorre a volte veloce, a volte lenta su delle spiagge di sabbia fine. Lo vedete? Blu, azzurro, celeste, bianco e molte ancora sfumature racchiuse tutte nell'immensa distesa di acqua e sale. Toccatevi la pelle e sentite i residui della salsedine che dall'aria si attaccano sul vostro corpo, come una seconda pelle protettiva, che vi dona serenità e benessere. Prendetevi un'arancina di riso e addentate quella sfera di riso, zafferano, ragù e mozzarella, lasciate che le vostre papille gustative sentano in prima persona la consistenza del luogo in cui siete. Qui tutto è agrodolce. La dolcezza di una passeggiata sul mare, a due passi da piazza Marina, in cui è stato ucciso Petrosino. La libertà di fare un viaggio qui e raggiungere Palermo dall'aeroporto attraversando l'autostrada dove è stato ucciso Falcone e che ora porta il suo nome e quello di Borsellino, morto in un giorno di festa e di riposo. Sentire le urla di gioia dei bambini tanto amati e protetti da Don Puglisi. Capite ora? Tutto agrodolce, ogni cosa ha due aspetti. Però possiamo scegliere quale parte di questa mescolanza alimentare e quale no. Per farlo, però, uno le cose le deve sapere, ma non sapere in parte, sapere bene”.

Finisco il mio monologo che è sembrato durare secoli. Sabrina e Jacopo non rispondono, non hanno più parole o forse credono che sarebbero solo superflue a questo punto o magari sanno che non li ascolterei, persa come sono nei miei pensieri.

Dopo quasi dieci minuti, Sabrina si alza e fissa Jacopo, che mi tende la mano e mi dice: “Avanti Rosi, andiamo a casa” ed io mi chiedo se si riferisca alla casa in cui abito o alla casa in cui ho lasciato il mio cuore. 

  
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