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Autore: donteverlookback    09/09/2016    1 recensioni
Finn è morto e Puck pensa a lui, all'amico che ha perso e non tornerà più indietro.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Noah Puckerman/Puck
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Finn prendeva sempre a calci le sedie.
Questo mi fa balenare quasi un sorriso mentre ripenso alle sue gambe lunghe e forti che le colpivano senza mai essere troppo violente: non era un tipo da scatti violenti, lui, lui le cose non le voleva rompere o le voleva aggiustare.
In questa, come in molte altre cose, era migliore di me.
Lui era buono, buono come nessuno era mai stato con me in tutta la mia vita. Lui mi aveva voluto bene da quando ci eravamo trovati, il primo anno del liceo, vicini e infreddoliti: lui era già altissimo per la sua età e io invece ero ancora piccoletto, magro, quell’ombra del fisico di mio padre che non mi si era mai scollata di dosso davvero. Si guardava intorno con uno sguardo così buono e ingenuo che mi era scappata una risatina e mi ero voltato dall’altro lato per non farmi notare; il fatto che non si fosse reso conto di niente però mi fece ridere più forte e in breve avevo preso a dondolarmi avanti e indietro sulla sedia. In tutto questo lui mi aveva guardato con biasimo e divertimento insieme. È un tipo pazzo, sembrava dire il suo viso, ma sembra divertente. Quando avevo finalmente ripreso fiato mi aveva chiesto << Faccio tanto ridere? >> Con quel sorrisetto a metà, quell’inarcarsi di un solo angolo della bocca che negli anni mi era diventato familiare come il mio riflesso allo specchio. Gli avevo detto di no e lui mi aveva immediatamente perdonato quella risata di scherno con una prontezza assoluta.
Sento gli occhi bruciare mentre guardo la sedia nell’angolo dell’aula canto e ripenso al giorno di quattro anni prima, quando mi aveva preso a pugni con una furia cieca; non ero riuscito a colpirlo neanche allora, non potevo: lui era quello buono e se mi picchiava voleva dire che aveva una ragione maledettamente buona. Quando aveva scoperto di me e di Quinn e di tutta quella faccenda del bambino – la mia Beth, la mia piccola Beth che con Shelby sta vivendo la vita che io e sua madre non avremmo mai potuto darle – non aveva incominciato a pestarmi come avrei fatto io, che innamorato com’ero di Quinn (anche se non sapevo fosse amore, non avevo mai provato niente per una ragazza che andasse al di là della semplice attrazione fisica) avevo solo pensato a ferirlo ancora e di più. Lui ha preso a calci una sedia e se n’è andato.
 La sua ala. Ero la sua ala, diceva, in campo e fuori, il quarterback e il suo line-man preferito, Finn e il suo migliore amico, Hudson e Puckerman che erano nomi collegati ma non solo. Per me ormai il nome Finn Hudson vuol dire casa e famiglia, vuol dire sorrisi caldi e abbracci.
Pensava fossi la sua ala, ma è lui, lui che è la mia. Lo è tuttora, il suo pensiero che mi sostiene anche se non posso più averlo con me. Finn non mi giudicava se facevo il bullo o se andavo a letto con le ragazze e non mi ha detto niente quando sono stato in riformatorio, limitandosi a riaccogliermi come se non fosse successo nulla. Da quel momento mi aveva sempre guardato le spalle e tirato fuori dai casini.
Quando ho scoperto che era innamorato di Rachel ho giurato che l’avrei preso in giro fino alla morte perché erano una di quelle smielate coppie da musical che lo sai che avranno il loro lieto fine al di là di ogni cosa.
Forse è quel pensiero che mi fa questo effetto, l’idea che non ci sarà il lieto fine, o il fatto che mentre rivedevo tutto questo ho cominciato a prendere a calci le sedie, oppure il giubbotto da football che ho addosso, così grosso che non escono fuori le mie mani… forse è tutto questo a farmi piangere e urlare. Forse è la targa appesa alla parete con la sua foto dell’annuario, o forse il professor Schuster che mi abbraccia per tenermi fermo. So solo che era Finn a dirmi cosa fare, e adesso sono solo e vuoto.


 
  
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