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Autore: ChiiCat92    09/09/2016    0 recensioni
"Hojo sembrò pensarci, ma era ovvio sul suo volto rattrappito che l'idea lo solleticava.
Creare un essere vivente in laboratorio usando come principio generatore l'energia Mako era di per sé già un successo, che poi quell'essere vivente crescesse, mentalmente e fisicamente, come un essere umano era quasi un miracolo, ma crearne più di uno, studiarne i comportamenti, lo sviluppo neurologico mettendoli insieme, poteva fargli raggiungere vette fin adesso inesplorate.
Non appena si fosse stufato di giocare con le sue piccole cavie e ottenuto i dati che gli servivano davvero, avrebbe potuto ucciderle e ricominciare da capo."
Genere: Angst, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Kadaj, Loz, Lucrecia Crescent, Yazoo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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27/03/2016

 

Figlio della Singolarità

 

In quel buio, freddo, silenzioso Nulla, era consapevole di piccole cose, cose che, alla luce del giorno, sarebbero apparse superflue, vuote, prive di significato, ma che adesso per lui erano il Tutto.

Il lento fluire del sangue nelle orecchie – un fruscio continuo che era una lunga e tenuta nota di fondo –, il battere ritmico del cuore – un tamburo lento ma costante –, l'espandersi e il contrarsi dei polmoni e il conseguente afflusso e deflusso d'aria attraverso il naso – un sibilare sottile e quasi impercettibile, – e nient'altro: piccoli segnali dell'essere vivo. Ancora vivo. Di nuovo vivo.

Il pensiero cosciente del voler essere morto lo sfiorava a tratti, lentamente, accarezzandolo come una mano calda e confortante.

E se tutto finisse adesso? Tra un'ora? Stasera? Domani?La morte era un conforto così sottile da non poterlo comprendere e neanche esprimere a parole. Forse dipendeva dal fatto che la sua mente era ancora troppo immatura per poterlo fare.

Il suo era un atavico bisogno di sottrarsi al dolore, e c'erano solo due modi per farlo: dormire o morire, e a volte il sonno tardava ad arrivare.

Per il momento tutti i minuscoli suoni del suo corpo vivo gli ricordavano che non era morto, ma che non riusciva neanche a dormire.

Questo poteva voler dire solo una cosa: stavano arrivando.

Lentamente, ma costantemente, il cuore prese a battere con più forza, il respiro si fece più grosso, il sangue nelle orecchie turbinò fino a diventare un doloroso pulsare.

Stavano arrivando, e non poteva fare niente per impedirlo.

Nel silenzio della sua buia esistenza si affacciò una cacofonia di rumori che spensero il tenue concerto di suoni del suo corpo vivo.

Rumore di passi in avvicinamento, voci scomposte e profonde che appartenevano ad esseri senza volto, e il ruggito meccanico di grossi animali di metallo che si risvegliavano dal sonno notturno.

Le braccia erano intorpidite dopo una lunga notte passata a tenersi le gambine strette al petto, ma fecero un ultimo sforzo per aiutarlo a trascinarsi più lontano possibile dal punto da cui Loro sarebbero arrivati, dove due delle quattro pareti che costituivano il suo mondo si giungevano per formare un angolo contro cui fece aderire il suo corpicino magro.

La luce precedeva sempre il Loro arrivo. Non era come la luce che a volte gli capitava di vedere nei filmati che gli facevano guardare, o nei disegni dei libri che leggeva, quella luce calda, che rendeva i contorni degli oggetti morbidi eppure definiti: la luce del Sole. No, quella che si accese sulla sua testolina era una luce fredda, bianca, tagliente e dolorosa a cui i suoi occhi, dopo tutto quel buio, si abituarono a fatica. Proveniva da due lunghe serie di tubi fissate al soffitto che ronzavano come fossero brulicanti di insetti.

Sentì un vago mugolio sfuggire dalle sue stesse labbra mentre si schiacciava contro la parete. Se avesse potuto scomparire, se avesse potuto diventare parte di quel muro...l'avrebbe fatto, ma non c'era luogo in cui poteva nascondersi o dove poteva scappare.

I passi si fecero più pressanti, più vicini. Erano Loro.

Il mugolio crebbe e superò la sua volontà di non emettere un fiato, le braccia dolevano sempre più nel tentativo di farlo apparire più piccolo e insignificante possibile. Ma Loro l'avrebbero visto comunque, come sempre.

Il clack della porta che si sbloccava e il suo sommesso cigolio gli provocò un brivido gelido che lo percorse da capo a piedi facendogli rizzare tutti i peli del corpo.

Non sono qui, non sono qui, non sono qui” continuava a dirsi nella vaga, infantile speranza che ripetersi di essere invisibile lo rendesse davvero invisibile.

Ma non succedeva, non succedeva mai.

I mugolii aumentarono, trasformandosi in un basso, continuo lamento che pure risultava ovattato stretto com'era in se stesso.

« È sveglio? »

« Sì, l'abbiamo monitorato tutta la notte. »

« Che dose gli avete somministrato? »

« Mako al 65%. »

« Effetti indesiderati? »

« A parte l'insonnia fin ora nessun altro effetto riscontrato. »

« Bene. »

Quelle voci giungevano alle sue orecchie roboanti e confuse, un'accozzaglia di parole che riusciva a stento a comprendere.

Dose?

Somministrato?

Mako?

Si strinse solo di più in se stesso e qualcosa di doloroso si mosse sul fondo del suo stomaco. Succedeva sempre quando li sentiva avvicinarsi.

Non osò alzare la testa, non voleva sapere quanto erano vicini – benché lo sentisse – voleva rimanere in quel limbo sicuro, totalmente preso nel cercare di concentrarsi sui suoni familiari del suo corpo vivo, l'unica cosa a cui poteva aggrapparsi.

Poi si sentì tirare e il dolore accese i suoi sensi. Gli afferrarono il braccino esile, aggiungendo sulla pelle candida lividi su lividi, costringendolo ad alzarsi in piedi.

Non provò neanche a ribellarsi – aveva un segno rosso e ancora pulsante di dolore sulla schiena in ricordo dell'ultima volta che aveva tentato di farlo – e si lasciò trascinare di peso. Come sempre.

I suoi occhi spaventati sopportarono il cambio di illuminazione ma lacrimarono, e non poté neanche portarsi una manina a scacciare l'umido dalle ciglia: non osava muovere un muscolo in più per paura di essere punito.

Fuori dalle quattro pareti del suo mondo c'erano lunghi corridoi freddi, dalle pareti candide, che puzzavano. Non avrebbe saputo definire l'origine del fastidio che gli pungeva il naso, né avrebbe saputo dare un nome all'odore che tanto lo disturbava, ma ogni volta era costretto ad una smorfia.

L'unica cosa che sapeva era che sui corridoi si affacciavano diverse porte, ma che loro lo stavano portando alla Stanza del Labirinto.

Funzionava così: ogni mattina lo andavano a prendere, lo costringevano ad alzarsi, a camminare, e lo portavano nella Stanza del Labirinto; se voleva mangiare – e di solito voleva – doveva riuscire a trovare l'uscita del Labirinto, altrimenti avrebbe digiunato fino al tentativo successivo.

Il dolore sul fondo dello stomaco aumentò d'intensità quando lo spinsero nella stanza e la porta si chiuse alle sue spalle.

Costretto alla posizione eretta – così diversa da quella curva e accucciata che preferiva quando lo lasciavano solo la notte – non raggiungeva il metro e dieci di altezza che ci si sarebbe potuto aspettare da un bambino di cinque anni – era quasi troppo se arrivava ad uno e cinque – e il fatto che fosse così magrolino ed esile non aiutava ad allontanare quell'istintiva, umana reazione di pietà e tenerezza quando si appoggiava lo sguardo su di lui. Ma ci si convinceva in fretta a tornare ad un freddo, scientifico approccio quando lo si guardava davvero.

Forse era la zazzera di capelli argentei – che brillavano anche sotto il freddo del neon – che gli ricadevano scompostamente sul visino pallido e scarno, nascondendogliene sempre metà, o forse erano gli occhi a rendere duramente consapevoli di cosa si aveva davanti.

Grandi e sgranati i suoni occhi alla penombra avrebbero potuto trarre in inganno, perché erano gli occhi spaventati di un bambino solo. Ma alla luce si mostravano per quello che erano: le iridi erano di un verde tanto acceso da sembrare vivo e cangiante, con scaglie d'oro e di smeraldo che si agitavano sul fondo, mentre le pupille erano sottili, verticali, come quelle di un felino.

Se non avesse avuto quella costante lucentezza dovuta alle lacrime e quello sguardo spaurito di chi non capisce cosa gli succede intorno, avrebbe potuto incutere paura, nonostante le minuscole dimensioni.

A Loro bastava quella vista per togliersi ogni scrupolo nei suoi confronti, anche se lui non poteva averne idea.

Quel che sapeva si limitava a ciò che si stava innalzando lentamente dal pavimento: pareti alte e corridoi che finivano in vicoli ciechi, il Labirinto che, da qualche parte, nascondeva la misera porzione di cibo che tanto desiderava.

« K232J. » la voce veniva dall'alto e il piccolo alzò la testolina, come sempre, nella speranza di poter capire a chi apparteneva. Ma a parte il soffitto e le luci al neon non c'era altro. Era una magia che lo affascinava. Chissà come facevano a parlare in quel modo. « Alla fine del labirinto troverai del cibo, hai 30 secondi a partire da adesso. »

Lo sapeva, era così tutti i giorni, e lo era da quando...da quando riusciva a ricordare a dire il vero. Non c'era mai stato nient'altro per lui.

Bip bip bip bip bip.

Cinque volte bip, voleva dire che erano rimasti venticinque bip prima che lo lasciassero senza cibo. Era il caso di muoversi.

Trotterellando instabile sulle magre gambette cominciò a percorrere quei corridoi tutti uguali. Svoltò a sinistra e si ritrovò bloccato da una parete. Con un piccolo sbuffo tornò sui suoi passi cercando un'altra strada ma...incappò di nuovo in un vicolo cieco. Allora forse aveva sbagliato più indietro? Provò a voltarsi ma una nuova parete gli sbarrava il cammino.

Fu allora che cominciò a intuire come sarebbero andate le cose.

Non c'era via d'uscita da quel labirinto, e non c'era cibo ad aspettarlo. Gli avevano detto una bugia!

Sentì il respiro farsi più grosso man mano che procedeva, o tentava di procedere, mentre cercava di capire come uscirne.

I bip proseguivano, e gli era rimasto davvero poco tempo. Solo altri tre bip.

Un piagnucolio gli uscì dalle labbra e allora si lasciò cadere a terra, si strinse le gambine al petto e...aspettò l'inevitabile.

Un bip più acuto annunciò che il tempo era scaduto e lui sentì una fitta allo stomaco.

Per un lungo istante non sentì alcun rumore, né voci che annunciavano il suo fallimento, e quasi pensò che forse, forse, per una volta non sarebbe successo niente, tanto che azzardò ad alzare la testa per sbirciare cosa stesse succedendo nella stanza.

Riuscì a muoversi di qualche centimetro prima di essere attraversato da una scossa elettrica ad alto voltaggio, che partiva dal congegno rotondo e metallico impiantato sulla sua nuca. Non un gemito lasciò le sue piccole labbra screpolate mentre il corpicino si contorceva sul pavimento.

Per la prima volta – ma non per l'ultima quel giorno – desiderò morire, desiderò che quello fosse l'ultimo dolore della sua breve ma interminabile vita. Desiderò che tutto finisse.

E mentre il buio lentamente lo accoglieva come un abbraccio caldo, avvertì netto ma distante il suo cuore che si ostinava a battere.

 

Tornò cosciente ma non riaprì gli occhi. Prima aveva bisogno di sapere se riceveva ancora tutti i piccoli segnali del suo corpo.

Fluire del sangue, battito del cuore, aria dentro e fuori: era ancora vivo.

Quindi, lentamente, lasciò che la sua mente gli comunicasse la posizione di braccia e gambe, della testa, del torso. Il pavimento era gelido sotto le spalle fasciate dal sottile camice di cotone.

C'era tutto, e funzionava tutto. Purtroppo.

A quel punto non gli rimase che riaprire gli occhi.

Qualcosa di orribile e doloroso gli martellava la testa rendendogliela pesante, faceva male abbastanza da costringerlo a prendersela tra le mani nel tentativo di lenire il dolore. Niente, non funzionava.

Anche lo stomaco aveva di che ridire, gorgogliando proteste che non riusciva mai a placare davvero.

Si mise su a sedere piano piano, una manina alla testa come per reggersela, un'altra sul viso a tentare di scollare gli occhi incrostati di lacrime. Doveva aver pianto, ma non riusciva a ricordarlo.

« K232J. »

Fu difficile questa volta alzare la testa verso il soffitto, perché pesava, pesava tanto.

Gli avevano insegnato a riconoscere quella serie di numeri e lettere a suon di elettroshock. Ad un certo punto aveva capito di dover mostrare attenzione e voltarsi nella direzione da cui proveniva il suono. Anche se non riusciva bene a capire che cosa volesse dire.

« Alla fine del labirinto troverai del cibo, questa volta hai 20 secondi. » con gli occhi ancora offuscati – dalla stanchezza, dalla fame, dal dolore – riuscì a vedere il piedistallo su cui era stata poggiata una ciotola, lì, proprio dall'altra parte della stanza. Allora non gli avevano mentito, c'era davvero del cibo per lui, doveva solo capire come raggiungerlo. Poi dal pavimento emersero le pareti del Labirinto, e lui la perse di vista. « A partire da adesso. »

Bip, bip, bip, bip, bip

Si rialzò a fatica, gli arti che gli tremavano per lo sforzo di reggerlo in piedi, sebbene il suo peso esiguo lo classificava già a prima vista come denutrito.

Riusciva a vedere soltanto quella ciotola sul piedistallo e nient'altro.

Bip, bip, bip, bip, bip

Prima, si disse, non potevo tornare indietro, e per qualche ragione aver fatto quel pensiero era un traguardo importante. Anche se aveva poco tempo, non poteva permettersi di imboccare il corridoio sbagliato, perché non gli avrebbero dato la possibilità di ripercorrere i suoi passi.

Bip, bip, bip, bip, bip

Prima era andato a sinistra, stavolta andò a destra. Per scegliere il successivo corridoio rimase qualche istante immobile al bivio, e poi scelse di nuovo di andare a destra. Il cuore non smise un attimo di battergli il gola, tanto forte da essere quasi soffocante.

Bip, bip, bip, bip

Mise un piedino fuori dal Labirinto.

Bip

Riuscì a tirare un sospiro di sollievo: ce l'aveva fatta appena in tempo, con un solo bip rimasto!

Prima di avvicinarsi alla ciotola, però, rimase ancora in attesa. Non solo aspettava che il cuore placasse la sua corsa e gli permettesse di tornare a respirare, ma anche un qualche segnale da Loro.

Se aveva imparato qualcosa era che di Loro non poteva fidarsi del tutto, mai, per nessuna ragione.

Il cuore si calmò, e nessuna voce dall'alto parlò perché facesse diversamente, quindi a piccoli passetti si avvicinò alla ciotola. Non poté non guardarsi intorno, preoccupato, mentre la sollevava dal piedistallo e la stringeva al petto con fare protettivo. In allerta, tutti i muscoli che gli dolevano per lo sforzo di rimanere così tesi. Allora si azzardò ad abbassare lo sguardo sul contenuto. Non era altro che una poltiglia collosa dal forte odore di amido, ma lui riuscì a sentire l'acquolina in bocca.

Nonostante si sentisse tutto scricchiolare dal desiderio di mangiare tutto, subito e in fretta, riuscì a trattenersi e infilò solo una manina nella ciotola, prendendo una piccola quantità della poltiglia tra le dita e portandola prima al naso – come per identificare un qualche odore sospetto – e poi alle labbra – per tastarne la consistenza prima di mandarla giù –. Sembrava tutto buono come sempre e si concesse di mangiare, dando ad ogni boccone la giusta importanza. Non sapeva quando avrebbe mangiato ancora, o meglio, sarebbe passato molto tempo prima che gli concedessero di mangiare ancora.

Visto che la ciotola era tanto più grande di lui, e visto che niente sembrava succedere o suscitare il Loro interesse, si sedette a terra per stare più comodo, senza smettere di mangiare...né di guardarsi intorno.

Quando finì fu contento di constatare che lo stomaco si era placato e adesso il suo gorgogliare era diventato qualcosa che poteva ignorare – quanto meno fino al prossimo pasto –. Si pulì le manine addosso come poté e poggiò la ciotola sul piedistallo lì dove l'aveva trovata, senza sapere se stesse facendo bene o male.

All'improvviso il suono di una porta che scivolava sui suoi cardini lo fece sobbalzare. Si volse e quasi si stupì. Ricordava vagamente dove conduceva quella porta perché l'aveva varcata poche volte negli ultimi tempi, e il dolore aveva cancellato tutto velocemente. Ma adesso...adesso che gli tornava in mente non poté fare a meno di chiedersi perché.

Alzò di nuovo la testa verso il soffitto, aspettandosi di vedere chissà cosa e trovando il solito niente.

Non avendo un altro posto dove andare si mosse verso la porta aperta.

Non appena la superò la sentì chiudersi alle spalle ma non si permise di avere alcuna reazione, concentrato com'era su quello che aveva davanti.

Avrebbe potuto definirsi contento, o felice addirittura, se solo avesse conosciuto il significato delle parole “contento” e “felice”. In ogni caso la sensazione che gli inondò il petto aveva qualcosa che si avvicinava all'uno e all'altro concetto.

La stanza aveva il pavimento morbido – non avrebbe saputo definirlo diversamente – sotto i piedini nudi, tanto che non poté fare a meno di tastarla muovendo le dita. Era tutto molto più colorato di quanto ricordasse, e anche se non aveva nomi per i colori, né qualcosa con cui paragonarli, sapeva che gli piacevano e che lo facevano sentire...bene.

Sparsi in giro per la stanza riconobbe i giocattoli con cui aveva giocato l'ultima volta. C'erano le costruzioni, c'erano le macchinine a cui poteva dare la carica per farle correre in tutta la stanza, e c'erano gli animali di stoffa con gli occhi lucidi ma dolci che lui poteva abbracciare.

E c'erano, soprattutto, i pastelli colorati con cui poteva scrivere sui fogli di carta.

Battendo le mani, eccitato, raccolse da terra quanti più giocattoli possibili e li avvicinò al banchetto su cui erano poggiati i pastelli e i fogli.

I suoi ultimi disegni non c'erano, e non se ne stupiva. Sapeva che Loro lo stavano guardando, al di là del lungo specchio che occupava tutta una parete della stanza, e che tutto ciò che avrebbe fatto con i giocattoli o disegnato con i pastelli, sarebbe stato soggetto di studio.

Però non gli importava.

Confortato dalla presenza di quelli che considerava i suoi giocattoli, cominciò a disegnare il suo soggetto preferito.

La Stanza dei Giochi oltre ad essere quella che gli lasciavano frequentare più di rado era anche l'unica ad avere uno specchio. Anche se era finto e dietro di esso si nascondevano Loro, in quella stanza lui era diventato consapevole di come lo vedevano gli altri.

La prima volta, lo ricordava, era rimasto piuttosto stupito. Si era convinto di non essere tanto diverso da Loro, e anche se non si era chiesto spesso come dovesse apparire, a lui bastava quella convinzione.

Invece lo specchio gli aveva mostrato tutta un'altra realtà: lui a Loro non ci assomigliava per niente. In qualche modo la cosa l'aveva fatto sentire meglio – perché, insomma, avrebbe mai dovuto voler assomigliare a Loro?però l'aveva riempito di domande a cui nessuno sembrava intenzionato a rispondere.

Tanto per cominciare, perché i suoi capelli erano così? Perché i suoi occhi erano così? Perché lui era così?

Era tanto incuriosito da se stesso che aveva cominciato a disegnarsi. Certo, non erano ritratti perfetti e, volgendo lo sguardo verso lo specchio e poi di nuovo al foglio, si rendeva conto di non riuscire mai a disegnare quello che vedeva, ma gli piaceva poterlo fare.

Così, anche adesso, cominciò a disegnare se stesso, sbirciando la sua immagine riflessa nello specchio di tanto in tanto. Però stavolta aggiunse anche Loro. Non tutti Loro, ma uno di Loro, quello che ricordava di aver visto più spesso. Per qualche ragione non desiderava altro che aggiungerlo al suo disegno.

Nella sua mente lo ricordava bene, abbastanza bene da sentirsi frustrato all'idea di non riuscire ad imprimerlo sulla carta come avrebbe voluto.

Era alto – altissimo dal suo punto di vista – e aveva capelli scuri lunghi che teneva sempre legati, e occhi scuri, piccoli, cattivi, che si nascondevano dietro dei vetri che teneva sul naso e che tirava su spesso con un dito perché continuavano a scivolargli, e tante pieghe sul viso che lo facevano sembrare sempre accigliato, o preoccupato, o arrabbiato – niente di positivo in ogni caso –.

Tra Loro era quello per cui maggiormente sentiva un profondo senso di repulsione istintiva. Se lo vedeva avvicinarsi a lui nel tentativo di toccarlo, non esitava a soffiargli contro o a cercare di colpirlo, e anche l'elettroshock conseguente non riusciva a farlo demordere.

Diede un'altra occhiata allo specchio, cercando la propria immagine, e non poté fare a meno di chiedersi se dall'altra parte Lui tra Loro lo stesse osservando. Per questo tornò al suo disegno, premendo sulla carta il pastello scuro tanto da rischiare di romperne la punta.

Quando ebbe finito si rese conto di aver disegnato qualcosa di sbagliato. Al centro del foglio aveva disegnato sé stesso, in piedi, dritto, alto, enorme e sotto, come riverso sul pavimento, Lui. Sapeva come sapeva tante altre cose che Lui era morto e che non avrebbe dovuto disegnarlo in quel modo. Ma prima che potesse fare qualsiasi cosa il corpo si tese in un doloroso spasimo mentre la scossa elettrica lo faceva crollare a terra.

Un gemito di dolore simile ad un uggiolio gli sfuggì dalle labbra. Registrò solo parzialmente la visione dello specchio che diventava traslucido e gli permetteva, per un attimo, di vedere Loro dall'altra parte. C'era anche Lui. Lo guardava...compiaciuto?

La coscienza lo abbandonò prima che potesse capirlo.

 

Tornare in sé questa volta fu più difficile, tanto che quasi si chiese perché dovesse farlo. Arrivato allo stremo delle sue forze, quello che desiderava era solo rimanere nel limbo scuro dell'incoscienza per sempre. Ma sapeva che non era facile morire, non volontariamente almeno, e Loro non l'avrebbero lasciato andare neanche ora che era al limite.

A stuzzicare la sua coscienza tanto da costringerlo ad aprire gli occhi fu il calore. Nonostante sapesse di essere riverso sul pavimento sentiva caldo, ma non un caldo normale come quello che cercava quando si rifugiava nella sua sdrucita coperta, ma un caldo asfissiante, soffocante, che lo ricoprì quasi immediatamente di sudore.

Pian piano capì che il calore proveniva dal pavimento e che...stava aumentando sempre di più. Avrebbe voluto poter saltare in piedi e correre via, ma riuscì solo a sollevarsi lentamente, pesantemente, come se il suo corpo si fosse irrigidito mentre era privo di sensi.

Che male, che dolore.

I capelli argentei erano appiccicati sulla fronte e sul collo e in modo distratto si portò una manina sul viso per scostarli, inutilmente.

Si guardò intorno non appena gli occhi tornarono in grado di vedere e constatò con dispiacere di non essere più nella Stanza dei Giochi.

Chissà se sarebbe servito dire a Lui che era dispiaciuto per quello che aveva fatto, per averlo ritratto morto nel suo disegno. Quel pensiero affiorò leggero nella sua mente e il suo visino si contrasse in una smorfia.

Ma non ebbe tempo di pensarci: il pavimento cominciava a scottare.

Sotto i piedi nudi bruciava, tanto che dovette saltellare da uno all'altro continuamente, ma era ancora sopportabile. A preoccuparlo era l'aria sempre più pesante, sempre più calda, sempre più densa che lo circondava. Prese a respirare più profondamente, cercando di estrarre da quell'aria rovente l'ossigeno di cui aveva bisogno.

I vestiti erano ormai zuppi di sudore e prudevano sulla pelle sensibile già arrossata dal calore.

Si guardò intorno, disperato. Quattro pareti, nessuna porta, nessuna finestra: era la Stanza del Dolore.

Lo stomaco si strinse tanto forte che per un attimo temette di vomitare quello che aveva appena mangiato.

Ma doveva pensare, con calma, come con il Labirinto. Doveva esserci una soluzione, no?

Con tutto quel caldo non riusciva a riflettere, non voleva neanche farlo.

Il calore aumentava, aumentava, i piedi gli facevano male. Prese a saltellare di più, un mugolio sulle labbra.

Corse verso una delle pareti e provò a tastarle con le manine sempre più tremanti, ma non appena appoggiò i palmi dovette ritrarli con un urlo: bruciava.

L'aria si era fatta pesante, troppo pesante, ogni respiro gli ustionava il naso, la gola e i polmoni. Avrebbe voluto potersi accucciare in un angolo e aspettare che finisse, ma il pavimento bruciava tanto quanto le pareti e non osava neanche provarci, nonostante le ginocchia cominciassero a cedere e la testa a girare.

Fu strano pensare a se stesso come a qualcosa che cucinava lentamente in un forno. Non sapeva cosa fosse un forno perché non ne aveva visto nessuno nella sua breve vita, né aveva la concezione di “cucinare”. Eppure non riusciva a smettere di pensarlo.

La pelle normalmente candida si era arrossata, sulle braccia cominciavano ad affiorare piccole bolle trasparenti. Affascinato, il piccolo osservò quella nuova reazione e si chiese se fosse qualcosa che poteva farlo morire.

Ma poi cambiò. Fu impercettibile e graduale, ma lo sentì sulla pelle: l'aria stava diventando più fresca, abbastanza da fargli prendere a respirare più profondamente, a grandi boccate.

Aria! Aria!

Sentì il pavimento di nuovo fresco abbastanza da potersi sedere, e si lasciò praticamente cadere a terra. Le piante dei piedi erano arrossate e coperte di bolle, come quelle sulle braccia, solo più grandi ed evidenti. Ne toccò una con un ditino e quasi gettò un urlo per il dolore.

No, no, meglio lasciarle stare.

Distese le gambine, come a voler allontanare il dolore e poi un brivido gli scosse il corpicino.

Non faceva un po' troppo freddo adesso?

Si strinse le braccia al petto, frizionandole piano per scaldarsi più che poteva senza toccare le bolle.

Ad ogni respiro che faceva una nuvoletta scappava dalle sue labbra. Trovando la cosa divertente, soffiò, e subito una seconda nuvoletta si condensò nell'aria. Provò e riprovò, cercando di creare nuove forme ma...poi i tremori che lo scuotevano gli resero impossibile continuare a farlo.

Si accorse di stare battendo i denti e che la pelle era accapponata, i peli rizzati. Non sentiva più dolore...non sentiva più nulla in realtà.

Le manine erano diventate rigide, così come i piedi, e le labbra erano insensibili.

Lo trovò persino peggio del caldo, ma presto smise di pensare a qualsiasi cosa. Tutta la sua attenzione era concentrata sul continuare a respirare, un piccolo singhiozzo gelato alla volta. Per quanto gli fu possibile strinse le gambe al petto nel tentativo di catturare il calore rimastogli e si sdraiò completamente sul pavimento.

Non fu esattamente sicuro di quello che successe subito dopo, perché gli occhi socchiusi non riuscivano a mettere bene a fuoco quello che aveva intorno.

Sentì dei passi in avvicinamento – anche se rimasero comunque lontanissimi – e qualcosa di simile ad un caldo respiro che gli soffiava sul viso.

« Quantità di Mako nel sangue? »

« 40% »

« Picchi di resistenza? »

« Superiori alla media. »

In quella confusione di voci provò a muovere la testa per capire chi stesse parlando ma...non riuscì a vedere altro che una mascherina che si poggiava sul suo visetto. L'aria che prese a respirare era più calda – ed era un sollievo – e aveva un sapore dolciastro.

« Somministrategli un'altra dose, domani stabiliremo il primo contatto con Y299O. »

Il piccolo emise un versetto stanco, ma prima di addormentarsi per via del sedativo che stava respirando si chiese se Y299O sarebbe stato per lui una cosa buona o una cosa cattiva. E se, in ogni caso, avesse importanza.

 

*

 

98, 99, 100.

Cento colpi di spazzola.

Guardando il suo riflesso dall'aria vagamente disinteressata poté ritenersi soddisfatto.

Ripose la spazzola nel suo cassetto e rimase a lungo a rimirare il suo lavoro. I lunghissimi capelli argentei, sottili e morbidi come fili di seta, erano lucidi, splendenti, lisci. Esattamente come voleva che fossero.

Osservò con celato interesse il modo in cui, nonostante la glabra luce bianca che proveniva dal soffitto, apparissero comunque come la cosa più luminosa della stanza. Erano quasi uno spettacolo più interessante degli occhi verdi, sottili e leggermente a mandorla, con quella strana pupilla verticale e le scintille dorate tutto intorno. Lo erano perché per quelli non poteva fare nulla, mentre per i capelli sì, era tutto merito suo.

Immaginò se stesso mentre sorrideva, le labbra color ciliegia che si tendevano verso l'alto, ma l'immagine allo specchio non cambiò in alcun modo. Nessun fremito di emozione modificò i lineamenti aggraziati, dipinti sulla pelle candida.

Agli occhi di chi lo guardava appariva come una splendida opera d'arte. Chi doveva averlo creato aveva messo particolare attenzione nell'inserire un esatto numero di dettagli in modo da renderlo perfetto. Le proporzioni del viso, perfettamente simmetriche, la linea fluida del corpo che, sebbene ancora immaturo mostrava un'impeccabile bellezza: niente era stato progettato a caso per lui che era il capolavoro del Creatore.

Una bellezza così non poteva essere reale.

Persino i movimenti involontari sembravano calcolati in anticipo in modo da apparire aggraziati e leggeri, e i suoi piedi sul pavimento non solo non lasciavano impronta, ma non provocavano alcun rumore.

Surreale come una creatura fatta d'aria, mancava però di qualcosa che lo rendeva inconsciamente difettoso.

« Y299O. »

La voce venne dall'alto, come sempre. Fu un disturbo per lui dover distogliere lo sguardo dalla perfetta, bellissima immagine che gli rimandava lo specchio per alzare gli occhi con la dovuta, calcolata lentezza. Voleva che Loro capissero quanto fosse disinteressato al richiamo.

Non aggiunsero altro ma alla sua destra si aprì una porta che, fino a quel momento – o almeno, da quanto ricordava –, non aveva mai visto aprirsi.

Quel posto era pieno di sorprese.

Capì senza bisogno che glielo dicessero che doveva dirigersi da quella parte, in fretta se voleva evitare ulteriori punizioni, ed era un bel po' che non veniva punito. Non voleva scoprire cosa sarebbe successo se non avesse ubbidito.

Il suo volto rimase perfettamente neutrale, senza l'ombra di interesse o partecipazione, sebbene lo stomaco gli si contrasse per la tensione.

Elegante come sempre si alzò, non senza dare un'ultima occhiata allo specchio, e si diresse a piccoli passi verso la porta aperta. Non appena varcò la soglia gliela chiusero alle spalle ma non se ne curò, si limitò a guardarsi intorno.

Lasciò che lo sguardo vagasse per la nuova stanza, a lui totalmente sconosciuta. Osservò le pareti colorate, i giocattoli sparsi tutto intorno, ma quando gli occhi caddero sulla minuta figuretta accucciata con la testina argentea piegata su un foglio di carta si bloccò.

Dovette battere diverse volte le palpebre prima di realizzare chi e cosa aveva davanti.

Era un bambino proprio come lui, bhe, quasi come lui. Non era bello neanche la metà di quanto lo era lui – perché oh, se era consapevole della propria bellezza – ma trovarsi davanti all'improvviso qualcuno di così simile dopo tanto tempo osservando le Loro scialbe facce lo fece rimanere immobile.

Il bambino, concentrato a quanto sembrava a disegnare furiosamente qualcosa sul suo foglio, non si accorse subito della sua presenza cosa che, per qualche ragione, gli suscitò un senso di disturbo e intolleranza che l'avrebbe spinto a urlare per ottenere la sua attenzione. Era diventata la sua necessità primaria, e non se lo spiegava.

Prima ancora di prendere fiato, però, il bambino voltò la testa verso di lui.

Fu qualcosa di strano e nuovo per entrambi, qualcosa di fisicamente doloroso. Non era lo stesso dolore che provavano durante gli esperimenti, non era il dolore della fame, della stanchezza, della solitudine. Ma non avevano un modo diverso per chiamarlo, per cui, nelle loro menti, lo definirono solo “dolore”.

In un primo momento il bambino – ai suoi occhi piccolo, smagrito, spiacevole alla vista a causa dell'asimmetria dei capelli argentei che gli ricadevano sul viso solo da un lato – rimase immobile a fissarlo, gli occhioni verdi sgranati, le pupille ridotte ad una striscia di sottile sorpresa. Poi ripose il pastello che aveva tra le manine e si alzò, cauto. Qualsiasi cosa stesse disegnando con tanta foga aveva perso all'improvviso il suo interesse.

Mosse qualche passetto verso di lui, zoppicando appena a causa delle bolle sotto le piante dei piedi, le sopracciglia argentee corrugate.

Il nuovo arrivato era molto più alto, non tanto da doverlo costringere ad alzare la testa per guardarlo, ma abbastanza da farlo sentire, per la prima volta, basso. Certo, Loro erano alti, molto più alti di lui, sempre, ma...non era lo stesso. Non erano uguali a lui, non gli appartenevano. Quell'altro bambino sì.

Non era totalmente sicuro della sua età, dato che non aveva neanche la concezione della propria, ma non doveva essere molto più grande di lui, il visetto morbidamente rotondo ne era la prova.

Erano uguali, ma in qualche modo diversi, e più si guardavano più lo capivano, sebbene fosse una comprensione istintiva e non cosciente.

Il piccolo squadrò a lungo quel bambino tanto più alto di lui, gli occhi concentrati su ogni particolare del suo corpo, e quando provò il forte, fortissimo desiderio di parlargli, di stabilire un contatto anche solo verbale, si rese conto che non sapeva come farlo. Benché avesse sentito parlare tante e tante volte Loro, sebbene sapesse cosa fossero le parole e fosse in grado – non bene – di leggerle quando lo costringevano a farlo, non aveva la più pallida idea di come modulare i suoni e muovere le labbra in modo da poter trasformare ciò che gli usciva dalla gola in parole e poi in frasi.

Sentì crescere un senso di inadeguatezza e tristezza che contorse i suoi piccoli lineamenti in una smorfia di dolore, e riempì i suoi occhi di lacrime. Per la prima volta nella sua vita aveva scoperto di non essere solo, di condividere quell'esistenza tra le quattro pareti con qualcuno che gli era simile, e non poteva parlargli.

« Perché fa quella faccia? »

E all'improvviso quella voce. Annoiata, piatta, svogliata, senza picchi di inflessione tanto da fargli capire a stento che si trattava di una frase interrogativa. La sentì dentro la sua testa, forte e chiara, come se avesse parlato. Ma ne era certo: non aveva mosso le labbra.

Il cuore gli mancò un battito e trattenne il fiato per attimo. Aprì la bocca per parlare ma si ricordò – e fu un un pensiero piuttosto frustrante – di non sapere come fare, cosa che gli fece battere un piedino a terra.

« Come faccio adesso! »

Pensò, e fu chiara, anche se non istantanea, la reazione dell'altro bambino.

Se non fosse stato un osservatore attento forse non se ne sarebbe accorto, ma per fortuna – se poteva definirsi una fortuna – essere un prigioniero gli aveva dato modo di affinare molto le tecniche di osservazione. Solo con uno sguardo capiva quando Loro volevano fargli del male, e di conseguenza poteva prepararsi al dolore. Non era una capacità molto utile all'atto pratico, ma era tutto quello che aveva.

O almeno, non era stata utile fino a quel momento, ma ora, grazie proprio a quello sguardo attento, riuscì a cogliere una sfumatura di espressione sul volto altrimenti statico del bambino. Un sopracciglio che si era sollevato leggermente, una vibrazione dell'angolo destro del labbro superiore: nulla di più, ma lui l'aveva visto.

Con il cuoricino che stava per esplodergli in petto e la gola secca, arida, torbida come l'aria calda che gli avevano fatto respirare, fece un tentativo, solo perché non aveva nulla da perdere.

« Mi senti? »

Se avesse parlato quel pensiero sarebbe stato il corrispettivo di un sussurro.

Per un lungo, straziante momento non successe nulla, assolutamente niente, e stava già per darsi dello stupido, mordicchiandosi il labbro inferiore per il nervoso.

« Sì. »

Arrivò così all'improvviso che fu come se gli avessero dato un pugno allo stomaco, nonostante fosse solo una sillaba.

Deglutì a vuoto, il cuore che non voleva proprio saperne di rallentare i battiti, e alzò gli occhioni spauriti verso il bambino più grande.

Rimasto immobile come una bellissima, inespressiva statua aveva nello sguardo qualcosa che poteva tradire ciò che realmente stava provando.

« Mi senti...mi senti davvero? Mi senti proprio come se parlo? »

« “Come se parlassi”. »

A prescindere dalla correzione, il piccolo fece quasi un balzo dalla gioia, trattenendosi dell'emettere piccoli strilletti di felicità. Era la prima volta che parlava con qualcuno. Bhe, non era proprio come parlare, ma ci si avvicinava.

« Tu chi sei? Da dove vieni? Da quanto tempo sei qui? Perché non ti ho conosciuto prima? Come faccio a sentire la tua voce nella testa? »

Furono più domande scaturite da pensieri inconsci, probabilmente se avesse potuto parlare ne avrebbe posta una alla volta, ma la velocità della mente, la nuova scoperta e la sola presenza di quel bambino gli impedivano anche solo di pensare ordinatamente.

Il grande spostò la testa di lato, i capelli lunghi fecero frush scivolando oltre la spalla e lui trovò affascinante quel suono. Poi alzò gli occhi verso lo specchio.

« Loro ci guardano. » e quel pensiero, come parole, volò da uno all'altro. « Ma non devono sapere che possiamo parlare. »

Il piccolo si trattenne dal portare le mani alla bocca nel segno universale di “non dirò un'altra parola”, perché effettivamente non stava dicendo nulla. Seguì con lo sguardo il grande che, camminando come senza peso nella stanza, andò a sedersi al suo banchetto e cominciò a guardare i disegni che aveva fatto. Per qualche ragione la cosa gli mise addosso una sottile ansia, così gli trotterellò vicino sedendosi al suo fianco, gli occhi attenti su ogni suo movimento.

Appariva completamente disinteressato mentre spostava i fogli da una parte all'altra osservando la povertà dei soggetti ritratti. Eppure dentro covava un'emozione mai provata prima.

« Questi li hai fatti tu? »

Anche se quella voce nella testa manteneva un tono piatto, monocorde, il piccolo sentì ugualmente una scintilla di orgoglio nel petto, cosa che raramente gli capitava di provare.

« Sì li ho fatti tutti io. »

« E come li hai fatti? »

La domanda lo lasciò perplesso, tanto che dovette corrugare le sopracciglia, salvo poi ricordarsi che lo stavano guardando: non era il caso di fare smorfie. Cercò di ricomporsi mentre rispondeva.

« Con i pastelli. » lo sguardo perplesso, più convinto che persuaso, del bambino lo costrinse a dargli una prova di quello che stava dicendo. « Prima prendo un foglio. » prese un foglio bianco dalla pila e se lo piazzò davanti. « Poi scelgo un colore. » ne prese uno chiaro, che somigliasse al colore della pelle. « E decido che cosa mi piacerebbe disegnare. » tracciò un'ovale sul foglio, la forma di un viso, tracciò due linee per il collo, per le spalle. Il risultato fu un'abbozzata forma umana. « Se mi serve posso cambiare colore per disegnare qualcos'altro. » aggiunse al centro del volto due puntini dello stesso colore dei suoi occhi e con un pastello scuro – ma non troppo – tracciò i capelli. « Vedi? Sei tu! »

Gli mostrò con orgoglio il disegno, ma il grande non ne fu particolarmente entusiasta.

« Non mi somiglia. Io non ho i capelli così scuri, dovresti usare l'argento. »

Un attimo di spaventato silenzio in cui il piccolo trattenne il fiato.

« Cos'è “argento”? »

Lo sguardo del grande, stupito, lo squadrò per un attimo come se stesse valutando se fosse serio o meno, se lo stesse prendendo in giro insomma. Ma resosi conto che così non era, raccolse dal tavolo il pastello argento e glielo mostrò.

« Argento, questo è argento. »

Le labbra del piccolo si aprirono in una “o” di sorpresa.

Argento! Quanta magia in una parola sola!

Mostrò al bambino un altro pastello, quasi saltellando per l'impazienza.

« E questo? Questo cos'è? »

« Verde. »

Verde.

Ora lo sapeva, lui aveva gli occhi verdi e i capelli argentei.

E come lui non esisteva nessun altro al mondo. A parte quel bambino. Erano soli in due.

Il grande esitò un attimo con il pastello argento ancora tra le mani, poi sospirò impercettibilmente e tornò a guardarlo.

« Puoi insegnarmi a disegnare? »

Il piccolo sentì il cuore che mancava un battito e le labbra tendersi in un sorriso, ma si obbligò a mantenere la più neutra delle espressioni, quasi imitando l'altro.

« Certo. E tu puoi insegnarmi i colori? »

 

All'improvviso non desiderava più morire. O meglio, non lo desiderava con tanto fervore ogni giorno in ogni momento in ogni pensiero. Perché aveva qualcosa per cui valeva la pena rimanere in vita ancora un po', un altro po'.

Adesso che conosceva i colori gli sembrava di riuscire a dare una dimensione diversa al suo piccolo mondo. Avrebbe potuto dire della sua stanza che le pareti erano bianche, che le coperte del suo letto erano azzurre, che il pavimento era grigio. Questo cambiava tutto, anche se non sapeva esattamente come.

Il momento che aspettava con più ansia durante la giornata era quando lo facevano entrare nella Stanza dei Giochi. Succedeva molto più spesso, adesso, ed era strano che a lui non importasse niente dei giocattoli, perché quello che voleva davvero era l'altro bambino.

Per il resto, potevano sottoporlo a qualsiasi genere di tortura, farlo gridare, piangere, fargli del male: non gli importava.

Quel giorno erano stati parecchio insistenti i tentativi di farlo correre lungo un percorso ad ostali che non era evidentemente in grado di superare. Si era sbucciato un ginocchio cercando di scavalcare una parete, e gli avevano dato la scossa, era caduto da una fune perché le braccia non avevano retto, e gli avevano dato la scossa, si era rifiutato di gettarsi in una pozza d'acqua troppo profonda, e gli avevano dato la scossa.

Quando finalmente l'avevano fatto entrare nella Stanza dei Giochi aveva i capelli tutti arruffati e di tanto in tanto si tendeva in uno spasmo dovuto alla corrente elettrica in eccesso presente nel suo corpo.

L'altro bambino si accorse subito che qualcosa non andava, nell'esatto momento in cui entrò, ma non disse niente finché non furono fianco a fianco, i fogli bianchi davanti e i pastelli colorati in mano. Non poté non notare che la manina del più piccolo tremava visibilmente.

« Stai bene? »

Gli chiese, e non fu strano come la prima volta quando il pensiero viaggiò da uno all'altro. D'altronde perché avrebbe dovuto esserlo?

Il piccolo si strinse nelle spalle e non appena poggiò la punta del pastello sulla carta venne attraversato da uno spasmo che gli fece tracciare una linea retta, profonda, su tutto il foglio.

« Sto bene, sto bene. »

Si affrettò a rispondere, prima che lui potesse intervenire in qualche modo. Si strinse solo le manine al petto per un lungo attimo, finché i tremori cessarono abbastanza da renderlo in grado di prendere un altro foglio e ricominciare da capo il disegno.

« Ti hanno fatto molto male? »

Quel modo di comunicare era rapido, istintivo, non dovevano neanche guardarsi, il che agli occhi di chi li osservava risultava frustrante. Nessuno poteva immaginare che si stavano parlando, di conseguenza apparivano solo come due bambini che disegnavano in silenzio. Così avevano deciso di voler apparire al Loro disattento sguardo.

« Non più di sempre. »

« “Più del solito”. »

Il piccolo registrò la correzione senza dire nulla. Faceva sempre così.

Era strano sapere cose che lui non sapeva, ed era strano non sapere quelle che lui sapeva. Ogni qual volta entravano in contatto diventava consapevole che gli mancava qualcosa, qualcosa che non esitava a prendersi da lui se gli permetteva di farlo.

Era così che aveva scoperto che il grande non sapeva sorridere. Ma non solo sorridere, sembrava non essere in grado di fare nessun tipo di espressione. Si stupiva quando lui corrugava le sopracciglia, o quando sgranava gli occhi per la sorpresa, o quando tirava in giù gli angoli delle labbra per esprimere tristezza. Nella vera realtà dei fatti sapeva che “sorridere” voleva dire muovere le labbra in un certo modo, o in generale apparire in un certo modo, ma non sapeva farlo.

Di contro, lui non aveva idea di cosa fosse una spazzola – che gli aveva mostrato il secondo giorno, quando gli aveva pettinato per la prima volta i capelli –, e non conosceva il nome e l'aspetto di oggetti di uso comune.

Per un po' rimasero in silenzio, apparentemente concentrati a disegnare figure umane sui rispettivi fogli.

Poi il grande volse appena gli occhi verso di lui, piegando di lato la testa e facendo frusciare i capelli come gli piaceva.

« Come ti chiami? »

Gli chiese, e lui si ritrovò a corrucciare tanto le sopracciglia che per un attimo divennero un'unica arcata argentea.

« Che vuol dire? »

Il grande distolse l'attenzione da lui, tornando al suo disegno. Non era particolarmente dotato e trovava la cosa irritante.

« Vuol dire » rispose, ma senza guardarlo. « qual è il tuo nome, come ti chiamano gli altri, a quale parola senti di doverti voltare se la senti pronunciare. »

« Cos'è un nome...? »

Quando gli occhi verdi del grande gli si poggiarono addosso, la sua espressione neutra gli sembrò...ostile, distante, forse scocciata dalla sua continua ignoranza. Tremò senza poterselo impedire e stava quasi per chiedere scusa quando lui prese un pastello arancione e glielo mostrò.

« Questo pastello è arancione, arancione è il nome che hanno dato a questo colore, e anche tu hai un nome, per poterti chiamare e distinguere dagli altri. »

Aveva senso, eccome se ne aveva. Come avrebbe potuto distinguere il giallo dall'arancione senza sapere che quelli si chiamavano “giallo” e “arancione”?

Quindi come poteva distinguere se stesso da lui?

« Tu come ti chiami? »

Il grande ci pensò a lungo prima di rispondere. Un “nome” ce l'aveva, era quello con cui Loro lo chiamavano agli altoparlanti, era quello che sentiva quando riceveva un ordine, era una serie di numeri e lettere – Y299O –, era quello che, in qualche modo, gli avevano dato.

Ma davvero l'arancione doveva chiamarsi “arancione” solo perché qualcuno, un giorno, aveva deciso che si chiamava così?

« Yazoo. »

Rispose quindi. L'arancione non gli era mai piaciuto.

Il piccolo sgranò un po' gli occhi, affascinato dal suono che aveva quella parola nuova dentro la sua testa. Non era come venire a conoscenza del nome di un oggetto, non era come sapere che il tavolo era “tavolo” e non “sedia”. Era diverso.

Il bambino accanto a lui si chiamava Yazoo, e quel nome era suo e di nessun altro. Un tavolo è un tavolo, che abbia un'altra forma o che si trovi in un'altra stanza. Yazoo sarebbe stato Yazoo, in qualsiasi stanza si fosse trovato, qualsiasi abito avesse indossato, e saperlo lo rendeva un po' suo, come se gli appartenesse.

Desiderò potergli dire il proprio nome, condividere quella sensazione di “appartenere a qualcuno” con lui, ma si accorse che, per quanto lo cercasse, non trovava niente che corrispondeva alla sua definizione di “nome”.

Anche se in fondo c'era...

« K232j. »

Yazoo – ed era molto bello poter pensare a lui come “Yazoo” e non solo come “l'altro bambino”, “il grande”, o “lui” – gli rivolse ancora quello sguardo strano, quello sguardo che gli faceva sentire il bisogno di scusarsi.

« Quello non è il tuo nome. » nonostante la pacatezza della voce c'era qualcosa di caldo e intenso nel modo in cui il pensiero arrivò alla sua mente. « Quello è solo il modo in cui Loro ti chiamano. Tu chiami il pastello “pastello” perché è un pastello, ma ha un nome proprio, in base al colore, no? »

« Anch'io ho un nome proprio? »

« Sì! »

« E qual è? »

Non era propriamente silenzio quello che c'era tra loro quando non condividevano i pensieri, era solo assenza di rumore, il che era totalmente diverso. Anche senza parlare, sentivano un brusio nella mente che apparteneva all'altro, sentivano il ponte formicolante di attività che li teneva uniti. Si sentivano pensare, anche se non erano consapevoli di saperlo fare, e in quel momento lui sentì Yazoo pensare, pensare e pensare, finché i suoi occhi non si sgranarono un po', ma solo per un istante, e lui poté vedere il principio di un'emozione sul suo volto.

« Kadaj. »

Gli disse, e seppe in un attimo che quello era il suo nome, che se l'avesse sentito pronunciare si sarebbe voltato perché avrebbe voluto farlo e non perché altrimenti sarebbe stato punito.

Era il suo nome, ma anche di Yazoo, e adesso si appartenevano a vicenda.

 

*

 

« Possibile che questo sia l'unico cambiamento che avete riscontrato? » quasi gridava, il volto paonazzo, i fogli di carta con i risultati delle ultime analisi strette tra le dita ossute. « È da un mese che li facciamo interagire e questo è l'unico dannato cambiamento? »

Se la prendeva con lei perché non aveva nessun altro con cui prendersela. Tutti gli scienziati che lavoravano al progetto erano degli inetti, niente più di studentelli con la laurea che profumava ancora di stampa che non avevano ben chiaro in mente che cosa stava succedendo in quel laboratorio, proprio sotto ai loro occhi. E lui questo non poteva sopportarlo.

« L'unico. » ribatté lei, la voce che le tremava appena, ma la stessa ferrea decisione di sempre. Aveva iniziato qualcosa che intendeva portare a termine. « Abbiamo sottoposto K232J a diversi livelli di stress dopo l'incontro con Y299O, la quantità di Mako nel sangue non è aumentata e non è diminuita, il suo QI rimane stabile, lo sviluppo fisico idem, non ha fatto alcun progresso significativo, a patto che non consideriamo significativo che una cosa come lui possa camminare, pensare, o anche solo respirare. »

L'uomo non rilassò la presa sui fogli che teneva in mano, anzi, se possibile le parole di lei lo fecero adirare di più.

Una quantità contingente di denaro era stata fornita dalla Shinra perché portassero avanti quell'esperimento e arrivassero a qualcosa, invece si trovavano davanti ad un muro.

« Aumentate le dosi. »

La donna parve non capire, o forse capì troppo bene, tanto che batté piano gli occhi e guardò l'uomo che aveva amato come se fosse un estraneo.

« Aumentare le dosi di cosa? »

« Del Mako. Se i livelli rimangono stabili non otterremo nessun miglioramento. Aumentate le dosi. »

Lei dovette prendere un profondo respiro per non urlargli in faccia “sei impazzito o cosa?”.

« Il loro organismo è già un precario equilibrio di forze, se somministriamo altro Mako potrebbero arrivare ad uno scompenso enorme, non sappiamo cosa potrebbe succedere. »

« Monitorateli, così scopriremo cosa succede, no? »

La voce tagliente e gelida di lui le provocò una stretta allo stomaco.

« Senti, Hojo. » passando da un tono formale ad uno forzatamente informale. « So che vuoi avere dei risultati, ma forzando la mano non arriveremo a niente, anzi, rischiamo di perderli, e per cosa? Perché hai affrettato i tempi. Non gli abbiamo mai somministrato più Mako di quanto potessero smaltirne, farlo adesso sarebbe un rischio inutile. »

Un attimo di silenzio. Gli occhi scuri di Hojo si posarono su di lei, percorsero il suo corpo minuto da capo a piedi, come a voler cercare una spiegazione per quel suo improvviso opporsi alle sue decisioni, e si soffermarono sul suo viso candido, sottile. Una donna oltremodo affascinante quanto incomprensibile.

« Allora dimmi, Lucretia. » mormorò, con un tono di voce più pacato adesso, dimostrandosi ironicamente accondiscendente. « Cosa proponi di fare? »

« Prima di arrivare alla tua soluzione » “che non approvo” era tra le righe. « c'è ancora L6Z. »

Lui fece una smorfia infelice.

« Quell'esperimento è fallito anni fa. »

« Anche Y299O era un fallimento finché non ha cominciato ad interagire con K232J. » un piccolo sorriso sulle labbra rosee di lei. « Lasciamo che interagiscano anche con L6Z per un po', non c'erano mai stati precedenti come questi. Se non avremo miglioramenti visibili entro il prossimo mese, aumenteremo le dosi di Mako per stimolare il loro sistema nervoso. O moriranno, o avremo creato qualcosa di mai visto. »

Hojo sembrò pensarci, ma era ovvio sul suo volto rattrappito che l'idea lo solleticava.

Creare un essere vivente in laboratorio usando come principio generatore l'energia Mako era di per sé già un successo, che poi quell'essere vivente crescesse, mentalmente e fisicamente, come un essere umano era quasi un miracolo, ma crearne più di uno, studiarne i comportamenti, lo sviluppo neurologico mettendoli insieme, poteva fargli raggiungere vette fin adesso inesplorate.

Non appena si fosse stufato di giocare con le sue piccole cavie e ottenuto i dati che gli servivano davvero, avrebbe potuto ucciderle e ricominciare da capo.

Un nuovo ramo dell'evoluzione della specie umana, era la più grande scoperta dopo l'Homo Sapiens.

Annuì molto lentamente, ma Lucretia sapeva che avrebbe accettato molto prima che lo sapesse lui.

 

*

 

Kadaj non sognava spesso, perché non dormiva molto, e comunque quando succedeva erano sogni terribili – la parola “sogno” gliel'aveva insegnata Yazoo –. Però quella volta fu diverso.

Non capì subito di trovarsi in un sogno, perché era tutto così simile al suo mondo che stentava a cogliere le differenze, però gli bastò guardare più attentamente.

Saltava subito agli occhi che la porta della stanza era aperta, solo un po', giusto uno spiraglio, ma era aperta. In tutta la sua vita non l'aveva mai vista aperta senza che Loro ne entrassero o uscissero.

Curioso, distese le gambine e si alzò in piedi dirigendosi verso lo spicchio di luce che proveniva da fuori. Non era mai stato fuori senza che uno di Loro lo accompagnasse, e non era mai andato da qualche parte perché voleva andarci e non perché gli avevano detto di farlo.

Era la prima volta per molte cose, per questo capì che si trattava di un sogno, diverso dagli altri, ma pur sempre un sogno.

Superò la soglia e fu nel corridoio. Le luci sul soffitto lampeggiavano di tanto in tanto gettando ombre scure di cui ebbe subito paura.

Non c'era nessuno, e anche questo era strano. Deglutendo a fatica si fece strada nel corridoio tenendo le braccine strette al petto come se potesse bastare per difenderlo dalle brutte cose che si nascondevano nel buio.

Il corridoio si biforcava ad un certo punto, sapeva che a destra c'era la Stanza Del Dolore, ma non aveva idea di dove conducesse quello di sinistra, per questo lo imboccò, desideroso sia di allontanarsi dal dolore, sia di scoprire dove portava la strada.

Camminò per un po', superando porte chiuse che lo rendevano sempre più frustrato. Sembrava che quel corridoio non volesse finire.

Poi si trovò di fronte una grande porta d'acciaio, rinforzata lungo i bordi. Era socchiusa. Si chiese come mai una porta all'apparenza fatta per tenere qualcosa dentro fosse stata lasciata aperta, ma non si chiese se fosse o meno il caso di entrare: lo fece e basta.

C'era buio, odore di qualcosa di pungente e poco piacevole, di sporco e chiuso.

Ma soprattutto c'era un bambino.

Lì per lì rimase immobile, in silenzio. Il bambino gli dava le spalle, rannicchiato contro una parete della stanza come tante volte aveva fatto lui.

Combattuto tra il desiderio di scappare via quanto di avvicinarsi di più, si morse le labbra. Non poteva neanche rivolgergli la parola, come avrebbe fatto ad attirare la sua attenzione?

Quando lui si voltò riuscì a pensare solo marginalmente a quanto fossero grandi i suoi occhi verdi, o quanto sembrassero sporchi i corti capelli argentei, perché fu catturato dal movimento delle labbra screpolate mentre pronunciavano:

« Kadaj. »

 

Si svegliò di soprassalto e si strinse automaticamente le gambe al petto. Non sapeva bene a che punto del sonno si era accucciato sotto il letto, tutto stretto nell'unica coperta in suo possesso. Però l'aveva fatto, e ora gli faceva male dappertutto per la scomoda posizione tenuta per così tanto tempo.

Piano piano uscì dal suo nascondiglio, sempre tenendosi addosso la coperta come uno scudo.

Dovette stropicciarsi un occhietto per cercare di mettere a fuoco quello che aveva intorno e sbadigliò.

Aveva fame, ma non era la sua più grande preoccupazione.

Quel sogno lo turbava, non riusciva a smettere di pensarci. Nei suoi brutti sogni c'erano solo Loro, Loro che provavano a fargli del male, più male del solito – come gli aveva detto Yazoo –, ma non duravano mai così tanto, né aveva mai incontrato un altro bambino.

Certo, prima di Yazoo era convinto che i bambini esistessero solo nei libri che ogni tanto gli davano da leggere, quindi non aveva molto senso pensare che incontrare un altro bambino fosse qualcosa non poteva succedere, non era ancora successo, tutto qui.

Però sognare qualcuno che non aveva mai neanche visto...

Sobbalzò quando la porta della stanza si spalancò e Loro entrarono. Non li aveva sentiti avvicinarsi per colpa di quel sogno.

Preso alla sprovvista, cercò di opporre una tenue resistenza quando lo presero di peso e lo trascinarono fuori. Sapeva che potevano dargli la scossa se avesse continuato ad agitarsi in quel modo ma...non voleva, non voleva!

« Kadaj. »

Una scossa sì lo attraversò, ma fu di diversa natura. Si guardò intorno cercando Yazoo, perché aveva la sua voce chiara nella testa, ma lui non c'era.

« Yazoo? »

Dove? Dove sei?

Lo trascinarono ma ormai non si muoveva più, il cuore gli batteva tanto forte il petto da non lasciarlo respirare.

« Riesci a sentirmi? »

« Sì! » quasi urlò nella mente la risposta, sempre più confuso. « Non ti vedo, dove sei? »

« Mi hanno portato in una stanza, ad aspettare. »

« Perché riesco a sentirti? E cosa aspetti? »

« Aspetto te. »

Kadaj avrebbe voluto pressarlo perché rispondesse anche all'altra domanda, ma poi Loro lo spinsero con forza nella stanza e se lo trovò davanti, seduto a terra con le gambe incrociate. Non gli rivolse più di uno sguardo, ma nella propria mente capì quanto fosse desideroso di vederlo.

Si andò a sedere accanto a lui, abbastanza vicino da sentire il suo calore ma non per toccarlo. Anche se gli sarebbe piaciuto potergli prendere la mano o stringersi a lui come aveva fatto con la coperta. Ma Loro stavano guardando. Guardavano sempre.

« Mi hai parlato anche se eravamo lontani. »

Tentò, solo perché la curiosità lo consumava e a quanto pareva li avevano lasciati lì entrambi a far niente. Era la prima volta che li facevano incontrare in una stanza che non fosse la Stanza dei Giochi.

« Ho sentito che eri spaventato. »

« Come hai fatto a sentirlo? »

Lui volse appena la testa, e anche se sul volto aveva la solita, neutrale espressione, Kadaj poté leggere nei suoi occhi l'emozione che il suo viso non poteva esprimere.

« Non lo so, l'ho sentito e basta. E ti ho chiamato. Non pensavo che mi avresti sentito. »

Kadaj non rispose. Non gli disse quello che avrebbe voluto. Volse lo sguardo verso il muro e fissò il buco da cui occhieggiava l'obbiettivo di una telecamera.

Non gli disse che era felice che avesse sentito che era spaventato, ma ancor di più che l'avesse chiamato. E fu anche felice che una parte della sua mente era ancora sua e che Yazoo non potesse sentire proprio tutti i suoi pensieri.

« Secondo te perché ci hanno fatto venire qui? »

Yazoo scosse la testa pian piano, rispondendo negativamente alla sua domanda.

Kadaj lasciò che gli occhi vagassero ancora una volta lungo i contorni della stanza. Quattro pareti, una porta, quattro pareti, una porta, quattro pareti una porta. Non c'era molto altro da guardare. Però si tenne bene dal mostrarsi indisposto o scocciato dall'attesa, da che riuscisse a ricordare era la cosa migliore che gli era mai capitata dopo l'arrivo di Yazoo.

Se si metteva di impegno – ma neanche così tanto – avrebbe potuto accendere una lampadina solo toccandola per quante volte gli avevano dato la scossa.

Aspettare andava bene.

Quando ormai entrambi pensavano che quell'attesa snervante fosse una prova di qualche genere, la porta da cui erano entrati si aprì.

Nessuno dei due si mosse, paralizzati dal pensiero di poter essere puniti in qualche modo, mentre alcuni di Loro entravano spingendo su di un carrello quella che sembrava un'enorme cassa coperta da un telo bianco.

Kadaj non poté trattenere un brivido quando vide che insieme a Loro c'era anche Lui, l'uomo che aveva disegnato morto ai suoi piedi, e che adesso lo fissava con quei suoi occhi scuri e freddi. Yazoo dovette percepire la sua preoccupazione perché, senza rendersene conto probabilmente, gli si fece più vicino.

Dopo aver lasciato la cassa in mezzo alla stanza, Loro uscirono senza degnarli di uno sguardo o di una parola. Prima di uscire, Lui tolse il telo da sopra la cassa, e Kadaj e Yazoo furono nuovamente soli.

O almeno, furono soli finché non videro cosa o meglio chi si trovava dentro la cassa, che era un'enorme cubo trasparente e attraverso le sue facce poterono vedere all'interno.

Kadaj trattenne il fiato, così come l'urlo di stupore che gli risalì lungo la gola.

Accucciato contro uno degli angoli, la schiena tanto pressata contro il vetro da sembrare farne parte, c'era un bambino.

Più alto e dal corpo massiccio – che annunciava una crescita adolescenziale verso il metro e ottanta – aveva corti, sporchi, spettinati capelli color argento, il viso era contratto in una smorfia di incomprensibile natura, mentre gli occhi – verdi, proprio come i loro – avevano la pupilla tanto sottile da essere quasi invisibile. Le labbra pallide sollevate verso l'alto in un silenzioso ringhio animale.

Occorse diverso tempo a Kadaj per realizzare che quello che aveva davanti sembrava poco meno di un animale spaventato, e che le unghie di mani e piedi erano lunghe abbastanza da poter essere usate come arma.

Forse era per questo che lo tenevano chiuso in quella prigione trasparente?

« È come noi. »

Mormorò Kadaj alla mente di Yazoo, così piano che se avesse parlato lui non l'avrebbe sentito.

« Non è come noi. »

Cos'era? Timore? Ribrezzo? Repulsione?

Kadaj non avrebbe saputo dirlo, perché la sua mente era troppo impegnata a cercare quella del bambino dentro la scatola trasparente. La cercò come si cerca l'interruttore della luce nel buio, a tentoni, lentamente, gli occhi fissi sulla ringhiante figura.

Non sentì le parole di Yazoo, né il richiamo della sua mente, insistente come un pungolo. Rimase immobile e concentrato.

Quello che incontrò fu una seria scombinata, spaurita e intensa di sensazioni, pensieri, immagini senza un nesso.

La mente di Yazoo era ordinata a tal punto da sembrare vuota, quella del bambino invece era un'angosciante caos di colore.

C'erano pochi pensieri, e quei pochi erano comunque incomprensibili.

Sembrava quasi che comunicasse per immagini e non con i suoni.

« Non riesco a capire che cosa dice. »

Mormorò Kadaj, ritraendosi dallo strano caotico mondo di quel bambino.

« Non sta dicendo niente. »

Yazoo, freddo come il ghiaccio.

La comunicazione tra loro era così rapida e naturale da aver smesso di essere fonte di curiosità, ma Kadaj non poté fare a meno di chiedersi se un contatto o una qualche forma di comunicazione fosse possibile anche con quel bambino.

Fece per avvicinarsi alla scatola ma Yazoo lo prese per un braccio e lo tirò indietro, negli occhi aveva un avvertimento allarmato.

Non avrebbe avuto bisogno di leggergli la mente per capire quanto fosse spaventato e preoccupato.

Kadaj gli rivolse un piccolo sorriso e forzò la sua mano affinché lasciasse la presa, dopo di che tornò ad avvicinarsi alla scatola.

Ora che era a pochi centimetri poté sentire i ringhi animaleschi del bambino e vedere i suoi occhi spaventosamente privi di qualsiasi accenno di pensiero logico cosciente.

Non sembrava in grado di ragionare, in alcun modo, ma Kadaj provò ancora a spingere il pensiero verso di lui, come faceva con Yazoo, e nello stesso tempo appoggiò una manina sul vetro, come a volerlo toccare.

« Non voglio farti del male. »

Fu il pensiero che provò ad inviargli. Ma gli fu subito chiaro che non riusciva a capirlo, o forse non gli credeva. Per questo provò con un'immagine. Se il bambino comunicava per immagini, allora anche lui l'avrebbe fatto per raggiungerlo.

Immaginò se stesso mentre si avvicinava a lui e lo prendeva per mano come per mostrargli che aveva buone intenzioni e che non gli sarebbe successo nulla di male, esattamente come aveva detto.

Provò e riprovò, sforzando tanto la mente che alla fine si sentì coperto di goccioline di sudore.

Ma non aveva idea se il bambino “ricevesse”, esattamente come era successo con Yazoo finché non gli aveva risposto.

Passò un lunghissimo istante di silenzio in cui Kadaj si sentì enormemente stupido – e in cui sentì persino Yazoo pensare che fosse stupido –.

Forse quella magia tra lui e Yazoo era unica e irripetibile, forse non avrebbe potuto stabilire nessun contatto, forse lui poteva sentirlo ma il bambino no, forse era inutile rimanere con la mano incollata al vetro aspettando chissà quale reazione da parte sua.

Sospirò, inutilmente deluso dalla cosa, e stava quasi per allontanarsi quando avvertì il primo, piccolo cambiamento.

Era un'immagine, un'immagine precisa, che sbocciò nella sua mente come se qualcuno l'avesse messa lì apposta.

Kadaj vide se stesso mentre percuoteva il bambino non appena fu abbastanza vicino per farlo, e lo vide ancora e ancora in un eterno loop di paura. Poco importava che a dividerli, nella realtà, ci fosse una spessa parete di vetro. Il bambino era terrorizzato.

Kadaj non poté impedirsi di sorridere. Come avrebbe potuto, anche volendo, lui che era tanto piccolo potergli fare del male?

Cerò di fargli capire che non aveva motivo di temerlo inviandogli un'immagine rassicurante di loro due vicini.

Il cuore gli batteva così forte. Stava davvero comunicando con lui!

Sentiva però scostante il pensiero di Yazoo pungolarlo dai margini della sua mente, come a chiedergli che cosa stava succedendo.

Che non fosse in grado di stabilire un contatto con il bambino come invece stava facendo lui?

Lo ignorò, per quanto fosse possibile, e tornò a concentrarsi sul bambino.

Non si era forse un po' avvicinato?

Una seconda immagine comparve dal nulla nella sua mente. Era Yazoo, visto dagli occhi del bambino.

In qualche modo Kadaj comprese che gli stava chiedendo se Yazoo fosse un pericolo o meno.

Si ritrovò a scuotere la testa e sorridergli, la mano ora più saldamente poggiata contro il vetro.

Il bambino rimase ancora immobile, ma aveva smesso di ringhiare e fingere di apparire aggressivo e minaccioso.

Piano piano – così piano che Kadaj arrivò a chiedersi se si stesse muovendo davvero – si avvicinò alla parete e sollevò la mano per poggiarla virtualmente contro la sua.

Era obbiettivamente il doppio di quella di Kadaj, ed era più grande e stiracchiato di quanto non lo fossero lui o Yazoo. Eppure sembrava volersi fare piccolo piccolo, sparire. Il suo essere aggressivo era un meccanismo difensivo.

« Kadaj. »

Fu il preoccupato richiamo di Yazoo, ma il piccolo rimase fermo dov'era, lo sguardo puntato sull'altro bambino e un sorrisino sulle labbra.

Poi si sentì uno scatto come di una serratura che sblocca, e la parete trasparente su cui Kadaj stava tenendo la mano scivolò su cardini invisibili.

Fu Yazoo a prenderlo per un braccino per tirarlo indietro con fare protettivo, mentre l'altro bambino tornava a schiacciarsi nell'angolo più lontano della sua prigione.

Il cubo trasparente, come una scatola a cui è stato tolto il coperchio, si era aperto. Per un attimo gli occhi di Yazoo e Kadaj si sgranarono, spaventati, poi il piccolo realizzò che l'altro bambino era ben più spaventato di loro.

Percepiva i suoi pensieri come scomposte immagini che raffiguravano possibili scenari in cui veniva percosso, torturato, punito.

Stava per avvicinarsi ma Yazoo lo tenne stretto per un braccio, stringendolo in una dolorosa morsa. Kadaj soffiò come un gatto e bastò quello per fargli capire che doveva lasciarlo subito. E fu quello che fece, ubbidendo a quell'ordine prima ancora di accorgersene.

Allora il piccolo poté avvicinarsi all'altro bambino.

Si poggiò una mano sul petto, ritrovando il sorriso.

« Kadaj. »

Gli disse, in un vago tentativo di fargli capire che quello era il suo nome.

Il bambino lo squadrò da capo a piedi, imprimendosi nella mente la sua immagine.

« Kadaj. »

Sentire per la prima volta la sua voce fu come una scarica elettrica di alto voltaggio...ma completamente priva di dolore. Fu, anzi, ben troppo piacevole.

Com'era successo con Yazoo, condividere quel nome con lui fu come smettere di appartenere a se stesso e condividere una parte di sé con lui.

Poi lui portò una mano al petto come aveva visto fare al piccolo, senza mai staccare gli occhi dai suoi. Come un animale spaventato rimaneva guardingo, sul chi vive, pronto a ritrarsi alla prima avvisaglia di pericolo.

« Loz. »

È il suo nome!”, Kadaj non poté che sorridergli.

« Loz. » stavolta fu lui a rispondere. « Vieni qui, vieni da me. »

Non ci fu risposta se non un lungo, lunghissimo silenzio in cui il bambino rimase schiacciato contro l'angolo della scatola. Poi, passo dopo passo, uscì, lentamente, e poggiò la mano contro quella di Kadaj, tesa verso di lui.

Sgranò gli occhi per la sorpresa e le piccole labbra si schiusero, così Kadaj capì che quella era la prima volta che qualcuno lo toccava non per fargli del male.

Doveva aver sopportato torture di ogni genere, anche se il suo corpo non ne mostrava alcun segno.

Guarivano in fretta, forse era per questo che Loro non si facevano scrupoli nell'infliggergli le più atroci sofferenze.

Loz alzò lo sguardo verso Yazoo solo dopo essersi impresso l'immagine di Kadaj nelle retine, e quando incontrò i suoi occhi tremò appena, spaventato.

« Non ti farà niente. »

Ribadì allora Kadaj, per quella che doveva essere l'ennesima volta, e lo tirò appena perché potesse avvicinarsi a Yazoo.

Prese con la destra la mano di Yazoo e con la sinistra quelle di Loz, le unì insieme come a suggellare un accordo tra loro, e fu allora che tra le loro menti si saldò un legame inscindibile che li rese come un unico essere.

Kadaj era Yazoo ed era Loz, i loro cuori erano il suo, i loro respiri erano il suo. La loro sofferenza era la sua.

La parola “fratelli” emerse nella sua mente spintonando via qualsiasi altro pensiero.

“Fratelli” suonava abbastanza bene, era dolce da pensare.

Fratelli, erano fratelli, elementi singoli di un'unica soluzione, e niente, e nessuno, avrebbe potuto più separarli.

 

Loz era lento, goffo, impiegava più tempo del dovuto per capire anche il più semplice dei concetti. Ma Kadaj era paziente. Non avrebbe lasciato indietro nessuno dei suoi fratelli.

La parte più difficile era comunicare per immagini affinché lui capisse cosa volesse dirgli.

Il più inaspettato dei rumori lo faceva sobbalzare, il minimo contatto lo faceva ritrarre. Era un animale spaventato e Kadaj poteva capirlo. Eccome se poteva capirlo.

La notte era diventata il suo momento preferito, perché anche se separato dai suoi fratelli poteva raggiungerli con la mente, accarezzarli col pensiero.

Non aveva più paura del buio perché non era più solo.

Alle volte amava rifugiarsi nella mente di Yazoo, così limpida, fredda, ampia. Condividere le informazioni con lui era semplice, istintivo.

Non doveva neanche concentrarsi.

Si era così abituato a toccare la sua mente e a sua volta essere toccato dalla sua che arrivava a chiedersi dove iniziasse e finisse l'una e l'altra.

Poteva raggiungerlo anche se erano lontani – e a dirla tutta non sapeva neanche quanto fossero lontani, a fine giornata lo chiudevano nella sua stanza, separandolo dai fratelli, che rivedeva solo l'indomani mattina –.

Era esaltante, era magico.

Tutta un'altra storia era con Loz.

La confusione di immagini, sensazioni, pensieri sconnessi di cui era composta la sua mente rendevano difficile capire come approcciarsi.

Entrare in quel caos voleva dire perdersi.

Forse lui non riusciva neanche a percepire la sua presenza, o forse, proprio perché la percepiva, si agitava tanto da rendere tutta la sua mente un susseguirsi insensato di concetti appresi qua e là. La maggior parte dal dolore.

Tutto ciò che Loz aveva imparato era stato tramite esperienze fisicamente dolorose. Associava tutto al dolore, la sua esistenza era ridotta al dolore.

L'incontro con Kadaj e Yazoo e i momenti che Loro gli facevano passare insieme erano gli unici diversi, gli unici esenti dal dolore.

C'era ancora tanta paura in lui nell'avvicinarsi ai fratelli, perché le sue erano ferite terribili – Kadaj le aveva viste tutte, anche se confusamente, nel caos della sua mente –, ma doveva aver capito che erano speciali, e che non sarebbero mai stati un pericolo per lui.

Seduti tutti e tre vicini, le testoline argentee quasi appoggiate l'una contro l'altra, ad un primo sguardo sarebbero sembrati come normali bambini intenti a disegnare.

Mentre Kadaj e Yazoo muovevano i pastelli con sicurezza, Loz stentava a tenere il suo tra le mani, e i tratti sul suo foglio non avevano soluzione di continuità.

I suoi sgranati occhi verdi, fissi sulle manine dei fratelli, erano avidi di informazioni, ma più cercava di copiare i loro disegni meno ci riusciva.

Così poggiò il pastello, ormai orrendamente consumato, e rimase solo a guardare.

Le menti placide dei fratelli gli consentirono l'accesso, e lui le invase quasi inconsciamente con una miriade di immagini: il suo modo di porre una domanda.

Yazoo sbuffò, ignorando quel flusso di immagini a cui non riusciva quasi mai a dare un senso, mentre Kadaj alzò gli occhi su di lui con un piccolissimo sorriso.

« Stiamo disegnando, Loz. » un'altra serie di immagini, più veloci, come flash, sparate a tutta velocità nella sua mente. Ma Kadaj aveva cominciato a capirlo. « È una cosa che facciamo perché è divertente. Ah...guarda, questi siamo noi. »

Gli mostrò il suo disegno, su cui erano abbozzate le forme di loro tre, vicini, mano nella mano.

Loz guardò il disegno con la testolina piegata da un lato. E poi accadde.

Nella mente di Yazoo e Kadaj il disegno prese vita, ed entrambi seppero che era Loz a creare quelle immagini.

Videro le loro figurette disegnate muoversi attraverso il foglio e uscirne per raggiungerne un altro e un altro ancora.

I due bambini avevano gli occhi sgranati per la meraviglia, ma non durò a lungo: la mente di Loz tornò a comunicare in modo sconnesso un attimo dopo.

« Fallo ancora! »

Esclamò tutto contento Kadaj. Se non fosse stato per la mano di Yazoo, stretta intorno al suo braccio, forse sarebbe balzato in piedi, attirando la Loro attenzione.

Loz aggrottò le sopracciglia, e i due fratelli poterono tornare a vedere le figure dei disegni diventare solide e lasciare il foglio.

« C'erano una volta tre fratelli. » la sua voce, la sua voce incerta, come indecisa su come mettere insieme le lettere per formare le parole, risuonò nelle menti di Yazoo e Kadaj. « Prigionieri di uomini cattivi. » le Loro figure, create interamente dalla sua immaginazione, aggredirono quelle dei fratelli, e Kadaj si tirò quasi indietro, spaventato. « Ma riuscirono a scappare. » e così fecero le figure, superando le Loro e correndo in un foglio su cui Yazoo aveva disegnato un'ordinata fila di alberi. « E da allora vissero per sempre felici e contenti. »

Come prima, tutto scomparve, e la mente di Loz tornò ad essere il solito, incontrollabile, caos di pensieri.

« Cos'era quello? »

Il pensiero di Kadaj sarebbe stato paragonabile ad un sussurro, ma Loz non stava più ascoltando, era tornato con la testa china sul suo foglio nel tentativo di disegnare qualcosa di più di linee ammassate.

« Immaginazione. »

Rispose Yazoo, non stupito, non impressionato, solo in attesa, in osservazione.

« Imma...immaginazione? »

« È quando con la mente puoi creare cose che non esistono. Un po' come quando sogni, però da sveglio. »

Per un po' rimasero in silenzio a guardare Loz, gli occhi fissi sulle sue mani, su come goffamente rigirava il pastello, rompendone la punta e mugolando di conseguenza.

« Lozzie. » il più grande alzò la testa verso Kadaj, una domanda inespressa nel suo sguardo. « Sei davvero speciale. »

Lui riuscì a rivolgergli un timido, piccolo sorriso, ma prima che Kadaj potesse dire o fare qualcosa, la porta della Stanza dei Giochi si aprì.

I tre bambini quasi saltarono su dallo spavento.

Loro erano in otto, e Lui era in prima fila. Non poteva dire niente di buono.

« Prendeteli, forza. »

Kadaj poté sentire la paura di Loz come fosse la sua, e le mani degli uomini che stringevano Yazoo sulla pelle come se stessero stringendo lui.

Per un attimo trattenere il desiderio di ribellarsi, di urlare, di scalciare, fu davvero difficile, soprattutto quando vide lacrime negli occhi di Loz.

Lui aveva pianto tante volte, ma non aveva mai visto qualcun altro piangere, soprattutto uno dei suoi fratelli.

L'istinto di corrergli incontro per abbracciarlo era quasi doloroso, ma poi Lui lo afferrò per un braccio, costringendolo a voltarsi per guardarlo.

« Non avere paura, K232J. » un tono di voce che Kadaj conosceva bene. Il tono di voce che gli diceva che doveva avere paura. « Andrà tutto bene, vedrai. » ma il sorriso sulle sue labbra, quel sorriso sporco, che mostrava i denti, lo fece tremare.

Allora provò ad agitarsi, tirò e tirò cercando di aprire la mano dell'uomo che lo teneva stretto, ma...una scossa elettrica gli mozzò il fiato in gola.

Il dispositivo sulla sua nuca frizzava ancora quando si accasciò a terra, le gambe molli.

« Cammina. »

Ma il dolore era troppo, e la voce allarmata di Yazoo nella mente non lo aiutava a concentrarsi.

Provò a muovere un passo ma un'altra scossa lo costrinse a terra.

Un piagnucolio strozzato gli sfuggì dalle labbra quando Lui prese a trascinarlo, insensibile al suo dolore, ai suoi lamenti.

Non attese che si rimettesse in piedi, né che ci provasse.

Li condussero in una stanza in cui non erano mai stati, pieni di strani strumenti, impregnata da un odore che gli fece venire la nausea.

Kadaj fu praticamente gettato sul pavimento, e non appena i fratelli furono liberi di farlo gli corsero accanto, stringendosi a lui come per difenderlo.

« Allora Lucretia, fai la tua magia. »

Disse Lui, le braccia incrociate, lo sguardo più scuro che mai.

Solo allora i fratelli poterono mettere a fuoco la donna in piedi davanti a loro.

Nel via vai di uomini in camice bianco non gli era mai successo di vedere una donna, non così bene e non così da vicino. I suoi dolci lineamenti e il calore dei suoi occhi scuri erano così sbagliati lì dentro.

Perché indossava un camice anche lei? Era una di Loro?

« Non sono d'accordo, lo sai. »

Prima dolce, lo sguardo della donna divenne di pietra quando si alzò per incontrare quello di Lui.

« Non mi importa. Ho aspettato anche troppo a lungo. Fai quello che devi fare. In fretta. »

La donna tornò a guardare i tre bambini rannicchiati sul pavimento.

Kadaj aveva ancora le gambe tremanti e molli per l'elettroshock, Loz provava invano a sembrare aggressivo ringhiando sommessamente, ma i capelli arruffati e gli occhi spalancati per la paura lo rendevano solo patetico, mentre Yazoo sorreggeva il più piccolo, le manine strette intorno alla sua vita.

« Tutti e tre? »

« Tutti e tre. »

« Hojo, non erano questi... »

« Tutti e tre Lucretia. La finiamo oggi. »

La donna sospirò e annuì, e Lui uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Fu Yazoo a notare che non era stata chiusa a chiave. E fu anche l'unico a capire il perché: non c'era bisogno di chiuderla, perché loro non potevano scappare. Non avrebbero mai varcato quella soglia vivi.

Lei si avvicinò lentamente ai bambini. Il ringhiare di Loz si fece più forte, ma la sua paura era tangibile, si sentiva nell'aria.

« Va tutto bene. » mormorò, un sorriso sulle labbra. Yazoo strinse di più il fratellino. « Posso vedere quello? » indicò il congegno sul collo di Kadaj, scoperto. Loz soffiò come un gatto. « Non voglio farti del male. » provò ad allungare una mano ma dovette ritrarla quando li vide tremare tutti e tre come foglie.

Allora sospirò e si tirò indietro.

« Non capite quello che dico, vero? No, certo. Non potete capire. Non vi hanno dato neanche la possibilità di farlo. Mi dispiace. Siete nati proprio in un mondo orribile. »

Dalla tasca tirò fuori un telecomando e prima ancora che potessero capire cosa stava succedendo, da tutti i congegni fissati sulle loro nuche partì una scossa elettrica di tale intensità da fargli perdere i sensi.

 

Kadaj aprì gli occhi solo perché il piangere di Loz era doloroso all'orecchio, e la sua paura gli stritolava la gola, come fosse la propria.

Avrebbe voluto consolarlo, dirgli qualcosa, ma la sua mente era irraggiungibile, avvolta com'era da quel denso, doloroso strato di terrore.

« Sarà una cosa veloce. »

Mormorò la donna, ancora sfocata ai margini del campo visivo di Kadaj.

Tra le mani aveva una siringa piena di liquido verde, lui la riconobbe perché gli avevano fatto tante iniezioni, e aveva imparato a fare l'abitudine con quello che veniva dopo.

Il bruciore, il dolore, la sensazione di essere dilaniato dall'interno, e poi gli sforzi fisici a cui lo sottoponevano che gli strappavano i muscoli e gli mozzavano il fiato.

Provò a divincolarsi, ma aveva mani e piedi legati.

« Kadaj. »

La voce soffusa di Yazoo. Voltò la testa e lo trovò legato ad un lettino, proprio com'era lui, alla sua destra. I suoi occhi erano confusi, ancora annebbiati dal dolore della scossa, e la sua mente era un pantano da cui Kadaj si ritrasse per non rimanerne invischiato.

Il mugolio dolorante di Loz lo costrinse a voltarsi nuovamente.

La siringa conficcata nel suo braccio si svuotò lentamente e nello sfilare l'ago la donna sorrise.

Poi passò ad una seconda siringa e si avvicinò a Yazoo.

Lui non provò neanche ad agitarsi, e in ogni caso gli sarebbe stato impossibile fare qualsiasi movimento visto che mani e piedi erano legati al lettino.

« Via, via. » mormorò, dopo avergli tamponato il braccio con un batuffolo di cotone e del disinfettante. « Avrò finito prima che tu te ne renda conto. »

Yazoo non emise un gemito quando l'ago penetrò nella pelle candida, e la donna prese una terza siringa.

Kadaj la guardò con gli occhi grandi.

Non capiva. Perché dovevano fargli tutto quello, perché non potevano lasciarli andare? Che cosa avevano fatto di male?

Quando la donna poggiò il batuffolo sul suo braccio quasi sobbalzò.

Gli rivolse un sorriso e avvicinò l'ago alla pelle ma l'urlo di Loz le impedì di continuare.

Il bambino si agitava tanto che il lettino traballava, la bocca spalancata cercava aria e nei suoi occhi la pupilla era ridotta alle dimensioni di uno spillo.

Kadaj sentì il suo dolore, lo colpì in pieno come un pugno allo stomaco. E poi fu la volta di Yazoo. Il suo corpicino si inarcò e spalancò la bocca per gridare, ma non uscì alcun suono.

Il piccolo provò a tendersi verso l'uno e verso l'altro, urlando nella mente i loro nomi mentre quel dolore abbacinante rendeva tutto confuso, opaco.

Era anche peggio dell'elettroshock, era peggio di qualsiasi cosa avesse mai provato da quando era vivo.

I cuori dei suoi fratelli battevano impazziti, i loro visi erano maschere di dolore, e quando Kadaj si volse verso la donna supplicandola di aiutarli lei gli conficcò l'ago nella pelle e premette lo stantuffo.

Fu come se gli fosse stato iniettato fuoco liquido direttamente nelle vene. Il fuoco bruciò e bruciò, nutrendosi di tutto ciò che trovava lungo il suo percorso, ad ogni battito del cuore una rinnovata fitta lo faceva urlare.

Ogni sua appendice era in fiamme, il suo corpo era un fascio di dolore.

Ma qualcosa di ben più forte lo investì in pieno: il silenzio delle menti dei suoi fratelli.

Non c'era più alcun caos, non c'era più alcuna ordinata freddezza. Erano spente, e con loro Loz e Yazoo, immobili sui lettini.

« No! NO! »

Strinse i piccoli pugni e tirò, finché le cinghie che lo tenevano fermo non si spezzarono.

La donna scattò indietro ma non abbastanza in fretta, perché lui le saltò al collo prima che potesse fare qualsiasi altra cosa.

Ha ucciso i miei fratelli.” era l'unica cosa che riusciva a pensare “E io ucciderò lei.”

Le manine si strinsero intorno al collo di lei e lì rimasero anche quando cadde a terra, scalciando e cercando di spingerlo via. Ma era diventato inamovibile e ben presto lei non fu più in grado di ribellarsi.

Nell'ultimo disperato gesto provò a prendere il telecomando dalla tasca per dargli la scossa, ma lui ringhiò e strinse più forte.

Sentì un piccolo crack sotto le dita, poi la donna smise per sempre di muoversi.

Non appena fu certo che fosse morta – perché voleva che lo fosse – corse dai suoi fratelli, li liberò dalle cinghie e provò a scuoterli, con forza, chiamando i loro nomi.

Ma non si mossero.

Yazoo era bellissimo con gli occhi chiusi, la testa appena inclinata da un lato, Loz aveva mantenuto la sua espressione curiosa ma spaventata.

Con le lacrime che gli offuscavano la vista, accarezzò i capelli di Yazoo, il viso di Loz.

Il dolore e la rabbia lo spinsero fuori da quella stanza, il Mako puro al 100% scorreva nelle sue vene, bruciandole, distruggendole, ma dandogli anche la forza di cui aveva bisogno.

Il primo uomo che incontrò sulla strada lo sgozzò a mani nude, conficcandogli a forza le dita nella giugulare.

Il sangue lo ricopriva quasi interamente ma lui non aveva intenzione di fermarsi. Non avrebbe avuto pace finché non fossero morti tutti.

Suonarono allarmi, si alzarono urla di terrore, chiunque si mettesse sulla sua strada finiva inevitabilmente ucciso.

Non c'era pietà nei suoi occhi, non ce ne sarebbe mai stata. Nella mente aveva impressa l'immagine dei suoi fratelli.

« K232J! Fermati! »

Kadaj si voltò, e fu felice di vedere Lui. Un sorrisetto storto si aprì sulle piccole labbra.

S avvicinò di un passo e poi un altro.

« Fermo ho detto. » si fermò, ma non perché glielo aveva ordinato Lui. Voleva fermarsi. Voleva godere del momento subito precedente a quello in cui gli sarebbe saltato addosso. Immaginò di affondargli i denti nel collo e di allargare la ferita con le dita, di sentirlo urlare, di vederlo ai suoi piedi implorante. Immaginazione, così l'aveva chiamata Yazoo. Gli piaceva. Ora poteva capire Loz. « Io sono il tuo Creatore. Ti ho messo io a questo mondo. Tu sei figlio di una catena di singolari eventi che ti hanno reso l'essere perfetto. Sei unico. » l'uomo fece un passo avanti, Kadaj non mosse un muscolo. « Per tanti anni abbiamo provato e riprovato, ma niente sembrava mai funzionare. L'essere perfetto non era mai perfetto. Il primo con una mente troppo caotica, incapace di ragionare, il secondo privo delle più basilari emozioni umane. E poi tu, K232J. Il perfetto equilibrio di quegli elementi che abbiamo cercato invano di ricreare. L'iniezione di Mako che ti è stata fatta avrebbe potuto ucciderti, e invece ti ha reso più forte. Vieni con me, avremo il mondo ai nostri piedi. »

Gli occhi del piccolo, pieni di furia omicida, si fissarono in quelli scuri dell'uomo che gli tendeva la mano.

Si avvicinò, un passetto dopo l'altro, mentre Lui mormorava “così, da bravo”.

Quando gli fu abbastanza vicino gli sferrò un pugno all'addome che lo fece piegare in avanti, poi una ginocchiata dritta sul naso.

L'uomo mugolò e cadde a terra.

In un attimo gli fu sopra, lo afferrò per il bavero del camice e prese a sbatterlo e sbatterlo contro il pavimento. Loz era speciale. Yazoo era speciale. Loro erano perfetti.

Finché non si fu altro che sangue.

Agonizzante, il suo respiro gorgogliato era sintomo di morte, ma lui sapeva che poteva ancora sentirlo.

« Non mi chiamo K232J. » mormorò, ogni parola lenta e ben scandita affinché capisse. « Il mio nome è Kadaj. »

Poi smise di respirare, i suoi occhi spenti per sempre.

Kadaj si rialzò, lentamente, e si asciugò il sangue dal viso con il dorso della mano.

Adesso capiva tante cose.

Nei suoi occhi non c'era traccia di ingenuità, neanche l'ombra del bambino che era stato.

Rimase per un attimo in ascolto del suo corpo, il lento fluire del sangue nelle orecchie – un fruscio continuo che era una lunga e tenuta nota di fondo, il battere ritmico del cuore – un tamburo lento ma costante –, l'espandersi e il contrarsi dei polmoni e il conseguente afflusso e deflusso d'aria attraverso il naso – un sibilare sottile e quasi impercettibile –, e una sensazione nuova, dolorosa, intensa: il fuoco liquido che gli scorreva nelle vene.

Non ancora vivo.

Non di nuovo vivo.

Semplicemente vivo.

Loro l'avrebbero pagata. 

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The Corner 

Finalmente sono riuscita a pubblicare questa LUNGHISSIMA shot
(mi scuso profondamente per questo).
Con mia grande soddisfazione posso cancellare questo titolo dalla lista di "coming soon",
visto che si trovava lì da qualcosa come Marzo di quest'anno.
Ogni volta mi distraggo e pubblico altro,
l'ispirazione è una brutta bestia! 
Cara Fan Numero 1, attendo il tuo parere come sempre.

Chii

   
 
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