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Autore: Arva    07/09/2016    0 recensioni
Torus, un giovane mandaloriano che "di giorno" fa l'armaiolo e il mercenario, nel tempo libero si diletta nell'esplorare asteroidi e durante una spedizione in quel del campo di Vergesso fa una scoperta che lo costringerà, molto probabilmente suo malgrado, a riallacciare legami che pensava di avere seppellito da tempo.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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La Coruscant in cui si stavano muovendo all’alba di quelle che secondo il cronometro interno dell’elmo di Torus erano due ore dopo era quasi un mondo completamente opposto rispetto a ciò che scintillava di vetro e acciaio sulla superficie.
L’illuminazione si era fatta occasionale, prevalentemente fornita dagli occasionali fuochi accesi in vecchi e maltrattati bidoni in duracciaio e da quelle matasse di cavi spezzati dentro ai quali ancora scorreva corrente in irregolari sfrigolanti archi voltaici. La gente, anche, era radicalmente cambiata: nonostante fosse qualcosa a cui era abituato da quasi un decennio di vita da mercenario in uno degli ambienti più malfamati della Galassia, quella non era più la classe proletaria di qualche decina di livelli sopra.

 

Alieni e umani insieme, vestiti di stracci, che si aggiravano fra gli edifici fatiscenti combattendo gli uni con gli altri per ogni piccola libbra di bottino che potevano trovare, qualunque cosa che permettesse loro di vedere qualche altra ora di vita prima di essere uccisi da un altro razziatore, un pilota di swoop, una gang o, se erano fortunati, un mercenario dei Cartelli, che almeno avrebbe risparmiato loro una lunga agonia per malattie o altro.
Appena vedevano lui o il padawan, spesso si ritiravano nelle ombre, spaventati dall’armatura e le armi del mandaloriano, oppure rimanevano qualche secondo a guardarli, sguardi carichi di odio, paura o risentimento che si posavano sulle spalle di Ko’Lun fino a quando l’elmo nero e rosso di Torus non si voltava verso di loro perché si dessero alla fuga.

 

Per la prima volta in anni, tuttavia, il mandaloriano non solo vedeva cose e sentiva rumori, ma percepiva: il vento dei veshok si era fatto rabbioso, iniziava a soffiare con intensità fra le fronde degli alberi del suo mondo natale facendo schioccare fra di loro i rami come le mascelle di un predatore affamato. Sentiva la paura che serpeggiava fra le rovine di acciaio e cemento, spandendo ovunque il proprio tanfo corruttore al punto che Torus quasi riusciva a sentirne il sapore: acido, viscoso e caustico. Sapeva di una morte nell’ombra, di un coltello fra le scapole, di disonore… e se ne sentiva impregnato sempre più profondamente tanto quanto scendevano nel cuore di quel covo di feccia.
Era come scendere nelle sabbie mobili fino a non poterne più uscire: il mandaloriano non aveva dimenticato quanto odiasse e disprezzasse quella sensazione.

 

Ko’Lun, dal canto suo, si aggirava quasi con fare furtivo senza allontanarsi più di un metro o due dal mercenario, trasudando paura come una cappa soffocante: Torus la percepiva tutta, sentiva la sua lotta interiore fra il bisogno di avere dei punti di riferimento per mettere insieme una strategia e lo sforzo per non sembrare un codardo agli occhi dell’armaiolo.
Avevano superato da poco un capannello di figure vestite di colori sgargianti, tatuaggi vivaci e brandelli di tessuti protettivi e placche corazzate tenuti insieme con spesse cinture di cuoio quando il mandaloriano aveva sentito un urlo strozzato provenirne dal centro, seguito da risate sghembe, corrotte dalle spezie e dall’alcol, prima che qualcuno sparasse un improvviso colpo di blaster. Poi silenzio.

 

Torus, una mano che stringeva la canna della carabina con tale forze che sentiva le nocche scricchiolare dentro i guanti, si sforzava di non intervenire, di tirare dritto e fare presto, nonostante ogni suo istinto di guerriero gli ululasse di fare qualcosa, di piombare addosso a quei criminali e disperderli col fuoco. Non tanto per qualche perverso concetto di giustizia repubblicana, né per l’avversione che un mandaloriano avrebbe dovuto provare nei confronti di chi si accaniva su bersagli che non avevano possibilità di difendersi, ma semplicemente per fare qualcosa. Per l’atto in sé.
Non aveva mai davvero desiderato uccidere così tanto, non per il piacere che ne derivava: non aveva mai trovato divertente uccidere, ma l’atto del combattere, del conflitto, dove emergeva la personalità di un guerriero.

 

No… in quel momento sentiva dentro di sé qualcosa di completamente diverso e quasi ne aveva paura: doveva spezzare qualcosa, porre fine a una vita, compiere un atto di distruzione, anche solo per togliersi dalla bocca quel retrogusto di morte e putrefazione che aggirarsi per i bassifondi gli lasciava, o quantomeno contenerlo. Non poteva nemmeno dire che fosse un desiderio, qualcosa che poteva volontariamente affermare di cercare e su cui avesse controllo.
Era un bisogno quasi primordiale, come mangiare, bere, andare in bagno o volare. In quel caso, era uccidere: sentire la vibrazione dello spezzarsi di una colonna vertebrale attutita dalla carne che la circonda, contemplare le forme degli schizzi di sangue sul visore dell’elmo, avvertire fra le mani la resistenza posta dalla massa del bersaglio quando vi affondava la lama o cercare di prevedere in che direzione sarebbe caduto un corpo a cui aveva appena carbonizzato la testa con un colpo di blaster.

 

Doveva farlo, altrimenti aveva paura sarebbe affondato in quella melma di codardia, paura, morte e disonore, dalla quale non sarebbe più uscito se non purificando col fuoco l’intero pianeta della feccia che lo abitava.
Sentiva quasi le braccia che spingevano per alzarsi, imbracciare la carabina e sparare, come se avessero sentito il suo bisogno e fossero più che entusiaste di soddisfarlo, eppure c’era qualcosa di sbagliato, di profondamente sbagliato.
Non era un comportamento da mandaloriano: sentiva con chiarezza di non essere pienamente in controllo di sé, che ci fosse qualcosa che non andava. Un guerriero, ancora di più uno della sua gente, era sempre pienamente conscio di ciò che gli succedeva intorno e in grado di frenare i propri istinti quando non erano utili al completamento dell’incarico o alla sopravvivenza del gruppo.
Non era un caso se il cedere alla rabbia del combattimento fosse visto come un segno di disonore, sia fra i Mereel delle foreste che i Dala delle montagne, di debolezza.

Carenza di disciplina e, quindi, di forza di volontà.

 

Eppure, la tentazione e il bisogno erano così forti… intensi al punto che riusciva con difficoltà a pensare ad altro, a forzarsi di andare avanti, ignorare la scena e la necessità di far scorrere il sangue a fiumi che continuava a crescere dentro di lui.
Vide Ko’Lun voltarsi verso di lui, lo sguardo che gradualmente passava dal preoccupato all’allarmata mano a mano che scendevano nei meandri del cuore marcio e corrotto di Coruscant, apparentemente senza meta anche se Torus teneva sotto costante guardia la loro destinazione, le fondamenta del Tempio Jedi rimaste dall’epoca del Sacco. Purtroppo, doveva prendere una strada lunga: i bassifondi della capitale repubblicana non erano nemmeno lontanamente ordinati come la superficie.

 

Ne era contento, quasi… se da un lato significava spendere più tempo là sotto, almeno aveva modo di sfogarsi nella marcia.

 

§ ° §

 

Nonostante fosse sembrato al giovane Jedi che avessero perso la strada più volte, vedeva Torus puntare verso una direzione sempre precisa con decisione che a volte rasentava quasi la falsità.
Lo sentiva profondamente in tumulto, come se qualcosa di estraneo si stesse gradualmente insinuando nel suo spirito, la sua presenza nella Forza talmente dolorosa per chi gli stava intorno che aveva dovuto allontanarsi di qualche metro per non provare malessere diffuso in tutto il corpo, quasi fosse dolore vero e proprio.
Poteva quasi vedere il Lato Oscuro volare in cerchi intorno al suo nuovo collega, ogni giro sempre più vicino, accompagnato dal tanfo della carne in decomposizione e della rabbia impotente.

 

In un primo momento, quando arrivava quasi a lambirne la figura con le sue ombre corruttrici, si fermava come bloccato da qualcosa, forse dal vuoto che aveva percepito dentro di lui da quando si erano conosciuti qualche ora prima, e si ritraeva.
Da quando avevano passato il quaranteseiesimo livello sotto la superficie, tuttavia, le cose erano cambiate: nel corso delle ore, ko’Lun sentiva quello stesso vuoto di prima gradualmente riempirsi, la presenza del Lato Oscuro che con la lenta costanza della sabbia filtrava fra le crepe nell’inesistente corazza della sua fede nella Forza per annidarsi nel suo spirito.
Eppure, nonostante gli fosse sempre stato raccontato degli effetti nefasti che l’essere esposti al Lato Oscuro potesse avere su un individuo sensibile alla Forza, ciò che sorprendeva il Togruta era che non stesse reagendo nei modi che aveva imparato a cercare come sintomi.

 

Si limitava a ribollire nel proprio brodo, per così dire, accumulando tensione, rabbia che continuava a scoppiettare sorda dentro di lui sebbene non andasse oltre: nonostante avesse ricevuto alcune lezioni specificamente per quell’incarico, perché i Maestri che lo avevano scelto avevano intuito che la relazione con la Forza di Torus sarebbe stata particolare dati i suoi trascorsi, era confuso.
Era come se agisse da spugna per l’incubo che era quel posto, come se la sua presenza attirasse il Lato Oscuro e la disperazione che trasudavano da ogni superfici: era l’unica idea che gli veniva in grado di spiegare come mai fino a quel momento non avesse avuto quasi problemi a muoversi fra quelle sale se non l’inquietudine dovuta a un potenziale scatto del mandaloriano.

 

Quella era la sua unica preoccupazione: se Torus avesse iniziato a risentire degli effetti dell’esposizione così prolungata, non aveva letteralmente alcuna idea di cosa avrebbe potuto fare per salvarsi e continuare il proprio incarico, o almeno farcela fino al Tempio per chiamare rinforzi.
Era laggiù con lui, da solo.

 

§ ° §

 

Più si avvicinavano al loro obiettivo, oramai quasi dodici chilometri sotto la superficie dei grattacieli di Coruscant, più Torus trovava difficile mettere insieme la concentrazione necessaria a tenere sotto controllo l’interfaccia dell’elmo con le indicazioni, le letture dei sensori e, soprattutto, le indicazioni di eventuali minacce: era abbastanza conscio da capire quanto fosse importante che il nucleo dell’armatura continuasse a funzionare, perché senza di quello non sarebbe mai riuscito ad arrivare all’obiettivo in tempo e la loro missione sarebbe stata estremamente breve.
Sentiva sempre più forte il bisogno di sangue, al punto che anche Ko’Lun doveva essersene accorto perché si teneva a debita distanza, tanto intenso che ogni passo gli costava sempre più fatica per non perdere completamente il controllo al minimo segno di attività ambientale. Anche banalmente un cumulo di detriti che cadeva da qualche livello più in alto era sufficiente a fargli levare la carabina, sorprendendosi a sperare con tutto il cuore che qualcosa li attaccasse per potere finalmente saziare la propria sete.

 

Sentiva di non essere sé stesso, che qualcos’altro si fosse impossessato di sempre più funzioni non solo del suo corpo, ma anche del suo spirito: era come guardarsi da un’ipotetica terza persona perdere gradualmente il controllo per degenerare in quella che la sua a malapena conscia voce mandaloriana disprezzava con tutta la poca voce che le era rimasta.
E, nonostante quell’ultimo baluardo di resistenza interiore venisse via via eroso dal vento venefico del disonore che aleggiava in quel posto, Torus sentiva una seconda fonte di rabbia salire; non da fuori, ma da dentro.
 

Rabbia per non essere abbastanza forte da opporsi, vergogna per avere permesso a sé stesso di coprirsi così di disonore: cosa avrebbe raccontato a Torque, se fosse tornato da lei? Che non era riuscito a controllarsi e aveva compiuto un massacro senza nemmeno riuscire a fermarsi?
Sarebbe stata nel giusto se lo avesse abbattuto come un mastino rabbioso: Mandalore non aveva spazio per guerrieri così deboli.

 

“E voi dove credete di andare, ragazzoni, eh?”

 

Dal nulla, o almeno così gli era parso, l’ombra del vicolo davanti a loro aveva fatto spuntare dei blaster. Ritornando a sé, il mandaloriano riconosceva i profili evidenziati dai sensori dell’elmo di quattro pistole in pessime condizioni, forse a malapena in grado di sparare qualche proiettile prima che la cella esplodesse in mano all’utilizzatore o la camera di innesco si demagnetizzasse producendo uno sparo non coerente e rendendo l’intera arma completamente inutile. Le mani erano quelle di altrettanti individui vestiti di stracci e tatuati coi sigilli e i simboli di gang di predoni che non riconosceva.
Vedeva un umano pallido come la morte ma gonfio di muscoli e dotato di una mascella da fare paura a uno Wookiee, due rodiani smilzi e bluastri e una femmina twi’lek dello stesso colore del sangue arterioso vestita con quello che pareva un completo da ballerina sotto qualche piastra corazzata piena di ammaccature da proiettile.

 

Pessima scelta di equipaggiamento…

 

Dietro di loro, invece, una barricata alta quasi quattro metri e ricavata da scarti di ogni sorta, da rottami di cemento a piastre scartate di duraplast, filo spinato e piastre motrici di speeders, da cui spuntava la canna minacciosa di un fucile blaster nelle mani di uno zabrak nero come la pece, privo di tatuaggi.
Il proprietario della voce, dedusse per Torus l’armatura.

 

La risposta del mandaloriano, quando giunse, era ringhio che non ammetteva repliche: nel momento in cui si sentì emetterlo, sapeva cosa sarebbe successo… e ciò che era rimasto della sua coscienza stava cercando con tutte le proprie forze di riguadagnare un minimo di controllo per non essere spazzato definitivamente via.

 

“Non rispondo a iridoniani così incapaci da non avere tatuaggi in età adulta.”

 

Voltò l’elmo nero e rosso verso Ko’Lun, grato alla propria abilità di fabbro che non potesse vedere la sua faccia dietro il visore a forma di ‘T’: nemmeno lui voleva sapere in che condizioni fosse.

 

“Spero tu non soffra di stomaco, ragazzino…”


Prima che il padawan potesse reagire, Torus si vide premere un tasto sull’avambraccio meccanico e un lampo azzurro partì dagli scarichi del gravpack, accompagnato dalla familiare sensazione di stretta allo stomaco dovuta alla variazione di gee del decollo.
Con un ultimo, probabilmente titanico sforzo di volontà riuscì ad ancorarsi a quel minuscolo momento in cui aveva sentito il proprio ventre rimescolarsi per il cambio nella normale spinta gravitazionale dato dalla propulsione, aggrappandosi a quanto la adorasse e che posto avesse il volo nella sua vita.
Probabilmente sarebbe caduto comunque, ma almeno il disonore e la vergogna non lo avrebbero preso senza prima doverselo sudare.
   
 
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