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Autore: Claire77    11/09/2016    3 recensioni
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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1 - It’s a long story
 
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere. Era strano che, nonostante il tempo fosse l’unica moneta di cui non aveva mai penuria, non si sentisse per nulla pronto a quel passo. Si era appena liberato di Adam, aveva appena iniziato a provare qualcosa per Jo. Era troppo presto per perderla.
“Allora?”, lo incitò Jo, e il suo sguardo fermo gli perforò la schiena. Henry fece un sospiro e finalmente si voltò. La mano che reggeva ancora quella foto incriminatrice stava tremando. Il suo istinto di autoprotezione, perfezionato attraverso i secoli, stava già mettendo a punto delle teorie alternative che avrebbero potuto spiegare quella foto. L’uomo immortalato in bianco e nero poteva essere suo padre (in fondo, non era raro che padre e figlio si assomigliassero molto, no?), di conseguenza la donna poteva essere sua madre, e il bambino lui stesso. Lanciò uno sguardo a Abe e lui sembrò aver seguito per filo e per segno il corso dei suoi pensieri, perché lo ammonì con i suoi occhi acuti. Non ci provare neanche, sembrava volergli dire. Abe aveva sostenuto sin dall’inizio l’idea che lui doveva trovarsi un confidente, e Jo era stata la sua candidata preferita praticamente da sempre. Probabilmente desiderava anche che si trovasse una compagna per quando lui… Henry interruppe quel ragionamento, incapace di portarlo a termine. Non poteva prendersi carico del pensiero della morte, non molto lontana, di suo figlio, non in quel momento in cui la vita che si era costruito a New York era appesa a un filo.
“È meglio se ti siedi”, disse Henry, e fece per indicarle la poltrona vicino alla scrivania, ma poi ci ripensò e la indirizzo verso le scale: “Anzi, è meglio se andiamo di sopra”. Nel caso in cui Jo l’avesse presa male, era meglio che la sua reazione non fosse esposta attraverso le vetrine del negozio.
Jo annuì con un cenno contenuto del capo, e un sospiro trattenuto, segno che stava perdendo la pazienza. Henry non si illudeva. Sapeva di non poter tenere a bada Jo ancora a lungo, e sapeva anche che si stava aggrappando a ogni singolo secondo di tempo per trovare una via di fuga. Era più forte di lui. Nonostante il desiderio di confidarsi e i sentimenti di affetto (avrebbe mai più utilizzato la parola amore?) che provava per Jo, il pensiero di quello che era successo con Nora continuava a tormentarlo anche a distanza di due secoli.
Entrarono in casa. Jo, con il suo sguardo attento di detective, si guardò brevemente attorno, anche se era già stata lì una volta. Si sedette sul divano e Henry prese posto nella poltrona di fronte a lei. Posò la foto sul tavolino tra di loro. Jo lo osservava, in silenzio. Aveva sicuramente notato il suo nervosismo, la sua mano tremante, il sudore sulla fronte. No. Era troppo tardi per inventarsi una delle sue solite scuse. L’unica alternativa era raccontarle la verità. In caso di emergenza (nel caso, cioè, Jo lo avesse preso per pazzo e avesse chiamato il manicomio), avrebbe sempre potuto buttarsi dalla finestra, o tagliarsi le vene, per poi fuggire il più lontano possibile.
“Qualcuno vuole del thè?”, chiese Abe per rompere il silenzio che si stava accumulando secondo dopo secondo. “Anche se, dato quello che stai per ascoltare, Jo, forse sarebbe appropriato qualcosa di più forte”.
“Henry?”, lo incitò Jo, e puntò i suoi occhi indagatori su di lui, “Sto aspettando”.
Henry distolse lo sguardo, cercò aiuto in Abe, che alzò le sopracciglia a mo’ di incitamento, poi tornò a guardare Jo, aprendo la bocca più e più volte senza riuscire ad articolare parola.
“È complicato”, riuscì a dire alla fine.
Jo quasi sbuffò per l’impazienza e si sporse sul tavolino verso di lui.
“Non osare! Non osare dirmi che è complicato. Questa solfa l’ho già sentita più di una volta. E io non ho mai insistito. Sono passata oltre su molte cose, senza mai chiedere spiegazioni. Ti ho dato fiducia. Ma adesso basta. Adesso voglio sapere che diavolo sta succedendo, che cos’è successo ieri in metropolitana, perché ho sentito degli spari e ho trovato il tuo orologio su quella che poteva essere una scena del crimine, e soprattutto voglio sapere che cosa significa questa foto”. Premette un dito sulla foto in questione per sottolineare la sua foga.
Henry riaprì bocca, ma ancora una volta non riuscì a dire nulla. L’immagine di Nora, che lo guardava accondiscendente dicendogli io ti credo, mentre già tramava di farlo rinchiudere, continuava a lampeggiargli davanti agli occhi. Ma Jo è diversa, si disse. Lei gli avrebbe creduto. Glielo avrebbe dimostrato, se si fosse reso necessario. E poi c’era Abe. Abe poteva testimoniare sulla loro vita insieme, poteva…
All’improvviso, gli venne in mente che forse il modo migliore per convincere Jo e la sua mente analitica di poliziotto era mostrarle la verità, anziché spiegargliela. Sapeva che se avesse esordito con un “sono immortale”, Jo avrebbe tratto subito delle conclusioni affrettate che poi avrebbero influito sul suo giudizio. Doveva fare in modo che lei arrivasse alla verità seguendo un proprio ragionamento.
“Guarda che se non glielo dici tu, glielo dico io!”, intervenne Abe dopo altri secondi di silenzio. Jo gli lanciò un’occhiata riconoscente, e poi sospirò di impazienza. Si alzò brevemente per togliersi il cappotto e lo gettò di lato sul divano. Tornò a chinarsi verso di lui. Stava per aprire bocca, sicuramente per incitarlo a parlare, quando Henry intervenne:
“Abe”, disse, senza staccare gli occhi da Jo, “Potresti per favore prendere… l’album?”
“L’album?”, ripeté Abe con occhi spalancati, come se non avesse capito bene, “Vuoi dire… quell’album?
“Sì, quell’album”, confermò Henry e si voltò per guardarlo e fargli capire che stava dicendo sul serio.
“Quale album?”, chiese Jo indagatrice, mentre osservava Abe che si allontanava per qualche secondo e ritornava poi con un grosso album rilegato in pelle in mano.
Dopo aver ricevuto la tacita approvazione di Henry, Abe allungò l’album e lo posò sulle ginocchia di Jo, che fissò la copertina incisa di pelle con sguardo confuso.
“Che significa?”, chiese, e il suo sguardo si spostò da Henry ad Abe e viceversa.
“Se vuoi sapere la verità”, disse Henry fissandola negli occhi, “Si trova lì dentro. Ma ti devo avvertire: una volta che hai… una volta che entri in questa… come dire… situazione, non puoi più tornare indietro. Quindi pensaci bene”.
“Quale situazione?”, chiese Jo, e di nuovo il suo sguardo saettò su Henry e Abe. Non ricevendo risposta da nessuno dei due, abbassò gli occhi sull’album e lentamente lo aprì. Nella prima pagina c’era un ritaglio di giornale. Sembrava una pubblicazione antica, di almeno un secolo prima, o anche di più. Il titolo recitava: Eroico dottore salva bambino da inferno di fuoco. Al di sotto, un sottotitolo circondato da un disegno di una torre in fiamme: l’inaspettato eroe si è rivelato essere un dottore del Mercy. “Ringrazio Dio che ci fosse il dottor Morgan”, dice la madre in lacrime del bambino salvato. E di fianco al sottotitolo, un altro disegno: il volto di uomo incredibilmente assomigliante a Henry. Jo si ritrovò a trattenere il fiato, senza riuscire ad articolare dei pensieri compiuti. La data in alto a destra della pagina recitava 1865.
Sentì che Henry la stava osservando, e sollevò lo sguardo verso di lui. Gli occhi di Henry erano due pozze profonde in attesa di un verdetto. Non gli aveva mai visto quello sguardo: un misto tra agitazione, terrore, sollievo, aspettativa. Jo tornò a guardare il disegno: sembrava proprio lui. E poi c’era quel nome: dottor Morgan. Scorse velocemente l’articolo e arrivò a un punto in cui si diceva che l’eroico dottore si chiamava Henry Morgan e lavorava al Mercy Hospital di Londra. Henry Morgan. In fondo, era un nome abbastanza comune. E il disegno… una coincidenza?
Henry sapeva quali pensieri stavano attraversando la mente di Jo. Stava cercando di dare un senso logico a quelle parole e a quel disegno. Sicuramente avrebbe potuto trovare una spiegazione plausibile. Ma era solo alla prima pagina dell’album.
“Vai avanti”, la incitò, gentilmente.
Lei ubbidì e sfogliò la seconda pagina. C’era una foto, in bianco e nero e quasi completamente consunta, di un gruppo di persone di fronte a un edificio di mattoni neri di fumo. Jo studiò l’abbigliamento di quelle persone: erano vestiti come a inizio del secolo precedente. Gli uomini portavano barba e cappello e le donne indossavano una divisa nera con una cuffia arcuata in testa. Sembrava il personale di un ospedale. Scrutò i loro visi, che data la qualità della foto sembravano tutte macchie bianche e nere. Non capiva esattamente che cosa stava guardando.
“Se fossi in te guarderei l’ultima fila, in fondo a sinistra”, le suggerì Abe.
Jo si concentrò sulle persone a sinistra del gruppo e fu allora che lo vide. Henry. Aveva la barba e dei basettoni che gli ricoprivano la mascella, ma il naso e gli occhi, anche in quell’immagine sgranata, erano i suoi. Indossava un camice bianco con una fascia con una croce rossa avvolta intorno al braccio destro. Jo non riusciva a trovare nessuna spiegazione per quell’immagine.
Alzò gli occhi su Henry, sul suo abbigliamento ricercato, sulla sua postura composta, e si sentì come se lo stesse vedendo per la prima volta.
“Chi sei?”, gli chiese, senza sapere bene perché stava porgendo proprio quella domanda.
“Mi chiamo Henry Morgan”, rispose Henry, con un tono neutro e pacato che nascondeva a stento il suo nervosismo, “E sono nato a Londra il 19 settembre 1779”.
“Millesettecento…?”, ripeté Jo con occhi spalancati.
“Millesettecento settantanove”, confermò Henry con un cenno del capo.
Era fatta. Dopo quell’affermazione era impossibile tornare indietro. Henry non staccò gli occhi da Jo, che a sua volta non li staccava da lui. Ancora una volta, Henry sapeva quali ragionamenti stavano vorticando nella testa di Jo, tutte le possibili opzioni che lei stava vagliando mentre lo fissava, cercando di decidere se credergli o meno. Perché credergli, così ciecamente e su due piedi, avrebbe comportato negare il tessuto stesso della realtà che Jo credeva essere l’unica e sola verità. Non la biasimava per i suoi dubbi; non era facile mettere in discussione tutto quello che si era sempre creduto come solido e indistruttibile. La seconda opzione era che lui fosse un pazzo, un sociopatico o schizofrenico, o entrambe le cose. Ma anche in quel caso, la verità non era facile da accettare, non per Jo, il cui lavoro consisteva nell’indagare la verità e giudicare le persone: poteva essersi sbagliata a tal punto sull’uomo al cui fianco aveva lavorato per anni, e per il quale aveva anche ammesso di provare dei sentimenti? Poteva, il partner con cui lei era entrata così in confidenza, essere un pazzo senza che lei si fosse accorta di nulla? C’era anche la possibilità che fosse tutto uno scherzo, ma a che pro? E poi, non era da Henry. E quelle foto? Quel ritaglio di giornale? Potevano essere dei falsi? Ma a che scopo?
A Henry sembrò quasi di sentire i pensieri di Jo, uno per uno, mentre vagliava e scartava le varie possibilità. Alla fine lei riabbassò lo sguardo e voltò pagina. La foto seguente era di nuovo in bianco nero, ma sicuramente più recente. Probabilmente degli anni cinquanta. Sullo sfondo grigio che sfumava in bianco sui bordi, si stagliava ancora una volta un uomo che sembrava Henry, in divisa militare verde scuro, al fianco di una donna bionda, vestita di bianco, che gli teneva il braccio e sorrideva.
“Quello era il giorno del nostro matrimonio”, spiegò Henry, sentendo una morsa al cuore al ricordo.
Nostro matrimonio?”, domandò Jo, scrutando la donna bionda al fianco di Henry. Era indubbiamente la stessa della foto che aveva trovato in metropolitana. All’improvviso capì. “Abigail!”, esclamò, ed Henry annuì, per confermarle che ci aveva visto giusto.
“Ti avevo raccontato di lei, solo… riadattando un po’ la storia.”
“Quindi in quest’altra foto…” Jo prese la foto dal tavolino e la pose di fianco a quella nell’album, “Siete di nuovo tu, Abigail e… vostro figlio?”, azzardò, mentre la consapevolezza di quell’affermazione si faceva strada dentro di lei. Prese il silenzio di Henry come una conferma.
“Tu hai un figlio??”, chiese, stupita.
Henry annuì con un cenno del capo.
“Ed è… ancora vivo?”, chiese ancora, facendo un rapido calcolo mentale. Se quella foto, come aveva ipotizzato, era degli anni cinquanta, il figlio doveva avere circa 60 o 70 anni.
“Direi di sì”, rispose a sorpresa Abe, alzandosi per recarsi in cucina, “E spero di rimanerci ancora per almeno un decennio”.
Jo ci mise qualche secondo ad assimilare l’informazione.
Tu….”, balbettò, mentre Abe tornava indietro e metteva una bottiglia di liquido scuro sul tavolino di fronte a lei, “Tu sei il figlio di Henry?”
Henry e Abe si scambiarono un’occhiata e sorrisero, complici. Jo aveva sempre sospettato che ci fosse qualcosa di strano, nel loro rapporto, ma aveva pensato che dipendesse dal fatto che Henry avesse perso il padre, che Abe fosse una specie di famiglia adottiva per lui…
“Quindi la storia che mi avevi raccontato, di tuo padre che aveva il negozio a Londra, e che era partner di Abe, era una balla?”
Henry alzò le mani in segno di scusa.
“Perdonami, Jo. Sì, era una bugia. Non sapevo che inventarmi, così su due piedi.”
Jo si ricordò del momento di imbarazzo che era intercorso tra Abe ed Henry quando aveva chiesto loro come si erano conosciuti. Non ci aveva fatto caso, all’epoca. O meglio, lo aveva notato, ma ci era passata sopra. Come per molte altre cose riguardanti Henry.
“Se vuoi berti qualcosa di forte, Jo, sappi che in casa abbiamo solo cognac”, e indicò con un cenno il liquido sul tavolino, “Perché papà è fissato con il cognac, soprattutto quello invecchiato. Dice che gli ricorda casa sua”.
Jo quasi sobbalzò, sentendo Abe pronunciare con tale tranquillità la parola papà. Anche Henry sembrò per un istante a disagio, ma poi sorrise quando Abe gli fece l’occhiolino. Senza rendersene conto, Jo aveva abbandonato quasi ogni dubbio, e si stava addentrando in quello strano mondo di Henry e Abe, scoprendo di volta in volta particolari che fino ad allora le erano sfuggiti, o che aveva messo da parte catalogandoli come “cose eccentriche”.    
“Quindi tu non… non invecchi”, disse alla fine Jo, e pronunciare ad alta voce quelle parole le fece percepire l’assurdità della situazione. Eppure, l’assurdità si stava dimostrando l’unica spiegazione plausibile per tutte le stranezze di Henry. La sua immensa cultura, tutte le lingue che parlava, la sua allergia quasi cronica per la tecnologia (come poteva non avere un cellulare, nel XIX secolo?), il suo modo ricercato di vestire, il suo modo di parlare, la sua riservatezza estrema, la sua eccentricità quasi borderline. Alla luce di quanto scoperto, ogni cosa acquisiva un senso nuovo.
“La prima volta che ci siamo incontrati… il nostro primo caso insieme”, proseguì Jo, dando voce ai suoi ragionamenti, “Tu eri su quella metropolitana”.
“Sì, c’ero, non l’ho mai negato”.
“E com’è possibile che tu sia sopravvissuto? Tutti, nel primo vagone, sono morti”.
Henry esitò un istante prima di rispondere. Ormai, però, che importanza aveva? Jo era lì e gli stava facendo delle domande, ed era un buon segno. Non aveva ancora accennato ad andarsene, né a chiamare uno strizzacervelli. Nel complesso, poteva dire che le cose stavano andando bene.
“Non sono sopravvissuto, infatti. Sono morto. Per essere precisi, sono morto per un palo d’acciaio conficcato nel petto.”
Jo lo fissò con le sopracciglia alzate e gli occhi spalancati.
“Non capisco”, disse.
“Quello che papà sta cercando di dire”, ancora una volta quel papà pronunciato con tanta naturalezza fece sobbalzare Jo, “È che non solo lui non invecchia, ma non può morire. O meglio, lui muore, ma poi il suo corpo sparisce e rispunta fuori nel bacino d’acqua più vicino”.
“Nudo”, precisò Henry, e in quel momento gli occhi di Jo si accesero di comprensione.
“Cazzo!”, esclamò, “Le nuotate notturne!”
Henry non riuscì a trattenere un sorriso. Era la prima volta che sentiva Jo pronunciare una parolaccia.
Jo si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro nel salotto, ragionando ad alta voce.
“Ma certo. Certo. Cazzo, chi si mette a nuotare nudo nell’Hudson in pieno inverno? Nemmeno un pazzo. E la storia del sonnambulismo… non ci ho creduto nemmeno per un attimo.”
Henry alzò di nuovo le mani in segno di resa.
“Mi dispiace. Anche lì, ho dovuto improvvisare…”
Jo si fermò di colpo, scossa da un’idea improvvisa.
“Quando ti hanno arrestato… io ho controllato la tua fedina. Non era la prima volta che… oddio! La data in cui fosti arrestato la prima volta era la stessa dell’incidente in metropolitana! Infatti quella volta fosti arrestato in pieno giorno… ma certo!”
Henry la lasciò proseguire i suoi ragionamenti. Più conclusioni traeva da sola, maggiori erano le possibilità che alla fine gli credesse.
“… e ogni volta che sei stato arrestato… ogni volta, eri morto?”
“Sì.”, rispose semplicemente lui.
“E quelle sono solo le volte che ti hanno beccato”, continuò Jo. Un altro pensiero la colpì e trattenne il fiato. “Santo dio… quante volte è successo? Da quando lavoriamo insieme.”
Henry esitò, non perché non volesse risponderle, ma perché in effetti non sapeva che risposta darle. Fece un rapido calcolo mentale.
“Non lo so con precisione”, ammise, “Una dozzina di volte? Forse di più. Dovrei consultare il mio diario”.
“Tu… hai…. un diario… delle volte che sei morto?” Jo sembrava sempre più sbigottita.
“Macabro, eh?”, commentò Abe con una risata, “Dovresti proprio darci un’occhiata. Si annota tutto: data, ora, causa della morte. Poi si mette a fare i suoi grafici di analisi temporali e i suoi esperimenti da dottor Frankenstein”. Abe lanciò uno sguardo affettuoso a Henry e poi si alzò. “In ogni caso, sarà meglio che torni giù a riaprire il negozio. Ve la cavate da soli, eh? Jo, il cognac è lì per quando ne senti la necessità.”
Con un’ultima occhiata a Henry, Abe si diresse verso le scale e li lasciò soli. Jo stava per aprire bocca quando il suo telefono squillò. Uno sguardo allo schermo le disse che si trattava del distretto.
“Martinez”, rispose, e la voce le uscì più rauca del dovuto, forse a causa delle sue continue esclamazioni. Ascoltò Hanson che le elencava i dettagli dell’indirizzo di una nuova scena del crimine. Lo interruppe il prima possibile: “Ascolta, Hanson… non posso venire. Non adesso. Ho un’emergenza. No, niente di grave. Però non posso proprio. Sì. No. Henry è… no, oggi è il suo giorno libero, e so per certo che è fuori città. Aveva un impegno in qualche fiera dell’antiquariato o cose del genere.” Henry le lanciò uno sguardo divertito. “No… portati Lucas. Appena posso vi raggiungo, ok? Sì. Ci penso io ad avvisare Henry quando torna. Ok. A dopo”.
Chiuse la telefonata e Henry osservò, ironico: “Nemmeno tu te la cavi male con l’arte dell’improvvisazione, detective.”
Nonostante tutto, Jo si lasciò sfuggire un sorriso. Poi tornò seria.
“Henry, ho bisogno di sapere”.
“Va bene”, assentì Henry, con ancora qualche traccia di nervosismo.
“Ho bisogno di sapere tutto.”
“Va bene”, ripeté lui, “Però, Jo… non esageravo quando ti ho detto che è una lunga storia. Ci vorrebbero giorni, se non settimane, per raccontarti tutta la mia vita.”
“Ok”, annuì Jo, “Allora ti farò delle domande. E voglio risposte sincere.”
“Te lo prometto.”
Jo rifletté per qualche istante. Aveva così tante domande in testa, con nuovi punti interrogativi che si affacciavano in continuazione, che non sapeva da che parte iniziare.
“Sul tetto”, esordì, cercando di seguire un ordine cronologico di eventi, “Per quel nostro primo caso. Io ero sicura di averti visto saltare dal tetto, ma tu mi avevi detto che l’attentatore si era suicidato. Era la verità?”
“No”, rispose Henry, e abbassò gli occhi a terra, colpevole, “Avevi ragione tu. Sono saltato dal tetto. L’attentatore mi aveva sparato e stava per azionare il veleno. Non sapevo che altro fare per fermarlo. Così mi sono buttato su di lui e siamo precipitati entrambi.”
“E Gloria Carlyle? Perché non volevi occuparti del suo caso?”
“Perché la conoscevo”, spiegò Henry, “O meglio, l’avevo conosciuta, circa 50 anni prima. Era una brava persona. Mi dispiaceva sentire tutte quelle cattiverie su di lei”.
“E il Francese? Dopo che quello psicopatico è morto, l’ho interrogata. Mi ha detto che l’avevano aggredita, legata alla sedia, ma che poi qualcuno era intervenuto e aveva fermato l’assassino. Era bendata e non ha visto chi, ma ha sentito rumori di colluttazione. Quando sono arrivata io, però, non c’era nessuno. Eri tu? Sei stato tu a intervenire?”
“Sì”.
“E… il serial killer ti ha ucciso?”
Henry esitò un istante. Rispondere sinceramente a quella domanda, come promesso, significava però iniziare a parlare di Adam. Ed era un argomento troppo lungo, e penoso, per poterlo affrontare in quel momento.
“Mi ha ferito gravemente”, disse alla fine.
A Jo non sfuggì la sua risposta vaga.
“Ma non è stato lui a ucciderti?”
“No”. Non aggiunse altro. Jo insistette:
“E chi è stato allora?”
“Jo, ti ho promesso di essere sincero”, disse Henry, “Ma c’è un’altra parte di questa storia di cui sinceramente non voglio parlare. Non adesso. Non hai altre domande da fare?”
“Il tuo orologio, sul taxi”, proseguì Jo, “Ti era caduto in quel momento?”
“No”, rispose Henry asciutto. Purtroppo si stavano di nuovo muovendo in direzione di Adam. Era impossibile evitare l’argomento.
“Eri tu quello sul taxi… quello chiuso dietro, che ha lasciato quei graffi sulla portiera?” Jo stava facendo le domande seguendo il filo logico dei suoi ricordi, ma rabbrividì al pensiero che fosse davvero Henry, il suo Henry, a essere rimasto chiuso in quel taxi. Che cosa aveva detto, in quell’occasione? Qualcuno ha cercato disperatamente di uscire. Si ricordò del nervosismo di Henry e del suo sguardo assente. Certo. Era lui quello che aveva tentato disperatamente di uscire.
“Sì”, rispose ancora Henry.
Jo annuì, aggiustando man mano le tessere del puzzle nei posti giusti. Henry, sin dall’inizio, sapeva troppe cose sul quel caso, anche per lui. Sapeva che il morto era un tassista ancor prima di fargli l’autopsia. Aveva suggerito loro dove trovare il taxi, sapeva dove era caduta la pistola. La pistola. C’era un’altra persona in quel taxi!
“Chi altro c’era in quel taxi?”
Henry sospirò e si alzò dalla poltrona, voltandole le spalle. Era un gesto che Jo gli aveva visto fare altre volte: adesso capiva che era una sua tecnica per prendere tempo e decidere cosa rispondere.
“Jo”, lo sentì dire mentre continuava a darle le spalle, “Non volevo parlarne, ma a quanto pare non posso saltare questa parte della storia, quindi sarò breve.” Si spostò verso la portafinestra e fissò lo sguardo verso l’esterno, le mani nelle tasche dei pantaloni. Mai come in quel momento Jo si rese conto di quanto tutto, nel suo atteggiamento, comunicasse quanto fosse vecchio.
“Non sono l’unico a essere così, a essere… immortale”, cominciò a spiegare Henry, senza guardarla, “So per certo che ne esiste un altro, che si chiama Adam. Era lui lo stalker… quello vero. Non chiedermi perché lo facesse. Probabilmente si annoiava… quello che so è che era un pazzo psicopatico e un assassino. Ha ucciso anche alcune persone sui cui omicidi abbiamo indagato io e te. Lui aveva iniziato questa specie di… di gioco perverso tra me e lui. Si divertiva, credo. Lasciava cadaveri sparsi in giro, minacciava di smascherarmi davanti a tutti, ha provato ad uccidermi due volte e ci è anche riuscito, due… tre volte”. Si fermò un istante e sospirò. Jo ascoltava, ipnotizzata e pietrificata.
“Alla fine se ne è uscito dicendo che secondo lui l’unico modo per smettere di essere così era uccidersi con l’arma che aveva provocato la prima morte. E mi disse che aveva rintracciato l’arma che lo aveva ucciso, un pugnale”.
“… il pugnale di Cesare”, concluse Jo, sconvolta.
Henry si voltò verso di lei con un’espressione grave sul volto.
“Sì. E sì, prima che tu me lo chieda: ho fatto di tutto per sabotare le tue indagini su quel caso. Adam era completamente fuori controllo e pronto a uccidere chiunque si fosse messo tra lui e il pugnale. L’aveva già fatto, con quell’addetta al museo e la guardia giurata.”
“Lui era lì quando…?”, gli occhi di Jo si spalancarono quando la consapevolezza di quello che sarebbe potuto succedere si fece strada in lei.
“Sì, era lì. Tu non l’hai visto, ma era dietro alla porta, con un coltello in mano, ed ero più che certo che ti avrebbe uccisa. Per questo mi sono lanciato nel mezzo… so che in quel momento avrai pensato che ero un pazzo… ma credimi, ero terrorizzato. Mi aveva già detto chiaro e tondo che se fossi intervenuta ti avrebbe fatto del male…”
“Oddio”. Jo si portò una mano alla bocca mentre rifletteva su come il comportamento di Henry fosse degenerato durante quell’ultimo caso, di come aveva fatto di tutto per metterle il bastone tra le ruote, dicendole che il pugnale non c’entrava con l’indagine, indirizzandola verso piste sbagliate… per lei. Per proteggerla.
“Alla fine quando hai preso il pugnale e lo hai portato al distretto, non sapevo più come fare per tenerlo a bada. Temevo seriamente che sarebbe venuto e avrebbe ucciso chiunque si fosse messo in mezzo… così ho sottratto il pugnale dalle prove, e mi sono incontrato con lui per darglielo.”
“In metropolitana”, sussurrò Jo, con ancora la mano sulla bocca.
“In metropolitana. Ma alla fine Adam non voleva testare la sua teoria su sé stesso… pensava sarebbe stato molto più divertente testarla su di me.”
“Ma…”, lo interruppe Jo, “Ma se la sua teoria era giusta, il pugnale… avrebbe funzionato solo su di lui, no? Non su di te.”
“Infatti”, Henry, voltatosi verso di lei, fece un cenno con il capo, lieto che Jo stesse seguendo il suo discorso, “Ma lui aveva la pistola. La mia pistola”. Si slacciò i primi bottoni della camicia per mostrarle la cicatrice sul petto. “La pistola che mi ha fatto questa, quella che mi ha ucciso la prima volta”.
“Quando…?”
“Il 7 aprile 1814”, rispose Henry senza lasciarle terminare la domanda, “Mentre viaggiavo su una nave diretta in India, la Empress of Africa
Un nuovo lampo di comprensione si accese negli occhi di Jo, ma lei decise di lasciargli continuare la storia della metropolitana.
“E quindi lui, Adam… ti ha sparato?”
“Sì”.
“Ma la sua teoria era sbagliata, perché tu sei qui ora”, constatò Jo, “Sei sparito, lasciando il tuo orologio sul posto dove sono arrivata… se fossi arrivata qualche secondo prima…”
Già, sarebbe stato proprio quello che Adam voleva. Henry tornò a voltarsi verso la finestra.
“E Adam?”
“Non sarà più un problema”, rispose Henry, il tono improvvisamente freddo come ghiaccio. “Gli ho iniettato un siero che gli ha causato un’embolia cerebrale. Era l’unico modo per metterlo fuori gioco. Come ormai avrai capito, non si poteva certo uccidere. Ora è in ospedale, in una specie di coma. Non farà più del male a nessuno”.
Jo non disse più nulla e Henry attese per qualche secondo prima di tornare a sedersi di fronte a lei, sulla poltrona. Lei fissava il vuoto, pensierosa.
“Jo”, azzardò Henry dopo altri secondi di silenzio, “Che cosa stai pensando?”
“Penso… penso che ho bisogno di qualche minuto.”, rispose lei alzandosi. “Ho bisogno di qualche minuto per pensare.”
“Va bene”, disse Henry, e nonostante tutto sentì la paura assalirlo di nuovo, “Prenditi tutto il tempo che vuoi. Però Jo…”, aggiunse, mentre lei si stava dirigendo verso la porta, “Qualunque sia la tua decisione… ti prego… fammela sapere. Qualunque cosa tu decida, ti chiedo solo di farmela sapere.”
Jo lo guardò dubbiosa, ma annuì con un cenno. Poi aprì la porta d’ingresso e sparì lungo le scale che portavano al negozio. Non aveva preso il cappotto, per cui rimase all’interno del negozio, guardando quella montagna di oggetti che si accumulava in ogni angolo. Quanti di quegli oggetti erano appartenuti a Henry?
Si sedette alla scrivania a cui aveva visto seduto Henry tante volte. Aprì il cassetto di destra, e vide una foto di quattro ragazzi vestiti da soldato, in quella che sembrava una giungla. Quello di sinistra era chiaramente un giovane Abe. Jo rimise la foto al suo posto, richiuse il cassetto, e si ritrovò a fissare il vuoto. Quando era venuta da Henry, quella mattina, pretendeva una spiegazione, e una spiegazione aveva avuto. Ma non si aspettava quella spiegazione. Non si aspettava… che cosa si aspettava, sinceramente? Non una cosa così… paranormale. Aveva sempre saputo che c’era qualcosa di diverso in Henry. Il suo sospetto era che avesse un’altra identità, sospetto che le era nato quando aveva visto la sua reazione nel momento in cui lei gli aveva detto che qualcuno aveva indagato sui suoi documenti. E poi, quale persona sana di mente, laureata a Oxford, scriverebbe sul curriculum di essersi laureata a Guam? Credeva che si stesse nascondendo da qualcosa e che quindi stesse mantenendo un basso profilo. In parte, aveva indovinato. Ma non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere.
“Stai bene, Jo?”. Abe era comparso alle sue spalle senza che lei se ne accorgesse. Jo annuì, scrutando il viso di Abe per cogliere delle somiglianze con Henry.
“Sto bene. Avevo bisogno di qualche minuto per… riflettere”
“Ti capisco”, disse Abe, “Io è da circa 50 anni che sento le sue storie, e ancora non le so tutte. Immagino che sia difficile digerire così tanta roba tutta assieme.”
“Tu lo hai sempre saputo?”, chiese Jo, mentre la curiosità scacciava via le sue riflessioni.
“No. L’ho scoperto quando avevo sedici anni”. Abe si perse per un istante nei ricordi.
“Ti va di parlarmene?”, gli chiese Jo.
Abe prese una sedia e si sedette vicino a lei, i gomiti sulle ginocchia.
“Innanzitutto devi sapere che non sono proprio figlio di Henry e Abigail”, esordì Abe, “Mi hanno adottato. O meglio, mi hanno trovato abbandonato in un campo dell’esercito e mi hanno preso con sé. Papà era medico di campo e mamma era infermiera. All’epoca, con il disastro dell’olocausto e tutto il resto, c’era una grande confusione. In ogni caso, sono sempre stati i miei unici e veri genitori”.
Fece una pausa, e in quei brevi attimi di silenzio Jo fece un altro collegamento importante che fino ad allora le era sfuggito. La madre di Abe. Quella sulla cui morte lei ed Henry avevano indagato… l’infermiera. Era Abigail. Ecco perché Henry ne era così ossessionato: un altro pezzo di storia su cui avrebbe dovuto chiedere delucidazioni.
“Comunque, all’inizio non notai nulla. Ero piccolo, sai. Per me era normale vedere che mio padre era sempre lo stesso, forte e in salute. Poi al college cominciai a vedere i genitori dei miei amici che ingrassavano e avevano i capelli grigi, ma anche lì pensavo solo che papà fosse più in forma di altri perché era un medico. Quando avevo dieci anni ci siamo trasferiti improvvisamente in un’altra città e mamma mi aveva detto che era perché papà aveva ricevuto un’offerta di lavoro in un altro ospedale. In seguito scoprii che invece un vecchio compagno d’armi di papà, che l’aveva visto morire per una granata, l’aveva riconosciuto, e allora eravamo scappati in fretta e furia. Comunque scusami, mi sto allargando. A sedici anni io ero tutto preso dal college e dalle ragazze, ma sentivo che a casa c’era qualcosa che non andava. Mamma e papà discutevano e si interrompevano quando io arrivavo, e alcuni degli amici che frequentavano la nostra casa venivano meno spesso, e solo quando papà non c’era. Alla fine mi hanno chiamato in salotto e mi hanno detto che mi dovevano parlare”.
Abe fece un’altra pausa, mentre Jo lo fissava rapita dal suo discorso.
“Ti confesso che pensavo volessero dirmi che stavano divorziando. Invece mamma mi disse: sei abbastanza grande per capire, ora. Ti sarai accorto che tuo padre non è come tutti gli altri. Io all’inizio non capii. Pensavo si riferisse al fatto che papà era più intelligente degli altri, o più in gamba. Sai, per me era normale. Lui sapeva sempre tutto di tutto. Poi mia madre mi stupì, e mi disse: ti sarai accorto che tuo padre non invecchia come tutti gli altri. Ricordo di averli fissati come un ebete. Papà era immobile e sembrava un fantasma tanto era pallido. Alla fine fu lui a dirmi che non poteva morire. Io non ci credevo, pensavo mi stessero prendendo in giro. Allora papà bevve un sorso di thè e si accasciò per terra in preda alle convulsioni. Io mi spaventai a morte, e ancora di più mi stupii perché mamma se ne stava lì tranquilla come se fosse una cosa normale. Alla fine lo vidi scomparire davanti ai miei occhi, e mamma mi disse: vieni Abe, adesso andiamo a recuperarlo”.
Jo si appoggiò allo schienale della sedia. Era così scioccata da tutte quelle rivelazioni che ormai non si stupiva più di nulla.
“Da allora le cose sono cambiate. Hanno aspettato che finissi il college, poi abbiamo cambiato città, anche perché la gente cominciava a guardarci strano. Mio padre sembrava più mio fratello maggiore che mio padre”.
Abe si interruppe e poi accennò una risata a qualcosa che gli stava tornando alla mente:
“Sai che, mentre ero all’università, conobbi una ragazza che mi piaceva, e la volevo presentare a papà, per avere un suo parere. Solo che… ormai, non eravamo più credibili come padre e figlio, così lo presentai come un mio amico e andammo tutti e tre a bere una cosa al bar. E lo sai com’è andata a finire?” Abe rise ancora e Jo, suo malgrado, sorrise, anche se non conosceva ancora la fine della storia.
“Che alla fine la tipa voleva uscire con Henry e non con me!” Abe continuò a ridere e si asciugò addirittura delle lacrime, “Ti rendi conto? Ci voleva provare con mio padre! Alla fine di ragazze non gliene ho più presentate”. Abe finì di ridacchiare e tornò improvvisamente serio. Si sporse verso Jo e le posò una mano sul ginocchio:
“Ascoltami, Jo, c’è una cosa che ti devo dire. Da quando mamma se n’è andata per papà è stata molto dura, capito? Era a pezzi. Quando ci siamo trasferiti qui a New York e abbiamo aperto il negozio le cose sono andate un po’ meglio, ma per papà è rimasto…. difficile, affezionarsi. Ha scelto di fare il medico legale apposta, perché voleva ridurre al minimo i contatti con le altre persone. Capisci?”
Jo annuì, e prima che Abe continuasse gli domandò, incapace di tenere a freno la curiosità:
“Perché Abigail se n’è andata?”
Abe esitò.
“È complicato, Jo. Si amavano alla follia, ma… la gente li stava facendo a pezzi. Io ero fuori casa, all’epoca, ma… Per mamma era diventato troppo penoso. Chi non li conosceva scambiava Henry per suo figlio, e chi li conosceva trovava increscioso che una donna della sua età fosse sposata con un uomo così giovane. Considera che erano gli anni ottanta.”
“… e così Abigail se n’è andata”, completò Jo, sentendosi però in colpa per aver aperto quell’argomento.
“Sì. Ma non è questo che volevo dirti. Voglio che tu sappia che da quando tu e papà avete cominciato a lavorare insieme, ho sempre insistito che lui si confidasse con te. Io non ci sarò ancora per molto, e volevo essere sicuro che avesse qualcuno al suo fianco per quando io non ci fossi stato più.”
“E hai pensato a me?” Jo sorrise, sentendosi lusingata.
“Sì, mi sei piaciuta sin da subito. Saresti la donna ideale per lui. In tutti i sensi”, aggiunse, con uno sguardo eloquente. Jo, dimentica per un istante di tutto quello che aveva appreso in quelle ore, arrossì.
“Oh, andiamo Jo! Non ti imbarazzare di fronte a un povero vecchio”, rise Abe, “Lo so che ti piace, e tu piaci a lui, me lo ha detto. Però non voleva dirti nulla, in parte perché non voleva scaricarti addosso la responsabilità del suo segreto, in parte perché era terrorizzato dopo quello che era successo con Nora, e non lo biasimo”.
“E chi è Nora?”, chiese Jo, metà della sua mente ancora attenta e indagatrice, l’altra metà invece assorta dalla rivelazione che Henry aveva parlato di lei ad Abe. Davvero lei gli piaceva? Dopo il mancato viaggio a Parigi, in effetti, ci aveva pensato…
“Questa parte della storia non te la posso raccontare”, Abe scosse la testa, “È una brutta storia e sta a papà decidere se raccontartela o meno. Nora è un tasto dolente, anzi dolentissimo.”
Nonostante tutte le altre informazioni che doveva ancora digerire, la curiosità di Jo si era riaccesa. Aveva così tanta voglia di conoscere il vero Henry che aveva ormai accantonato ogni ipotesi di pazzia.
“Grazie, Abe, per quello che mi hai raccontato”, disse Jo alla fine, rialzandosi. “Credo che io e Henry abbiamo ancora molte cose di cui parlare”.
“Tantissime, Jo”, Abe le fece l’occhiolino, “Non sai quante.”
Jo salì le scale e senza bussare rientrò nell’appartamento. Henry stava maneggiando con una teiera di acqua calda e una tazza. Jo rimase a osservarlo per qualche secondo, e sentì una strana sensazione di calore al petto. Di affetto. O forse qualcos’altro. La verità era che più cose scopriva su di lui, per quanto assurde, più gli piaceva. E le cose che sapeva su di lui probabilmente non erano nemmeno la metà.
Quando Henry si accorse della sua presenza, si voltò verso di lei e fece un cenno verso la teiera.
“Vuoi del thè?”, le chiese.
“No grazie, Henry”. Visto che Henry era in cucina, lei si sedette sullo sgabello della penisola. Lui non disse altro, non la incitò a parlare né le fece pressioni, ma Jo percepì che era ansiosamente in attesa di un suo commento. Decise di essere diretta:
“Henry, ho un’ultima domanda. Poi giuro che non ti chiederò più nulla… almeno non oggi”. Gli fece un sorriso per fargli capire che stava scherzando e lui sembrò rilassarsi. Le fece cenno di proseguire mentre immergeva il filtro nell’acqua calda.
“Cos’è successo con Nora?”
Henry si bloccò, e il suo viso si fece di pietra. Altro che tasto dolente, pensò Jo. Tuttavia, non desistette. Rimase a fissarlo mentre lui, con deliberata lentezza, si voltava per posare la teiera nel lavandino.
“Te lo ha detto Abe?”
“Abe mi ha solo detto che era successo qualcosa di molto brutto con questa Nora. Mi ha detto che se volevo saperne qualcosa, dovevo chiederlo direttamente a te.”
“Che importanza ha, Jo?” Henry quasi sbatté la teiera nel lavandino, “È davvero importante? Lo vuoi davvero sapere?”
“Sì, lo voglio sapere”. Jo non si lasciò spaventare dalla sua reazione.
“Perché?”, le chiese, incrociando le braccia di fronte al petto.
“Perché…” Jo esitò un istante, analizzando con sé stessa il vero motivo della sua curiosità, “Perché ci tengo a te, Henry. Molto. Lo so che lo sai. Ma fino ad oggi io non ti conoscevo… non davvero. E io voglio conoscerti davvero. E l’unico modo per farlo è sapere quelle storie di te che ti hanno portato a essere quello che sei. E dalla tua reazione credo che la storia di Nora sia una parte importante della tua vita”.
Henry tornò a darle le spalle, lasciando dietro di sé parecchi secondi di silenzio. Poi alla fine sospirò.
“Se proprio ci tieni, Jo”, disse a voce bassa, “Ti racconterò la storia di Nora. Ma solo perché me lo hai chiesto. E perché anch’io ci tengo a te.”. Dopo un’altra pausa, si voltò e si sedette sullo sgabello di fronte a lei, dall’altra parte della penisola.
“Nora era mia moglie”, esordì, con una punta di rabbia che già si avvertiva nella sua voce, “La moglie che avevo prima di… prima di diventare così. Io dovevo andare in India e lei doveva raggiungermi lì qualche mese dopo. Poi… poi sono morto. Mi sono ritrovato in una terra sconosciuta, con una lingua sconosciuta, senza sapere quello che mi era successo. Non so come, ma dopo mesi di viaggio riuscii comunque a tornare in Inghilterra.” Sospirò. Jo allungò una mano sulla sua. Si aspettava che Henry si sarebbe ritratto, invece non lo fece. “Durante il viaggio mi capitò di morire un paio di volte. Sai, ero giovane… non sapevo ancora bene come funzionava. Quando tornai a casa, scoprii che mi avevano dato per morto e che c’era una lapide con il mio nome nel cimitero dietro casa. Trovai Nora proprio lì, che piangeva. Lei pensò che mi fossi salvato per miracolo, e io non la smentii. Ricominciammo la nostra vita, ma lei si accorse che c’era qualcosa che non andava. Io ero… inquieto, cercavo di capire in tutti i modi che cosa mi fosse successo. Ero confuso, ero… insomma, quando lei mi chiese di raccontarle che cosa mi tormentava, io glielo dissi.” Si interruppe, e strinse così forte il manico della tazzina che quella tremò.
“E lei non… non ti credette?”
“Peggio”, disse Henry, “Fece finta di credermi. Mi convinse per bene. Mi abbracciò, anche, dicendo che mi amava, mentre nella sua testa si era già convinta della mia pazzia. Il giorno dopo vennero a prendermi”.
“Chi?”, chiese Jo, temendo nel più profondo del cuore la risposta.
“Quelli del manicomio”, rispose Henry asciutto, lo sguardo di pietra perso nel vuoto, “Ci sono rimasto per quattro anni. Quattro anni, e non ti dico che cosa mi hanno fatto, in quel posto. All’epoca le chiamavano terapie, adesso sarebbero considerate torture. Idroterapia, elettroschock. Ovviamente mi sono rimangiato tutto quello che avevo detto, ma non li ho convinti. Io l’ho supplicata, l’ho pregata di farmi uscire, ma lei non mi ha dato ascolto.”
Jo ascoltava, l’orrore che si faceva strada nel suo petto, insieme alla rabbia. Aveva voglia di alzarsi in piedi e abbracciare Henry con tutte le sue forze. Ma la storia, a quanto pareva, non era ancora finita.
“Dopo quattro anni di terapie infruttuose, nel manicomio c’era gente che stava molto peggio di me, secondo i dottori, così mi trasferirono nella prigione di Londra, dove rimasi per altri tre anni, fino a che il mio compagno di cella mi aiutò a commettere suicidio”.
“Dio santo”, si lasciò sfuggire Jo, e inconsciamente strinse la mano di Henry ancora più forte.
“Aspetta, Jo, non è ancora finita” Henry fece un altro sospiro come per darsi coraggio, “Dopo il… suicidio, mi sono rifatto una vita. Ho lavorato in ospedale fino a conquistarmi la posizione di capo reparto. Al Mercy.”
Il nome suonò famigliare a Jo, che si ricordò dell’articolo che aveva letto qualche ora prima.
“Quel maledetto articolo di giornale”, sospirò Henry, “Un giorno all’ospedale si presentò una donna. Una donna anziana, di circa settant’anni. Io, sul momento, non la riconobbi. Poi lei si fece avanti e disse di essere mia moglie”.
“Nora”, sussurrò Jo allibita.
“Già, la mia adorata moglie. Io feci finta di niente, negai di essere io. Ma lei insistette, e iniziò una commovente apologia di come si fosse sbagliata, di come mi avesse sempre amato, del fatto che non si era mia risposata… e del fatto che voleva rendere noto a tutto il mondo il… “miracolo” della mia situazione”. Fece una pausa e deglutì con rabbia. “Io le dissi di no, ovviamente. Le dissi che se mai mi aveva amato, veramente, doveva lasciarmi stare. Andare via e non dire niente a nessuno. Ma Nora ha voluto essere egoista fino in fondo. E così il giorno dopo tornò all’ospedale, con una pistola, con l’intenzione di spararmi davanti a tutti.”
“E…?”
“Sbagliò mira, e uccise l’infermiera che lavorava con me. Una povera innocente, che non c’entrava nulla.”
“E Nora?”
“La rinchiusero in manicomio”, concluse Henry asciutto, “Ironia della sorte, non trovi?”
Allibita, Jo non disse nulla per parecchi secondi. Era davvero una storia brutta. Quattro anni in manicomio. Jo non riusciva nemmeno a concepirli.
“Ora devo farti io una domanda, Jo”, Henry si scosse di dosso la brutta sensazione che aveva sempre quando parlava di Nora, e fissò Jo negli occhi, “Tu mi credi? Credi a tutto quello che ti ho detto?”
Jo lo fissò di rimando, sorpresa. Era convinta che a quel punto fosse chiaro che lei gli credeva.
“Certo, Henry”, gli rispose, e gli strinse la mano in segno di incoraggiamento, “Ti credo.”
Il viso di Henry si illuminò all’improvviso e i suoi occhi si fecero lucidi. Le afferrò anche l’altra mano e la strinse con forza, portandosela poi alle labbra.
“Grazie, Jo, grazie”, sospirò di sollievo, “Non sai cosa significhi questo per me. Avrei voluto dirtelo tante di quelle volte… lo so che ti ho mentito, ma non sapevo che altro fare. Lo capisci, vero? Non potevo certo dirtelo di punto in bianco, all’improvviso. Mi avresti preso per pazzo”.
“Lo so”, disse Jo, e lo sapeva veramente. Soprattutto dopo aver sentito la storia di Nora, capiva perfettamente il comportamento guardingo di Henry nei suoi confronti. Certo, provava una fitta di risentimento per non essersi accorta di nulla, e per il fatto che Henry non si era fidato abbastanza di lei da confidarsi spontaneamente. Ma ora non aveva più importanza.
Il telefono di Jo squillò ancora. Vedendo che era di nuovo il distretto, Jo si costrinse a rispondere.
“So che hai detto che hai un’emergenza Jo, ma qui siamo nella merda. Riesci a venire?”, le disse Hanson con la voce affannata, “No, ho detto di no, non possono passare!”, aggiunse rivolgendosi a qualcun altro.
“Va bene, Hanson, arrivo il prima possibile”, rispose Jo a malincuore. Con tutto quello che le frullava in testa, dubitava di essere in grado di concentrarsi sul lavoro.
“Ti reclamano, detective?”, chiese Henry, bevendo un sorso di thè.
“Purtroppo sì”. Jo fece una pausa, poi aggiunse: “Vieni?”
“Non dovrei essere a una fiera dell’antiquariato?”, osservò Henry ironico.
“Ah già”. Jo si pentì di quella bugia confezionata in fretta e furia. Aveva bisogno di pensare, ma allo stesso tempo voleva continuare a stare vicino a Henry per poter soddisfare la sua curiosità ogni volta che le fosse venuta in mente una domanda.
“Allora ci vediamo in ufficio domani?”
“Certo”, rispose Henry, poi sospirò, indeciso: “È tutto a posto, vero?”
“Sì. Credo di sì. Ho bisogno solo di riflettere.”
“Va bene. Prenditi tutto il tempo che ti serve”. Henry posò la tazza sul piattino e la osservò mentre lei indossava il cappotto.
“Buon lavoro, detective. Ci vediamo domani”. 
   
 
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