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Autore: Silvar tales    13/09/2016    3 recensioni
«In fondo quello stronzo non ha mai capito la mia arte...» disse ironico, passandosi con noncuranza le mani bagnate di colore tra i capelli biondi. Le sue labbra erano curvate in un sorriso euforico e vendicativo, mentre ammirava il suo capolavoro.
«Sai, credo che neanch’io la capirò mai...»

[Partecipante alla challenge "Le situazioni di lui & lei" indetta da Starhunter] [#6 school!AU]
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara | Coppie: Sasori/Deidara
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Sasori & Deidara - The Great Revival'
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Vernice su cofano
[
#6 school!AU]


«Due meno meno… fantastico. PROF! Questo mancava alla mia collezione, davvero non so come ringraziarla!» Deidara sventolò il suo compito dal fondo dell’aula, per poi riporlo nello zaino con aria soddisfatta.
Il professore alzò appena gli occhi, poi non appena vide chi l’aveva interpellato scrollò le spalle e continuò a distribuire le verifiche. Ormai era abituato alle scempiaggini di Deidara, era abituato a vedere la sua sedia perennemente in bilico sulle due gambe posteriori, era abituato al disordine del suo banco da lavoro, era abituato ai suoi anfibi accavallati sul tavolo che normalmente avrebbe dovuto usare per disegnare. Tutti quanti ci erano abituati.
«Inuzuka, il tuo lavoro. Ottima resa delle ombre, e il pelo è molto realistico, però davvero dovresti cambiare soggetto… non ne posso più di disegni di cani...» Kiba afferrò il suo schizzo con gelosia, senza rispondere all’osservazione del professore.
«Haruno, sei troppo melensa. È inutile che provi a negarlo, questo è l’ennesimo ritratto dell’Uchiha». Sasuke nascose il proprio viso tra le mani, mentre invece Sakura assunse l’espressione più innocente che riuscisse a fare. «Oh davvero? Non me n’ero accorta, professore», cinguettò, mentre intascava il suo compito, rossa in faccia.
«Konan, c’è qualcosa che sai fare, oltre a quegli stupidi origami?» gettò con sdegno la verifica della ragazza sul suo banco, e il foglio appoggiato con tale noncuranza venne acchiappato da un refolo di vento, proveniente dalla vicina finestra aperta. Il disegno di Konan atterrò placido sul pavimento, sfoggiando il bozzetto di una ragazza sotto la pioggia, una macchia colorata in un mondo grigio.
Proprio in mezzo al disegno, a rovinare la composizione, svettava un 4 ½ scritto in rosso a caratteri cubitali.
Konan non riuscì ad evitare che gli occhi le diventassero lucidi, anche se cercò di mascherarlo con un «maledizione», bisbigliato a denti stretti. Deidara, che era seduto al suo fianco, le raccolse gentilmente il compito e lo ripose sul suo banco a faccia in giù, nascondendo il voto.
«Inutile che ci provi Konan, non riuscirai mai ad eguagliarmi», le sussurrò, cercando di strapparle una risata e di spazzarle via le lacrime dagli occhi. Konan stiracchiò le labbra in un’ombra di sorriso, ma il suo sguardo rimaneva fisso sul banco e i suoi denti continuavano a torturare le sue labbra, nel disperato tentativo di non lasciarsi sfuggire nemmeno una lacrima. Deidara sapeva che non sarebbe più riuscita a recuperare quell’ennesima insufficienza. Ormai non aveva più modo di evitare il debito estivo in Arte.
Quasi senza accorgersene, lanciò uno sguardo carico d’astio al professore che, noncurante, continuava a distribuire i compiti in classe. Deidara sapeva meglio di chiunque altro che Konan non riusciva a raggiungere la sufficienza per due semplici motivi: i suoi capelli colorati di blu e il piercing che aveva sotto il labbro.
«Hidan, è la terza volta che il parroco mi scongiura di appendere i tuoi disegni nella sua canonica. Non ho ancora capito se essere felice o inquietato dalla cosa, ma nel dubbio ti do un 7». Gli occhi di Hidan si illuminarono, mentre recuperava il suo disegno a tema – come sempre – religioso.
Pronunciò a mezza voce un ringraziamento al cielo, stringendo in pugno il rosario che aveva al collo, poi chiuse gli occhi e si immerse in una muta preghiera.
«Sasori...» il ragazzo seduto a fianco di Hidan alzò gli occhi verso il professore, non riuscendo a nascondere una punta di presunzione nello sguardo. D’altronde, Le sue aspettative erano talmente alte che toccavano il cielo, e sapeva che non sarebbero state deluse.
«Non so più che dire di fronte alla perfezione dei tuoi disegni».
Un mezzo sorrisetto incurvò le labbra di Sasori, mentre senza sorpresa accoglieva un 10 e lode, scarabocchiato frettolosamente in rosso, appena sotto la sua firma.
Tutti erano consapevoli del fatto che Sasori Akasuna fosse uno degli studenti più talentuosi del liceo. Molti lo ammiravano, alcuni lo invidiavano e qualcun altro addirittura lo odiava per questo.

Finalmente la campanella trillò, echeggiando il suo via libera! per tutti i lunghi corridoi del liceo.
Già da dieci minuti Deidara aveva gettato disordinatamente nella borsa i blocchi da disegno e le tempere, e non aspettava altro che fuggire dalla classe e sedersi di fronte a un piatto di minestra fumante. Si alzò dalla sedia con talmente tanta foga che la rovesciò. Senza curarsi di rimetterla in piedi, salutò Konan con un buffetto sulla guancia, batté il cinque a Kiba, dedicò uno scherzoso ciao bella a Sakura, e un su con la vita! a Sasuke Uchiha.
Poi si diresse con passo deciso verso la porta ma, prima di oltrepassare la soglia, si bloccò un momento. Una frazione di secondo in cui cercò lo sguardo di Sasori. Si salutarono con un cenno del capo che nessun altro, all’infuori di loro due, avrebbe potuto notare. Un attimo dopo gli aveva già voltato le spalle.


*




Deidara sapeva che la sua arte non sarebbe mai stata capita, rimuginò osservando il suo compito da due meno meno, mentre percorreva la strada di casa a testa alta come se tutto il marciapiede fosse di sua proprietà.
Non aveva disegnato nulla, solo scritto in mezzo al foglio, a caratteri storti e grossolani:

L’unico modo per rendere artistico questo foglio è tagliarlo in tanti piccoli coriandoli. Successivamente, raccogliere i coriandoli in una ciotola e lanciarli a pioggia su un fornello acceso. Allora vedrete alcuni pezzetti di carta bruciare istantaneamente creando piccole fiammelle, alcune arancioni, alcune blu, alcune verdi (il colore anomalo si verifica quando la fiamma incontra l’inchiostro). Altri frammenti si anneriranno soltanto, altri ancora voleranno in alto, spinti dalle correnti ascensionali.
Finché tutto non diventerà cenere.



Ormai accoglieva i voti negativi dei professori come una vittoria. Più il voto era basso, più era convinto di aver creato un buon lavoro. Gli insegnanti, dal canto loro, lo consideravano un caso senza speranza. Deidara, quel ragazzaccio di strada con i piercing e i tatuaggi, i vestiti strappati e i bracciali con le borchie. Era la seconda volta che ripeteva la quarta superiore, e anche quell’anno sembrava intenzionato a ripeterla una terza.
Sapeva quello che alcuni insegnanti e studenti bisbigliavano alle sue spalle.
Per me si droga.
Sono spariti un ipod e un portafoglio in seconda C, vuoi scommettere che c’entra lui?
È uno di quelli che se incontro per strada alla sera, chiamo preventivamente la polizia.
Deidara li lasciava bisbigliare, incassava cattiverie e pregiudizi, rideva e mandava a quel paese.
Qualche volta però non riusciva a superare lo sconforto con una risata, allora nel silenzio dava sfogo a poche lacrime isteriche, prima di ritornare in scena più irruente e spregiudicato di prima.
Non sapevano nulla di lui.
Aveva tre piercing sul lato superiore dell’orecchio sinistro, uno sul sopracciglio destro e l’ultimo su un capezzolo: nulla di troppo vistoso. Talvolta i suoi capelli biondicci erano acconciati in forme appuntite dai toni vagamente punk, ma il più delle volte erano perfettamente normali. Aveva un tatuaggio rappresentante una spinosa pianta rampicante che gli correva dalla cervicale sino alla linea tra le scapole, ma il petto, le braccia e il resto del suo corpo erano perfettamente intonsi, non “scarabocchiati” come credeva qualcuno.
Fumava qualche sigaretta, e una sola volta alle scuole medie aveva provato a farsi una canna. Era stato talmente male che da quel giorno in poi non aveva nemmeno più voluto sentire l’odore della droga.
Usciva spesso la sera e ancora più spesso la notte, e forse gli unici eccessi che talvolta si concedeva erano l’alcol e il sesso. A volte aveva alzato le mani su degli altri ragazzi, rispondendo a degli insulti, rivolti a sé stesso o rivolti agli altri. Ma Deidara non era un ragazzo violento, anzi, spesso e volentieri era lui quello che tornava a casa con le labbra spaccate, il naso sanguinante e le braccia piene di lividi e graffi.


*




«A volte penso che ti vergogni di me».
Sasori alzò pigramente gli occhi, distogliendo l’attenzione dal suo cocktail. Deidara lo stava fissando, stranamente serioso quella sera. Era sbilanciato sul tavolo, il mento abbandonato su un palmo, gli occhi velati di sonno. Non faceva altro che fissare annoiato il suo drink, girandovi continuamente dentro la cannuccia. Ne aveva assaggiato solo un sorso.
Sasori capì che si aspettava delle risposte, non avrebbe accettato i suoi soliti silenzi e le sue consuete alzate di spalle.
«Non mi vergogno affatto di te», rispose semplicemente, per poi affrettarsi a rituffare gli occhi nel bicchiere.
In uno scatto di rabbia, Deidara glielo strappò di mano, rovesciando alcune gocce di alcol sulla tovaglia e nella ciotola delle patatine. Sasori non ebbe altra scelta che guardarlo negli occhi. Quegli occhi color acquamarina, così penetranti e intransigenti.
«No? Allora perché in classe ci comportiamo come se fossimo due estranei?»
«Deidara...»
«Dai, dillo il perché. Come se non lo sapessi già. Credi che se i professori ti vedono scambiare due parole di troppo con il drogato della scuola, poi inizieranno a darti gli stessi voti che danno a me?» Deidara si concesse una risatina, finta come una maschera di carnevale. «Ha-ha, se sapessero che mi succhi il cazzo una sera sì e l’altra pure...»
«Abbassa la voce».
Sasori era evidentemente a disagio. Erano quelli i momenti in cui avrebbe volentieri preso a pugni Deidara fino a spaccargli la faccia. Si guardò intorno nervoso, temendo che qualcuno avesse sentito.
Ma fortunatamente il chiacchiericcio era costante e la musica del locale era alta. Inoltre, erano seduti in veranda, sul ciglio di una strada mediamente trafficata, e agli altri rumori si aggiungeva il continuo viavai di auto. Nessuno badava a loro.
Deidara scrollò la testa, e Sasori capì di averlo fatto arrabbiare più di quanto già non fosse.
«E se ti baciassi proprio qui, in questo momento, in mezzo alla gente?» lo provocò. La luce sintetica dei neon blu gettava strani bagliori sul suo viso e sui suoi capelli biondi, si ritrovò a pensare Sasori.
Si chiese come sarebbe stato allungarsi su quel tavolino traballante e baciargli le labbra, lì, davanti a tutti quanti. Non l’aveva mai fatto in pubblico.
Per un attimo immaginò di sporgersi verso di lui, afferrargli il colletto della maglietta e baciarlo come quando erano da soli, in una stanza o in un angolo buio. Invece non si mosse di un palmo.
«Io me ne torno a casa». Concluse Deidara, alzando le mani in segno di resa. Si alzò dal tavolo spingendo indietro la sedia, facendo il suo solito fracasso. Ma fece in tempo a fare solo pochi metri, che Sasori si alzò a sua volta. Lo raggiunse in pochi, veloci passi, lo afferrò per un braccio e lo forzò a voltarsi. In una frazione di secondo, gli passò la destra dietro al collo, e con la sinistra gli cinse la vita. Sollevò i talloni quel tanto che bastava per raggiungere la sua bocca, chiuse gli occhi e lo baciò.
Mosse le labbra cercando di schiudere quelle di Deidara, che erano restie ad aprirsi. Forse per la sorpresa, forse perché era ancora indispettito.
Dopo pochi attimi, si separarono, ma senza allontanare di molto i loro visi.
«Ho detto che non mi vergogno affatto di te, Deidara. Ma io non sono come te. Forse sei troppo egocentrico per capirlo, ma noi due siamo diversi. Dove tu butti all’aria le sedie io le rimetto sotto al tavolo, dove tu per salutare usi cento parole io dico solo ciao e a volte nemmeno, dove tu ti presenti con ciao sono Deidara e sono gay, io dopo cinque anni ancora non riesco a dirlo a mia madre. Ma mi piaci così, e io pensavo di piacerti così. Non sono il tuo fottuto sosia, quindi o mi accetti come sono, o ti scopi lo specchio del tuo comò, siamo intesi?»
Forse per la prima volta nella sua vita, Deidara rimase muto come un pesce. Anche se il suo silenzio durò pochi attimi, giusto il tempo per incassare le accuse, prima di curvare nuovamente le labbra in un sorriso.
«Hai ragione, sono un imbecille», rispose, sinceramente contrito. «Non sempre la mia bocca è collegata al cervello».
I suoi occhi glaciali, se prima erano irosi, ora si erano addolciti. Deidara fece per chinarsi di nuovo sulle sue labbra, quando qualcosa – o meglio qualcuno – oltre le spalle di Sasori catturò la sua attenzione.
«Cosa c’è?» chiese Sasori, non capendo perché tutto ad un tratto Deidara fosse sbiancato. Fece per voltarsi, ma l’altro lo afferrò per un braccio.
«Fermo», mormorò a denti stretti, «è il prof».
«Cosa? Quale prof?»
«Arte. Cazzo non l’avevo visto, era seduto due tavoli dietro di te, è assieme a una tipa...»
«Ci ha visti?» Deidara colse una punta di panico nella voce dell’altro.
«No, tranquillo, andiamo a casa ora».
Gettò un’ultima rapida occhiata ai tavoli del locale, poi circondò la schiena di Sasori con un braccio, e insieme sparirono nelle tenebre della periferia.


*




«Oggi interrogo».
A nulla valse il boato di dissenso che scatenarono quelle due semplici parole. Persino Sakura tentò di protestare, ma l’insegnante la zittì con uno sguardo che non ammetteva rivalse. Inforcati gli occhiali, iniziò a sfogliare il registro e a scorrere la lista degli alunni, fingendosi indeciso su chi chiamare. Poi, finalmente, rivolse la sua attenzione agli studenti.
«Sasori, vuoi accomodarti?»
Sull’intera classe era calato un silenzio glaciale. Deidara, seduto nel solito posto in fondo di fianco a Konan, si stava mordicchiando nervosamente le unghie, tanto che la ragazza gli afferrò una mano e gli rivolse uno sguardo preoccupato e interrogativo al tempo stesso. «Pezzo di merda...» sibilò tra i denti Deidara, mentre osservava Sasori che, lentamente, si alzava in piedi e raggiungeva la lavagna.
«Forza, iniziami a parlare dell’estetica di Rodin».
Rodin… Rodin… Il Bacio… la sua mente vorticava.
Non ricordava altro, Sasori. Solo una scultura chiamata Il Bacio in cui due figure uscivano dalla nuda pietra per unirsi in un drammatico ed eterno abbraccio.
«Il Bacio, è un’opera… scultorea che…» esitò. Non aveva ancora studiato nulla di Rodin, la verifica era stata fissata la settimana dopo. Tuttavia cercò di non perdersi, e di richiamare alla mente tutte le reminiscenze delle lezioni e del suo bagaglio di cultura personale.
«Le due figure escono dalla pietra e… il contrasto tra la pelle levigata dei corpi e la rozzezza della materia prima...»
Il professore scosse la testa. I suoi occhi erano duri e infastiditi. Non aveva mai rivolto al suo allievo migliore uno sguardo simile.
«Ti ricordi chi sono le due figure?»
Sasori deglutì e strabuzzò gli occhi. «Scusi?»
«Sasori, ti vedo stanco. Non hai dormito abbastanza?»
«Non sono stanco, professore».
«Allora qual è il problema? Ti ho fatto una semplice domanda».
«Sono due...»
«Sono due donne? Due muse?»
«No! Sono…»
«Paolo e Francesca», lo anticipò l’insegnante, «un uomo, e una donna».
Sasori deglutì nuovamente a vuoto, mentre sentiva un fastidioso nodo crescergli in gola. Sapeva di essere impallidito, e per quanto si sforzasse di mantenere il suo consueto autocontrollo, le gambe gli tremavano e iniziava a perdere lucidità. Mai come in quel momento aveva desiderato così ardentemente voltare le spalle a tutti e uscire dall’aula, uscire dalla scuola, rintanarsi nello spazio protetto della propria solitudine.
«Cos’altro sai dirmi? Elencami altre opere di Rodin».
Altre opere di Rodin? Non le ricordava… e in ogni caso, non era in grado di pensarci in quel momento. Passarono alcuni secondi in silenzio, secondi in cui Sasori non fece altro che fissare la lavagna e mordersi le labbra. Sentiva le guance bollenti di vergogna, il pallore aveva lasciato il posto al rossore.
Finché, finalmente, l’insegnante gli diede permesso di tornare al proprio posto.
«Direi che un tre non te lo toglie nessuno. Non capisco cosa ci stia a fare in questo liceo, uno studente che non è in grado di elencarmi almeno tre opere fondamentali di Auguste Rodin». Detto ciò, l’insegnante segnò velocemente il voto sul registro con la penna rossa. Dopodiché, con grande sollievo degli altri alunni, iniziò come di consueto a spiegare un nuovo argomento.
«Il Fauvismo è un movimento nato nella prima metà del ventesimo secolo...»
Sasori non ascoltò una sola parola della lezione, come se fosse d’un tratto diventato sordo a qualunque altro rumore che non fosse il ronzio dei suoi pensieri.


*




Stava attraversando il parcheggio della scuola a capo chino, lo sguardo mesto, la tracolla che gli pesava sulla spalla come se contenesse macigni. Poi, a un certo punto, si immobilizzò.
«Che diavolo stai facendo?»
Un Deidara sporco di colore dalla testa ai piedi allargò le braccia, mostrando apertamente un cutter nella mano destra, e un secchio di vernice verde nella sinistra. Le armi del delitto.
Senza fornire ulteriori spiegazioni, raccolse dall’asfalto un altro secchio di vernice gialla, e lo rovesciò senza rimorsi su un’audi che, fino a pochi minuti prima, doveva essere fiammeggiante e lucida come uno specchio.
«Dicono che sono un teppista, per una volta voglio dargli ragione… sono un teppista, e odio a morte quello stronzo che ti ha umiliato davanti a tutta la classe».
Poggiò a terra la vernice gialla e afferrò quella rossa. La usò nello stesso identico modo.
«E imbrattargli l’auto di vernice sarebbe una soluzione?»
«Sì, uhm! Sarebbe un inizio!»
Dopo aver svuotato anche le latte di vernice bianca e blu, e dopo aver sfumato con le mani i colori così amalgamati, Deidara estrasse un pennarello rosso dalla tasca dei jeans, e nell’ultimo spazio libero rimasto sul parabrezza scrisse:

Esplosione di colori.
Vernice su cofano.
Deidara Iwa.


«In fondo quello stronzo non ha mai capito la mia arte...» disse ironico, passandosi con noncuranza le mani bagnate di colore tra i capelli biondi. Le sue labbra erano curvate in un sorriso euforico e vendicativo, mentre ammirava il suo capolavoro.
«Sai, credo che neanch’io la capirò mai...»
Entrambi si guardarono, poi guardarono l’auto con le ruote sgonfie e la carrozzeria imbrattata di cento e più colori.
Scoppiarono a ridere, e si scambiarono un veloce bacio sulle labbra, prima di incamminarsi assieme.
   
 
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