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Autore: RLandH    10/09/2016    2 recensioni
Le città dimenticate era il modo carino con cui si era preso a chiamare i distretti del Muro Maria, dopo la caduta di Shingashina e la perdita dei territori compresi tra la prima e la seconda cinta muraria. Il Muro Rose aveva aperto le sue porte a quasi tutti gli abitanti che avevano cercato rifugio – sbarazzandosene poi nell'immediato dopo – ma la notizia della caduta non era arrivata alle altre città fortifica perché potessero salvarsi.
Erano stati letteralmente lasciati a morire, dimenticati.
Nascosti sotto la povere di mostri senz'anima e pile di cadaveri.
Finn ci aveva pensato, lo doveva ammettere, a tutte quelle centinaia di persone che erano rimaste lì a marcire e morire d'inedia, fame e che altro.

Si, diciamo che per tutta la lettura (e visione) di SNK mi sono chiesta: ma agli tre distretti, del Muro Maria, cosa è successo?
E da lì e venuta fuori davvero tanta ... tristezza.
Un bacio a chiunque volesse leggere.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Erwin Smith, Levi Ackerman, Nanaba, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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M O R I T U R I    T E    S A L U T A N T

 

 

(Prologo)

P O S T  F A T A  R E S U R G O

 

 

(850)

Li aveva scorti ben prima che fossero riconoscibili, attraverso le lenti sottili degli occhiali aveva visto delinearsi all'orizzonte tre figure in sella a cavalli. Poteva identificare in loro uomini anziché ombre ogni battito di ciglia in più, come essi svelti si avvicinavano, accompagnati dallo scalpitio dei cavalli, frenetici in una qualche maniera; erano l'unica cosa che si vedeva per miglia di verde selvatico.
Finn Lech, il soldato, li stava aspettando; per nulla tubato da quella furia che sembrava animare le bestie e forse anche gli uomini che li governavano. Poteva anche solo immaginare la frustrazione e l'impellenza che bruciava nelle oro ossa per essere stati confinati a quel insignificante lavoro, quando era altrove che il vero spettacolo del loro mondo andava in scena. Erano tutti, come, alienati lì, non lontani da Trost, fin troppo distanti dal processo al ragazzo titano. Finn non riusciva neanche a pensarla nella sua mente qualcosa del genere, a sovrapporre l'immagine di quei deformati corpi ignudi a quelli di un uomo vero, che magari poteva provare dolore … Rimorso …


S'erano riversati tutti lì, la Gendarmeria, la Guarnigione e la Legione, tutti a combattersi le spoglie di quello strano scherzo della natura. Ma non lui … E non loro.
Trost era il posto più a sud dove il naso di Finn si fosse mai ficcato, era nato in un modesto villaggio nella parte settentrionale del territorio del Muro Rose, aveva fatto l'addestramento sempre in quelle zone ed era stato in seguito assegnato al distaccamento del gruppo di ricognizione della città di Nedlay – la città fortificata a settentrione – che si affacciava con spavento sui territori persi del Muro Maria.

Faceva freddo e sembrava che anche i giganti condividessero questo pensiero. Ve ne erano, sì certamente, molti di più dopo la colonizzazione delle terre che appartenevano al genere umano, ma in confronto alle storie che aveva sentito sul distretto meridionale non sembrava così male. Nessun colossale era mai apparso lì .
Poi, nella seconda spedizioni della sua vita, Finn aveva visto l'impossibile.
“Soldato semplice Finn Lech?” aveva chiesto una voce risvegliandolo dal suo vagabondare con la mente. Aveva sollevato il viso per incrociare lo sguardo di una giovane donna, e come Finn si era chiesto, poteva non guardarla?

Riccioli biondi ad incastonare un viso di bimba, efelidi a tormentarne le gote e cosce strette su una cavalla dal manto lucido bianco. Occhi belli da lasciarlo senza fiato. Sopra la blusa bianca, spiccava la giacca del corpo militare, cucite sul petto le Ali della Libertà e sul braccio spiccava come una fiaccola nella notte la fascia con il Giglio dei guaritori: un medico.
Finn aveva annuito per un momento spaesato da quella domanda, poi ripreso la consapevolezza aveva portato un pugno al petto ed uno alla schiena per salutare i nuovi venuti, come era convezione. “Aspettavo il Comandante Smith” era riuscito solamente a miagolare, mentre osservava la giovane scendere con un movimento fluido dal suo cavallo. “Peccato, hai trovato noi” aveva commentato uno degli accompagnatori della fanciulla. Finn l'aveva cercata, anche ella era una donna dai capelli biondi e le spalle larghe, in viso attraente, ma dalla corporatura androgina. “Soldato, è con un Tenete che parli” aveva invece fatto notare l'uomo che le scortava, molto più grande di loro, con i capelli che cominciavano a mostrare macchie grigiastre di senilità ed un espressione di pura boria cucita sul viso, anche sulla sua di manica spiccava lo stemma della gilda dei medici.
“Il Comandante Erwin Smith mi ha mandato per incontrarti” aveva commentato la fanciulla placida, con un tono amichevole, quasi a voler sollevare Finn dall'imbarazzo in cui era crollato. “Sono il Tenente Nina Müller” aveva detto quella, passando prima una mano per nascondere un ricciolo biondo dietro un orecchio che aveva poi allungato verso di lui, Finn l'aveva stratta spaesato e sconvolto.

Era nota bene la donna che in quel momento le si figurava al fianco, quasi lui non riusciva a sovrapporre la longilinea figura dal viso fresco che gli si palesava davanti agli occhi con la leggendaria legionaria che era sopravvissuta nelle terre dei giganti più di chiunque altro. Sola, per ventidue giorni, superando grandemente Cardina Baumesteir e Kuklo – qualcosa come settanta anni prima.
“Puoi capire che con il processo di Eren Jäeger, questa faccenda dovesse essere delegata” aveva ammesso la donna, in maniera diplomatica, annuendo, le mani sui fianchi ed un sorriso cortese sulle labbra, “A proposito, Finn, posso chiamarti Finn?” – aveva cominciato lei non dandoli comunque tempo di rispondere – “Perchè siamo qui?” aveva chiesto invece.
“Non vi hanno detto niente?” era riuscito a mormorare solamente Finn, spalancando le labbra, fin troppo carnose per un uomo, perplesso. “Come potrai capire, soldato, eravamo tutti un po' presi” l'uomo aveva avuto un tono di veleno nel richiamarlo, che gli aveva provocato un'ammonizione leggera, e forse fin troppo bonaria della fanciulla, che con troppa ilarità si era limitata a richiamarlo con solo il suo nome: Damien.
L'uomo non aveva tradito uno sbuffo infastidito applicandosi per scendere poi dal destriero, azione che era stata imitata anche dall'altra donna, “Stupiscici di prego, Finn” aveva detto quest'ultima con un tono allegro, passandosi una mano tra i capelli paglierini portati corti, “Ne ho bisogno” aveva aggiunto con una certa civetteria. “Loro sono il Dottor Damien Rosenberg e il Caposquadra Nababa Lahm” si era premurata di presentarli per bene il tenente Müller. L'uomo aveva allungato una mano verso di lui, che Finn aveva stretto meccanicamente, percependo una certa stizza nel suo interlocutore, al confronto dell'altra donna che aveva posto il pugno nel centro del petto, riconoscendo a Finn forse un onore che non meritava.
Lui aveva cercato di mantenersi composto e calmo, ignorando il sudore sulle palpebre, mai era stato bravo in mezzo alla gente, specie quando ne conosceva di nuova, paradossalmente non ne aveva mai incontrata così tanta come nelle ultime due settimane.


“Allora, Finn, perché siamo qui?” aveva chiesto nuovamente il Tenente, c'era genuina curiosità nel suo tono come se non provasse fastidio ad essere confinata lì nei pressi di Trost, al quartier ex generale della ricognitiva, anziché a Stohess dove chiunque, Finn, compreso avrebbe voluto essere.
“È per Briemer” aveva ammesso lui con estrema semplicità lui, un leggero tremore alle dita, dicendosi che in fondo annacquare il brodo non avrebbe comunque ottenuto vantaggi.
Il viso del Tenete Müller s'era fatto per un momento di un pallore degno d'una candela, poi si era lasciato crucciare, una ruga di perplessità aveva attraversato verticalmente la fronte, “Non è una delle Città Dimenticate?” aveva chiesto Damien.

Le città dimenticate era il modo carino con cui si era preso a chiamare i distretti del Muro Maria, dopo la caduta di Shingashina e la perdita dei territori compresi tra la prima e la seconda cinta muraria. Il Muro Rose aveva aperto le sue porte a quasi tutti gli abitanti che avevano cercato rifugio – sbarazzandosene poi nell'immediato dopo – ma la notizia della caduta non era arrivata alle altre città fortifica perché potessero salvarsi.
Erano stati letteralmente lasciati a morire, dimenticati.
Nascosti sotto la povere di mostri senz'anima e pile di cadaveri.
Finn ci aveva pensato, lo doveva ammettere, a tutte quelle centinaia di persone che erano rimaste lì a marcire e morire d'inedia, fame e che altro.
“Sì, il forte settentrionale” aveva risposto Finn, l'avamposto che un tempo aveva preceduto come cinta esterna Nedlay, la sua città.
“Si hanno notizie da Briemer?” aveva chiesto la giovane Tenente, passandosi una mano sui capelli biondi, per allontanare i riccioli, sfuggiti alla presa ferrea della treccia, che fastidiosi scendevano sul viso. La sua voce tremolava un poco, mentre teneva una mano sul braccio di Finn, come se nel citare quella città lui le avesse restituito qualcosa. “Dopo cinque anni?” aveva chiesto Nababa, questa volta, la sorpresa nel suo viso era dipinta con caratteri netti.

“Immaginavo che dalla Capitale non fossero uscite notizie dei Valorosi Uomini di Briemer, ” si era ritrovato costretto a confessare Finn, rendendosi conto che anche se la notizia fosse stata nota a quattro venti difficilmente avrebbe trovato orecchie pronte ad accoglierla, non quando il mondo era stato sconvolto da Trost e dal Ragazzo Titano.
E poi, effettivamente, la segretezza era sembrata la parola chiave, da Nedlay alla Capitale; vi erano stati un susseguirsi spaventoso di permessi ambigui e occhi cavi che non avevano guardo nè fatto domande almeno fino alla Capitale, sotto lo stretto sguardo della Gendarmeria – mai stata così ligia – e le curiosità.
Ed ovviamente la preoccupazione, Finn l'aveva vista nei nobili, balenare nel viso mentre con gli occhi studiavano quegli uomini così rari.
E la dottoressa che gli aveva visitati lì, ma da quel che Finn aveva compreso i sentimenti in ballo in quel momento erano stati di natura piuttosto diversa, non che gli fosse stato concesso porre domande. In verità Finn non aveva potuto ficcanasare fino a che il Caporale Schitz non gli aveva comunicato che gli uomini di Briemer erano ufficialmente affare della Legione.
“Un manipolo di uomini è partito da quella città, approssimativamente tre settimane dopo la caduta di Shingashina ed è arrivato a Nedlay undici giorni prima di … Trost” aveva gettato fuori frettolosamente Finn, cercando di comunicare quante più delle nozione che aveva annoverato nel corso di quelle settimane, notando gli sguardi assenti e confusi dei suoi interlocutori.
Due città, due eventi, che avevano cambiato la storia dell'umanità loro conosciuta per sempre.
“Devo parlare con loro” era stato l'unico commento del Tenente, Finn poteva notare una consapevolezza diversa esserle piombata sul viso e sulle spalle, qualcosa che al solo nominare Briemer era stato una fiammella ed ora invece era divampato in lei come un incendio. Poteva comprendere lui tutto quel morboso desiderio di sapere, territori esterni, giganti, nulla di più che argomenti prelibati per i legionari, lui stesso forse senza troppa grazia aveva fatto molto domande, ma c'era qualcosa di diverso in lei.
Quasi sperasse di ricevere qualcosa.

 

Lui aveva annuito, “Solo, Tenente ...” aveva cominciato Finn, attirando nuovamente l'attenzione della giovane donna su di lui, “Deve essere preparata a loro” aveva aggiunto, mentre s'occupava di scortarli dentro tutti e tre.

Quando Finn li aveva visti per la prima volta aveva creduto di vedere morti camminare sulle gambe, bianchi, scheletrici e rimangiati, parevano cadaveri vomitati, insozzati di terra, sangue e sudore.

Chiamavano la Legione quelli che andavano a morire, ma quelli … quelli erano morti.
Morti con orbite secche e visi spigolosi, abiti a brandelli, lerci loro nei corpi, un miracolo ambulante, l'olezzo della morte.

Il Tenente avrebbe incontrato creature più simile agli umani di quelli che s'erano palesati a lui, spettri pallidi nell'imbrunire del giorno, braccia troppo sottili sollevarsi per miracolo verso il cielo per chiamarli.
Erano stati nutriti, lavati e rivestiti nel lungo tratto di strada in cui Finn gli aveva accompagnati, da Nedlay alla Capitale, e mentre i suoi compagni erano tornati indietro lui aveva proseguito fin lì, all’ex quartier generale. E ricordava il terrore lungo la strada, con l'unica scorta di una quanto mai più impressionata Gendarmeria, ed il vociare confuso di uomini che Finn non credeva potessero parlare, si era a loro annunciato la catastrofe: il Colossale a Trost. Il panico che aveva assalito il Caporale della Gendarmeria, il rosso, che aveva quasi rischiato di farli tornare indietro, contravvenuto a tutti gli ordini. Finn, gli uomini della gendarmeria che erano stati arruolati come accompagnamento, tutti si erano lasciati prendere dal panico, si erano fatti divorare dalla paura, timorosi lungo la strada di incontrare i giganti, ma non loro, occhi vitrei e cuori morti. Le loro espressioni pallide non erano mutate d'un solo battito e tale era rimasta dopo la notizia della chiusura della breccia. Stanchi di vivere, provati fino al punto di non percepire più timore.
Li aveva visti entusiasti, doveva ammettere Finn, per il pane raffermo e l'acqua calda a Nedlay, quello si.
Nessuno li aveva avvertiti del Ragazzo Titano, lui doveva dirsi davvero curioso della loro reazione non appena qualcuno li avesse informati, una curiosità che doveva ammettere forse fin troppo nociva.
 

“Raccontami tutto quello che sai di loro” aveva richiesto il Tenete Müller, mentre conducendo il suo cavallo dalle redini si applicava per legarlo all'abbeveratoio, Finn aveva potuto scorgere sulla schiena della bestia una pezzatura accennata e castana, come piccole lentiggini sul manto. Mai bestia era apparsa più adatta. “Morti che respirano” si era deciso a rispondere, con gli occhi bassi.
Lo siamo tutti, avrebbe dovuto dire lo sapeva, ma non poteva che sentirsi vivo nell'incrociare quell'ammasso di carni cicatrizzate, deturpate e menomante. Non sembravano umani, neanche più.
E poi aveva raccontato alla donna quel che aveva carpito di loro, oltre che l'assurda marcia a cui i capi degli ordini militari gli avevano costretti per trovare a chi sistemargli. Li avevano affidati al Comandate Nile Doak della Gendarmeria, che aveva preferito porli sotto la custodia di Erwin Smith, che certamente ne avrebbe saputo trovare un uso migliore affinché recuperasse da loro ogni utile informazione. Il Comandante della Legione aveva ripiegato sul Tenente Müller, ufficiale medico e fino a quel momento detentrice del più lungo tempo fuori dalle mura senza risorse.
“Sono stati controllati, dal punto di vista medico?” aveva chiesto lei, lanciando uno sguardo a Damien, “Li abbiamo ricuciti un poco e sistemati al meglio a Nedlay” aveva risposto lui con un certo orgoglio, “Ed un medico alla Capitale ha assicurato non avessero all'interno morbi contagiosi” aveva aggiunto poi con un tono un po' più basso, “Ma anche la Legione deve controllare” aveva stabilito poi con fierezza certa, esibendo con orgoglio le sue ali cucite sulla giacca.
“Andiamo, io e Damien li controlleremo bene” aveva stabilito il Tenente, riprendendo una lucidità brutale. “Siete venuti da soli?” aveva chiesto Nababa, affiancandolo, era più slanciata di lui e forse più spaventosa, “No, degli uomini della Gendarmeria ci hanno accompagnati” aveva ammesso con onestà lui, mentre Nina Müller, seguita da Damien, si infilava all'interno del castello.
“Uomini sotto il Caporal Maggiore Schitz” aveva ammesso poi Finn quasi distratto, ma quelle parole avevano fatto irrigidire la schiena della giovane.

 

 

 

 

(845)

Il caos che albergava quel giorno, probabilmente lo avrebbe ricordato negli anni a venire, se mai ne avesse avuti ancora da vivere. Onestamente, non ricordava una tale inquietudine e confusione, se non paura, nuda e cruda, serpeggiare nel suo ventre, nelle sue ossa, quando per la prima volta aveva valicato la porta occidentale e s'era lasciato alle spalle i territori del Muro Maria, ma quello era avvenuto prima di Nedlay, prima di valicare la lunga strada per raggiungere Briemer nel gelido settentrione.
Ed ora si tornava indietro, si tornava a casa e sembrava spaventoso.
Chi sa se suo padre aveva saputo che non era più nelle Mura Rose.
Chi sa se Nina, bella con gli occhi luminosi, si era messa al sicuro.
Chi sa se i suoi compagni ripartiti qualche settimana prima ero arrivati sani e salvi alla seconda porta settentrionale.
Chi sa se sarebbero arrivati anche loro.

 

Aveva passato le mani sul collo del suo cavallo, che aveva un manto scuro ed era innervosito da tutta quella confusione, composta di urla, isterismi, gente sconvolta, lacrime a fiotti e caos. Disperazione. La miseria non sembrava aver ancora cominciato ad albergare, così come la fame, ma erano prossime. Il fiato della morte era sul collo di Briemer, aspettando di prendersela, non ci sarebbe voluto molto, una settimana, un mese ed un anno e tutti coloro che quel giorno avevano preso una scelta sarebbero morti.
Forse anche loro, che avevano preso un'altra via.
Era stato fuori, aveva visto quel mondo, voleva illudersi di poter andare dentro e riuscire a sopravvivere.

Aveva sollevato lo sguardo ed aveva visto una donna, forse l'aveva incontrata durante la frenesia di quelle giornate dove tutti i visi erano sembrati ombre confusionarie o tutti uguali, o forse prima della missione verso l'avamposto – oltre le Mura Maria, che aveva predisposto il distaccamento della Legione di Briemer – quando ancora tutti i dettagli erano definibili ed interessanti.

Era una donna dai capelli scuri, annodati che scendevano sulla schiena e sul ventre. Indossava un abito spento ed il viso era segnato dalle lacrime e dal dolore, mentre baciava ripetutamente la fronte di un giovane ragazzo che sembrava essere così piccolo nelle sue braccia. Il giovane sembrava essere una memoria più vivida e definita, con i capelli castani e gli occhi di un grigio profondo, se lo ricordava quando aveva visto Leon passargli le mani tra i capelli.
Il Sergente Leon Fischer con quella gamba offesa che aveva detto che li avrebbe raggiunti – menzogne di miele.

Il ragazzo aveva stretto una delle mani della donna e se l'era portata alle labbra per baciarne le dita, in un intimo gesto d'affetto; avevano una curva simile del viso, lo stesso incarnato roseo ed un naso grazioso, non bisognava avere un particolare acume per notare che le somiglianza si estendevano, erano certamente parenti: madre e figlio, forse?
Poi lei gli aveva sussurrato qualcosa all'orecchio ed era scappata svelta, mentre lui era rimasto per un momento immobile, il viso s'era fatto esangue. Aveva abbassato lo sguardo ed aveva fatto pochi passi, prima di sollevare nuovamente gli occhi. Indossava abiti pesanti per la stagione estiva in cui erano – parlando di Breimer certamente, che anche nel pieno dell'estate sembrava baciata da un sole freddo– ma in un certo senso previdenti all'autunno, e forse l'inverno, teneva una bisaccia a tracolla, molto scarna.
Si erano incrociati con i loro occhi ed essi erano grigi come un cielo plumbeo e minaccioso, quelli del ragazzino, un adolescente dal viso sbarbato e fanciullesco. Li aveva visti occhi così, lui doveva ammettere, su un altro uomo. Levi.
“Ei ragazzino” la voce del Caporale Schwarz era stata per un momento l'unico suono che lui era riuscito a sentire. Aveva sopraffatto le urla, il vociare ed il caos di quell'animale disperato che era la popolazione di Briemer, davanti all'ormai più palese consapevolezza di essere nulla più di un corpo morto che putrefaceva.
L'aveva cercata con lo sguardo, trovandola sulla sella di una cavalla non proprio ottimale, con i capelli gonfi raccolti sul capo ed un berretto a coprirli. Vedeva solo le spalle, coperte dalla mantella di pelliccia- perché a Briemer non usavano quella verde scura di rappresentanza.
Una parte non così considerevole della città aveva deciso di tentare la fortuna nei territori del Muro di Maria, aveva deciso di non lasciarsi morire di fame e se la fiaccola della speranza s'era accesa era merito del Caporale Schwarz ed ora era suo dovere portarne il peso, su una cavalla malandata che aveva rubato – assieme a quelli che erano riusciti a prendersi – a gente che se ne abrogava il diritto.
I giganti avrebbero asserragliato ogni cosa e Briemer sarebbe rimasta lì ad aspettare morendo di fame che qualcuno venisse a salvargli.
“Non verranno” aveva professato il caporale Schwarz quando la notizia era arrivata furiosa e spaventosa fino a loro – non erano passati che pochi giorni da quell'avvenimento e nella sua memoria si era già fossilizzato come un passato perduto.
No, non sarebbero venuti, questo però era indiscutibile.

Briemer sarebbe morta di fame e di stenti. Si sarebbero mangiati tra loro e poi i vivi sarebbero morti lo stesso.
“Vogliono mangiarsi i cavalli, ma tanto moriranno di fame, mentre a noi servono” non ricordava chi l'avesse detto ma s'era aperta una vera guerra per le risorse. No, non era stato glorioso e non era stato neanche giusto, ma avevano saccheggiato e s'erano appropriati di ogni cosa.
“Briemer morirà per certo, forse noi no” gli aveva detto il Caporale la notte prima, una camicia sottile ed la brezza estiva a pungere la pelle, lì dove anche nell'estate s'annidiava il freddo. Lo aveva trovato a guardare le stelle, curioso di sapere quando avrebbe potuto guardare nuovamente un cielo senza sentire il respiro della morte solleticargli i capelli.
“Io non dovevo essere qui” la sua era stata una risposta non voluta, che aveva sputato poi fuori con una mezza risata, fuori luogo, fuori clima, fuori tutto. Doveva essere a Nedlay, o da suo padre, o da Nina a chiederle di sposarlo, come non aveva fatto quella notte in Capitale.
Nina che era di istanza a Shingashina e che forse ora era morta – più di lui.

“Non sono un ragazzino” la voce del ragazzo lo aveva risvegliato, era sicuro di sé, e troneggiava con lo sguardo gli occhi della donna, che aveva abbozzato un sorriso così precipitosamente materno, il Caporale Schwarz che mai si esponeva troppo nei sentimentalismi.
“Lo vedo” aveva ripiegato lei, “Come ti chiami?” una domanda semplice che aveva per un momento reso molle il ragazzo, “Kurt” era stata la stretta risposta.
Kurt era un ragazzino senza nessuna esperienza, che andava incontro alla morte, lo vedeva lui, lo vedeva il Caporale e forse lo vedeva anche lo stesso Kurt.
“Hai mai provato la manovra?” aveva chiesto la donna, quello aveva negato, “Sai maneggiare un coltello?” aveva chiesto ancora, ottenendo una reazione positiva – lui, che lo osservava, non ci credeva molto.

Il Caporale s'era voltata verso di lui, occhi di un castano così particolare, “Bene, sta attaccato a quel tizio” gli disse, ammiccando a lui, che le aveva rivolto uno sguardo perplesso, “Sembra un imbranato, ma potrebbe salvarti la vita” aveva detto, prima di sorridere a Kurt un'ultima volta e dare un colpo al suo malandato destriero affinché recuperasse metri e si mettesse in prossimità dell'inizio di quella caotica marcia.
Kurt s'era voltato verso di lui ed anche se era appiedato si era immediatamente accodato al suo cavallo, senza dirgli una parola. Lui lo aveva guardato un ultima volta ed aveva annuito. Non era più piccolo di alcuni cadetti che aveva visto lasciare le mura con la Legione, era solo l'assenza della giacca, di un qualche ordine, a far sembrare quella situazione più spaventosa.

Poi la porta di Briemer si era sollevata verso l'esterno – o meglio l'interno – verso una morte composta di corpo obbrobriose e bocche spalancate con denti insozzati di sangue.
E l'enorme essere che erano loro si era messo in movimento, accompagnato dallo strepito e dalle urla dei cittadini di Briemer, qualcuno senza nulla s'era aggiunto all'ultima ora e qualcuno era fuggito poi troppo spaventato per andare fino in fondo.

Lui aveva chiuso gli occhi e trattenuto le lacrime, fino a che non aveva sentito il rimbombo della porta chiudersi alle sue spalle, lasciando che fosse il suo cavallo a guidarlo.
Avevano perso le mura, perso le loro sicurezze.

Era la morte ora la loro unica compagna.

La distanza tra il distretto più esterno a quello medio non era abitualmente molto lunga da compiere, ma non quella da Briemer e Nedlay, attraversata da montagne e valli anguste.

Ed ora giganti.
“Forse siamo morti” aveva pronunciato con una certa cupezza, aprendo gli occhi lentamente e per un momento – un unico istante - aveva avuto un mancamento.

Nina, lì al suo fianco.

Ma s'era accorto di quanto quei ricci fossero mosci, l'oro del capelli più stopposo ed il viso sprovvisto di ogni raffinata eleganza. Quella era una ragazzina secca, dai capelli paglierini e priva dei luminosi occhi della donna, ragazza, che amava.

Mancavano le Ali, notò poi, lì sul dove la Legione aveva lo stemma delle ali incrociate, la giovincella portava due rose.

“Addio, Briemer, coloro che vanno a morire ti salutano” aveva esclamato lei, con un sorriso così verace sulle labbra da aver dato a lui la sensazione che non avesse capito nulla.













 

GRAZIE MILLE A CHIUNQUE SIA ARRIVATO FIN QUI!
(Una precisazione importantissima da fare: quando ho cominciato a pensare questa storia non avevano ancora scoperto dell'esistenza di “The Harsh Mistress of the City” e l'ho detto soltanto perché ho scoperto che la mia idea non era alla fine poi così originale, ma non riuscivo proprio a smettere di pensare: ma a quei poveri sfigati nei distretti che è successo?)

Allora, si, per questa “cosa” prendetevela con Chemical Lady che dopo avermi minacciato più volte di cose orribili, pur di farmi pubblicare si è offerta di betarmi.
E le chiedo scusa, come chiedo scusa a voi, per la parte narrata dal punto di vista di Finn che è così 'analitica' che ha fatto schifo pure a me scriverla, ma onestamente mi serviva un esterno e ve lo prometto: fin non farà più da “narratore” – forse.
E visto che questa “cosa” ha qualche citazione latina (Coloro che vanno a morire ti salutano e Dopo la morte risorgo; gli trovavo entrambi adatti) diamo a Cesare quel che è di Cesare [Che in orgine non è stato detto in latino, ma shh]: il meraviglioso Tenente Riccioli d'oro (Perifrasi per non scrivere la u con i puntini), il dottor Damien ed il citato Caporal Maggiore Schitz appartengono a Chemical Lady.
La dottoressa Meyer è condivisa invece.
Il resto – che ovviamente non è di SNK – è mio, sebbene il Caporale Schwarzt abbia fatto un cameo sempre nella storia di Chemical Lady.
Riguardo ai personaggi indicati avete trovato Nababa, Erwin e Levi. Sfortunatamente i primi due avranno un ruolo davvero marginale, il terzo no – come potete intuire già dal fatto che sia stato citato da qualcuno – anche se forse ci vorrà tempo.
Io ringrazio chiunque sia arrivato fin qui, chiunque voglia recensire (mi farebbe un immenso piacere) e chiunque voglia imbarcarsi con me in questa lunga diaspora, che no, vi premetto non racconterà di cose belle.
Grazie ancora,

RlandH

Ps- IRREFUTABILE PER SEMPRE
(scusa ma irrefutabile fa troppo cagare il cazzo e la gente poi si ferma, lo cerca su google e perde il filo della narrazione – cit. Chemical Lady).

 

 

 







 

 

   
 
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