“Let the smoke lie back in the dark”.1
Le sfumature di un cielo
settembrino – azzurri di zaffiro, celesti di acquamarina, violetti di
ametiste, e rosa, sì, mille sfumature di rosa, come il corallo, come un fiore
di camelia appena sbocciato, come la sua pelle – si rincorrono all’orizzonte, sfumandosi ed
accavallandosi tra nuvole candide e gli ultimi raggi di sole.
Le mattonelle rossicce di
cotto che lastricano il mio giardino emanano calore.
Continui schiocchi e
scricchiolii – animaletti, insetti, il vento tra le chiome appena
appassite degli alberi – accompagnano il lento fluire delle
spirali di fumo grigiastro della mia sigaretta.
Mi dondolo su una vecchia
sdraio di vimini, pronta a cadere a pezzi da un momento all’altro, giusto per
farmi atterrare sul grande cactus dietro di me, addossato al muro, grezzo,
grigio perla, sotto alla finestra.
La luna, in lontananza,
comincia la sua lenta avanzata, il suo quotidiano cammino in cielo, salutandomi
da dietro ad una ancor verdeggiante collina.
Le prime stelle cominciano a
far capolino, insieme alla loro Signora, brillando, intermittenti, lontane,
bellissime, eterne.
Spengo la sigaretta, ormai
finita, nel posacenere di coccio marrone accanto a me.
Osservo con finta noncuranza
il pacchetto verde menta ai miei piedi e, accanto ad esso, l’accendino azzurro:
perché non fumarne un’altra?
Faccio spallucce e, senza
batter ciglio, accendo la seconda.
Di qualcosa dovrò pur
morire, no?
Meglio morire per qualcosa di
serio, dopotutto, che per tutto questo invincibile e pernicioso languore.
Tiro una boccata di denso
fumo biancastro, sorridendo, quasi, al cielo, coloratissimo e spettacolare.
Non so per quanto tempo
rimango lì, da sola, a fumare, pensare, sognare, languire.
So solo che le sigarette nel
posacenere accanto a me diventano molte più di due.
So solo che tutti quei
meravigliosi colori del cielo vengono progressivamente oscurati dal buio della
notte che avanza, in punta di piedi, silenziosa e letale.
Luci delle case vicine,
lampioni e fari di macchine squarciano, di tanto in tanto, l’oscuro manto di
silenzio ed inchiostro della sera.
Le cicale, nonostante
l’estate sia finita, continuano a cantare.
Un ronzio insistente e
fastidioso è ciò che mi distrae dai miei pensieri e dalle mie meditazioni: una
coppia di calabroni ha scelto la mia vetrina di ingresso, e la luce giallastra
accanto ad essa, come luogo di accoppiamento.
Sospiro, prendo il pacchetto
e rientro.
Ci sono cose che, ogni sera,
al calar della sera, lascio su quella vecchia sdraio.
Ci sono pensieri, idee,
intenzioni, buoni propositi, sospiri e desideri.
Soprattutto desideri.
Desideri di telefonate mai
fatte, mai ricevute, di messaggi scritti ma mai inviati, di parole, fiumi
interi di parole, pensate e ripensante mille volte, ma mai dette.
Parole che, però, un giorno
mi dovrò decidere a dire.
Confessioni da fare e
desideri, ancora, da esprimere.
Su quella sdraio, ogni sera,
lascio ricordi di profumi forti, penetranti, intensi, che ti tolgono il sonno
e, con esso, il senno.
Lascio brividi, cascate di brividi,
innescati da sguardi diretti, forse fin troppo, attraverso stanze, foreste e
vallate intere.
O, a volte, attraverso solo pochi
centimetri.
Lascio la gioia di risate
condivise.
Lascio tante, troppe cose, su
quella sdraio, alla sera, prima di rientrare in casa e tornare al mio
cellulare, al mio PC, alla routine di tutti i giorni, sempre uguale ma
eternamente diversa.
Nella speranza, forse, che
quei profumi, quegli sguardi, quelle risate, un giorno, possano entrare a far
parte di quella stessa routine.
Il titolo della storia è lo
stesso di un singolo di E. Cochran (1958).
1 “One Cigarette”,
E. Morgan.