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Autore: Dark Swan    03/09/2016    1 recensioni
Il rimbombo di uno sparo in un'aula vuota, un corpo fumante ancora a terra ed un biglietto. Questo è tutto ciò di cui la detective Alessandra dispone per indagare sulla morte del prof. Montecchi. L'aiuteranno nell'indagine il suo nuovo partner Manuel ed Elena, studentessa ed aspirante scrittrice, che si trovava a poche aule di distanza la mattina dell'omicidio. L'ultima corsa è molto più che un romanzo thriller, ma una splendida indagine dell'interiorità umana, l'analisi dolorosa, angosciante, malinconica ed autunnale dei sentimenti che scandiscono le nostre giornate, delle frasi che lacerano il cuore, delle storie sentimentali che possono sfociare in drammatiche inquietudini. Di quell'amore che, se negato, può diventare più freddo della morte.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L'arrivo del mese di Ottobre è considerato da molti un sollievo: il caldo scompare e fa posto all'odore della pioggia che s'intreccia a quello della pelle che può finalmente nascondersi dopo mesi passati in bella vista.
Ma a guardarlo bene in faccia, questo mese, non serve a nulla. 
Ottobre si ritrova lì, con le sue incertezze, a metà strada tra l'estate e l'inverno non sapendo da che parte andare. È un mese insignificante. Deve essere terribile nascere ad Ottobre; sposarsi ad Ottobre; morire ad Ottobre.
Alle otto di mattina Maria Rossi, una barista senza peli sulla lingua con un diploma in ragioneria, era sveglia già da trenta minuti. Strano, era solita dormire fino a tardi visto che il suo turno a volte si allungava anche fino alle quattro.
Guidò prudentemente fino al supermercato, scansandosi i pedoni che cercavano di investirla. Si mimetizzò bene tra la massa di casalinghe disperate in tuta che, correndo da uno scaffale all'altro, cercavano di accaparrarsi l'ultimo prodotto in offerta.
Notò che i limoni costavano un occhio della testa; e non riuscì a spiegarsi come qualcosa di così amaro costasse così tanto.
Il giubbotto di pelle lo lasciò slacciato, scelta stupida. Se solo fosse andata verso qualcosa. Come si fa a rimanere fermi per tutta la vita? Di ventiquattro anni si era allungata la sua e di questi quanti ne aveva vissuti? Elena fermò la moto in una strada a cui lato si ergeva uno spesso muro; ne percorse tutto il perimetro ed entrò per un cancello mezzo arrugginito. L'erba che calpestava era interrotta da lastre di marmo quadrate sopra le quali erano incisi nomi di persone ormai dimenticate; in quel labirinto di lapidi e cappelle, con cui si facevano lucrosi affari, alla ragazza non serviva il filo di una sciatta Arianna per orientarsi: conosceva la strada a memoria. Poche volte in vita sua era riuscita ad ascoltare il rumore dei suoi stivali sull'asfalto; in quel sovraumano silenzio si avvicinò ad una tomba davanti alla quale sedeva una figura di ragazza che con quei suoi capelli chiari vivacizzava il pallido scenario in cui quelle superflue controfigure si sarebbero esibite per sempre.
«Hey.»
«Hey.»
Elena prese posto accanto a lei. Le due ragazze restarono in silenzio per un po'.
«Federico mi ha detto che ieri sono venuti gli sbirri a casa.»
«No, ma che! Una Detective sta investigando sull'omicidio di un professore. E io come un'idiota mi ero iscritta la suo corso.»
Elena rivolse lo sguardo che fino a quel momento aveva fissato del cemento al profilo di Maria: quella mattina la ragazza le sembrò un cumulo di ossa simile a quelle che giacevano sotto di loro.
«Ogni volta che la guardavo», confessò all'improvviso, «Mi chiedevo sempre come mai non m'avesse ancora lasciato... lo sai, non ci ho mai creduto in realtà.»
«A cosa?»
«Al fatto che potessi essere felice.»
Elena prese un lungo respiro pensando a cosa dire.
«E adesso cosa penseresti a guardarla?», si decise a chiederle.
«Riuscirei solo a chiederle perché l'ha fatto.»
Le parole non servivano a nulla e Elena questo lo sapeva bene.
«Secondo te è colpa mia?»
Erano tre anni che Elena stava aspettando quella domanda e non aveva ancora deciso cosa rispondere.
«No», disse non essendone sicura, «Non possiamo salvare chi non vuole essere salvato.», e dicendolo se ne convinse.
Federico camminava lungo quel muro senza toccarlo.
Si sentiva attaccato da quello stesso muro, che secoli prima era stata innalzato da qualcuno per difendersi; un freddo insieme di cemento e rimpianti lo separavano dalle sue coinquiline.
Quelle due non avevo i pensieri che aveva Federico ad ingombrare loro la mente.
Fu contro il muro di un convento, gelido come il ghiaccio, che si ritrovò ad otto anni, spinto dalla cattiveria di un parroco, che gli abbassava i pantaloni con la stessa mano con cui la domenica distribuiva l'ostia ai fedeli.
La piccola Elena, di qualche mese più grande di lui, lo vedeva spesso aggirarsi con aria imbronciata per il giardino dell'orfanotrofio di Santa Maria delle Vedove dove erano rinchiusi.
Quando gli si avvicinò, con la leggerezza con la quale i bambini fanno amicizia, questo le disse subito di stare lontana dagli uomini che le facevano male; Elena non capì, allora Federico le spiegò cosa facevano i grandi ai bambini, spaventandola a morte.
Ogni pomeriggio tornava sempre a giocare con il bel bambino dai capelli scuri e dal volto triste.
E questo le raccontava cosa gli succedeva la sera prima. Poi ognuno tornava nel proprio dormitorio.
Un giorno le mostrò dei lividi sulle braccia e sui fianchi, Elena spaventata andò a riferire tutto ad una suora. Questa con un accanimento maggiore di quello che avrebbe avuto un diavolo, fece di tutto per scoprire chi fosse il responsabile di quelle violenze; ma l'omertà dei fedeli che giuravano di non aver visto nulla di strano nel comportamento dei frati che abitavano quel luogo, e che anzi si dimostravano così misericordiosi nell'accogliere bambini in fasce lasciati sulla soglia del convento, le legò le mani.
La suora non si arrese, e trovò il modo di far intrufolare Federico nel dormitorio femminile per tenerlo a sicuro. A Federico bastò qualche cioccolata calda e qualche giocattolo per capire che il mondo fosse abitato anche da persone buone e che quella donna ne facesse parte. 
La suora riuscì a nascondere il ragazzo ogni notte nella sua cella per cinque lunghi anni.
Poi tentò di spiegare a Federico come accettare serenamente l'accaduto; un'accettazione cristiana, perché la suora credeva più in Dio che in Freud, la quale avrebbe avuto come tappa finale il perdono concesso al prete.
Federico le disse di non capire cosa stesse dicendo; la suora allora fu felice di intuire che il ragazzo avesse rimosso il trauma subìto e continuò a tenerselo ogni notte fra le braccia finché il ragazzo non compì diciotto anni.
Prima di abbandonare il convento, Federico decise di recarsi nel luogo in cui mancava da dieci anni, dopo i Vespri per essere sicuro di trovare il parroco. 
Il prete, sedeva, leggendo la bibbia, quieto, chiuso nel suo scrittoio; alla vista di Elena e Federico che si tenevano per mano rispose con parole gentili, invitandoli a confessarsi, ripetendo parole d'elogio per il santo sacramento del matrimonio e di disprezzo per la peccaminosa moda della "fuitina". 
Nell'invitarli, pose la mano sulla spalla di Federico. Quella mano che l'aveva toccato con forza tante di quelle volte, e al tocco della quale, soltanto ora, dopo anni, Federico sentì tutto il dolore che gli aveva arrecato. Lasciò la mano di Elena ed afferrò quella del sacerdote, girandogli il polso. Lo sbattete contro la scrivania, colpendolo ripetutamente. Si accanì contro quelle mani chiudendole nei cassetti e negli armadietti che erano lì vicino. Poi passò alle parti intime. Non si distinguevano gli sputi dai calci. L'anziano uomo non sarebbe riuscito a contrastare l'ira di Federico nemmeno se l'avesse sentita arrivare dieci anni prima.
Il ragazzo lo guardava contorcersi per terra mentre perdeva sangue, completamente in balia delle sue di mani adesso, ma non lo sfiorò nemmeno per un secondo l'idea di fargli patire quello che aveva subìto lui. 
Elena se ne stava a guardare compiaciuta il pestaggio; non voleva e non avrebbe potuto fermare il ragazzo. Quando capì che questo non si sarebbe fermato da solo, gli si gettò addosso, conscia del fatto che se Federico non si fosse appropriato di se stesso in quel momento, si sarebbe perso per sempre.
Gli asciugò la fronte con un fazzoletto e con lo stesso le mani che gli fece lavare nel contenitore dell'acqua santa posto all'ingresso della sacrestia. Rimase con lui tutta la notte, e gli asciugò anche le lacrime con un fazzoletto diverso. Il sacerdote non riuscì ad alzarsi se non con l'aiuto di altri frati; decise di non recarsi in ospedale, né di sporgere denuncia, e ai fedeli che gli chiedevano cosa fosse successo, rispondeva che la sera prima era venuto il diavolo in persona a visitarlo.
Camminando lungo quel muro, Federico si domandò cosa ne sarebbe stato di lui se non avesse incontrato Elena.
Andò a sedersi vicino a loro con grossi occhiali scuri già poggiati sul naso.
Maria non era mai riuscita a capire come la parola ‘futuro' pronunciata da Giulia sembrasse più bella. Sorrise. Spense quel sorriso nelle lacrime quando capì che lei a Giulia non glielo aveva potuto dare un futuro. Lacrime lievi, come quella pioggia che non smetteva di cadere; costante come il ricordo di chi non c'era più.
Negli ultimi tre anni aveva scelto con cura la sequenza delle scene da visualizzare nella sua testa, si iniziava sempre dalla prima volta che l'aveva vista: erano su una spiaggia, la sabbia alleggerisce i cuori, Maria non ricordava bene cosa ci facesse lì, tutto ciò che ricordava era il sorriso di quella ragazza così strafatta da reggersi a malapena in piedi. Di Giulia a lungo vide solo il sorriso, ne toccò solo le spalle in abbracci frettolosi; desiderò per un'infinità di tempo vedere e toccare altro. Forse se la ride il destino a realizzare i nostri sogni soltanto per distruggerli. Maria realizzò il suo di desiderio in una notte perfetta, la luce era perfetta, e l'aria, e la pelle di lei nonostante tutti quei vuoti dovuti ai piercing che portava. Maria credeva che sarebbe riuscita a riempire il vuoto che Giulia aveva al posto del cuore, e che la ragazza che amava fosse in grado di mantenere le promesse che faceva quando pronunciava quella parola che in bocca a lei pareva così bella. "Non puntare più in alto dell'altezza da cui sei disposto a cadere", lesse una volta da qualche parte. Poi, una sera, ai vuoti che era abituata a vedere ed ad amare, ne vide altri, sulle braccia. Non sarebbe bastato un esercito a fermarla, e tra le urla, oggetti che volavano portandosi appresso parole singhiozzanti, Giulia le disse che era colpa sua: Maria le mancava tanto, e lei ci era caduta soltanto una volta, gliel'avevano offerta, era pulita da anni, una volta sola non significava nulla!
Maria lasciò quella camera d'albergo e Giulia dopo quasi mezzo anno trascorso a non reggere nient'altro. Avrebbe preferito essere tradita, lasciata, dimenticata; avrebbe sopportato l'idea di essersi illusa, di essere stata ingannata, ma non quella di non essere abbastanza. Drogarsi la faceva sentire meglio di quanto riuscisse a farlo lei. Non riusciva a sopportarlo; Giulia avrebbe dovuto scegliere, ma lo aveva già fatto! E Maria glielo rinfacciava ogni volta che Giulia tornava da lei. Glielo ricordava sempre di mattina, dopo una notte passata ad ispezionare ogni centimetro della sua pelle. Solo per assicurarsi che Giulia non le mentisse, sia chiaro. La mattina dopo Maria passava ad ispezionare l'interno della sua borsa e le tasche del giubbotto. Non trovava mai nulla, quindi continuò a farsi trovare nella loro camera d'albergo ogni volta che Giulia le diceva che si sarebbero potute incontrare. 
Poi, una notte che non aveva nulla di perfetto, bagnò con lacrime silenziose il cuscino sul quale non riusciva a riposare; si rese conto che quella parola che Giulia pronunciava così bene non sarebbe mai esistita per loro e decise di dirglielo. 
Si fece trovare nel solito luogo e come un romanzo che si scrive da solo, come un murale dipinto da un cieco, le disse quello che doveva dirle, senza guardarla, nemmeno per un attimo.
Trascorse la notte seguente aspettando che si facesse giorno per tornare in quella camera d'albergo e dille che si rimangiava tutto, che anche se le cose non andavano, voleva stare soltanto con lei, se ne era accorta rinunciando a lei. Come un bambino che regge un aquilone finché la mamma non gli compra un gelato, ne piange l'assenza dopo aver placato la sua fame.
Maria aspettò che si facesse giorno. Fu quello il suo errore: da quel momento non sarebbe stata altro che l'insieme del tempo che avrebbe perso.
La cosa che le mancava di più era la possibilità di poter realizzare quella parola che pronunciata da lei sembrava così bella.
   
 
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