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Autore: rora02L    14/09/2016    4 recensioni
Post ultimo libro, dopo un anno dalla fine della ribellione.
La storia è narrata dal punto di vista di Johanna e parla della sua paura per l'acqua, causata dal periodo di prigionia a Capitol, in cui è stata torturata appunto immergendola in acqua per poi essere attraversata da scosse elettriche.
Talassofobia: paura patologica del mare.
Partecipante al contest Phobos e Deimos indetto da meryl watase sul forum.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Johanna Mason, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Into the Water.




L'idrofobia, chiamata anche in alcuni casi talassofobia, è l'avversione anomala ed ossessiva per i liquidi, in particolare l'acqua. Non ha nulla a che vedere con l'omonimo laringospasmo della rabbia. Per la psichiatria l'idrofobia designa la paura dell'acqua o del nuoto. È comune la forma moderata, che consiste nella paura di acque profonde in generale, ma anche dell'annegamento. Una delle principali cause di questo tipo di fobia è sicuramente un trauma subito generalmente da piccoli con i liquidi. La maggioranza degli idrofobici non è in grado di nuotare e nei casi più gravi non riesce nemmeno a mettere la testa sott'acqua anche per brevissimi periodi.

L’ uomo non è mai riuscito a domare i flutti, né mai ci riuscirà. Il mare non è altro che una gelida coperta di morte.”
J. Deaver

Non penso a nulla, non posso provare altro che paura. Ma non del buio che sovrasta la mia cella, sporca e putrida. Nemmeno le urla di Peeta, quello sciocco panettiere innamorato, mi fanno paura. No, anzi: la paura inizia quando queste finiscono. Perché so che, dopo di lui, tocca a me. Tocca a me.
Per l’ennesima volta, sento la voce di Peeta affievolirsi, mentre ripete come un mantra cose senza senso. Istintivamente, mi rannicchio ancora di più in un angolino della mia cella, come se questo potesse nascondermi alla loro vista o impedirgli di prendermi con la forza e rifarlo. Tremo, sentendo la porta accanto chiudersi, con uno scatto metallico, seguita da i passi dei Pacificatori. Vengono da me, ora. Non ho paura nemmeno di loro, no. Ho paura dell’acqua.
Rabbrividisco al ricordo della scorsa tortura, ogni volta le scariche sono più potenti e l’acqua riempie i miei polmoni sempre di più. Avanza, centimetro dopo centimetro, fino a soffocarmi ed impedirmi di respirare. Poi arrivano le scosse, pervadono il mio intero corpo ed urlo, in modo bestiale. Come fa Peeta. Come facciamo tutti qui.
Mi domando quanto sarà insopportabile questa volta. E spero di morire. Non mi importa se per colpa dell’acqua o delle scariche. Voglio solo che la smettano. Mi tappo le orecchie come posso con le mani, doloranti per la scorsa tortura. Non sento i miei amati capelli, non mi sento più nemmeno umana. Ma i loro passi arrivano lo stesso, serrò gli occhi per non vedere allora. Non ho più la forza per dimenarmi, come facevo le prime volte. Quasi sorrido, ricordando quando ho rotto il naso ad un Pacificatore: è stato uno dei pochi momenti di felicità in questo schifo di posto dimenticato da tutti.
Mi tirano su a forza e mi trascinano quasi verso quella camera, che ho maledetto infinite volte e che mai smetterò di odiare con tutta l’anima. Mi gettano dentro e l’acqua inizia ad alzarsi, affogandomi in quella minuscola stanza. Intorno a me, c’è solo l’azzurro placido e mortale dell’acqua. La mia vista inizia ad appannarsi, sento le forze abbandonarmi ed i polmoni riempirsi sempre di più. Conosco questa sensazione: sto affogando. E che qualcuno mi aiuti a morire qui.
Ma l’acqua si ferma, piano piano esce da quella stanza delle torture. Mi lascio cadere a terra, stremata e fradicia, coi vestiti appiccicati al mio corpo ormai scheletrico. Ogni volta ho appena la forza di coprirmi il seno e di rannicchiarmi al suolo, per non farmi vedere così da quegli schifosi dei Pacificatori. Due di loro entrano, mi prendono come se fossi un sacco di farina e mi appendono a dei ganci usando delle corde. Sono completamente bagnata, esposta e tremante per il freddo. Non voglio. Non fatelo.
Tremo ed ho appena la forza per chiudere i miei occhi, prima che la scarica mi attraversi. Ogni cellula del mio corpo brucia. Urlo strillo strepito. Un’altra scarica e di nuovo il mio corpo grida di dolore. Le prime volte riuscivo anche a trovare il fiato per minacciarli, volevo sgozzarli tutti, poi sono passata agli insulti verso Snow e quei macellai dei suoi torturatori. Adesso urlo e basta.
Urlo.

Mi risveglio. Ogni notte ed ogni mattina va così. Mi ritrovo ogni dannata volta in questa casetta di campagna, vicino ad un piccolo lago: i dottori mi hanno detto che questa dimora sarebbe perfetta per me. Io invece non gli ho mai detto che quel lago mi dà la nausea e che ogni giorno penso che dovrei andarmene. Ma non ho nessun posto dove andare.
Ogni tanto ricevo visite da psicologi e vari strizzacervelli, che credono di sapere cosa ho passato e di potermi curare. Sono dei cretini superbi: nessuno potrà mai guarire una ferita simile. Nemmeno Peeta, che è uno dei pochi che riesce a comprendere i miei problemi, è riuscito a riprendersi. Forse un anno non basta. Forse ci vorrà la vita intera.
Sento la porta bussare. Aggrotto la fronte, nessuno viene mai a farmi visita e, per precauzione, tiro fuori la mia fedele ascia da sotto il letto. Se lo sapessero i miei dottori, me la toglierebbero. Ma lei mi ricorda che ero una persona forte, una volta. E mi fa sentire al sicuro.
Mi avvicino alla porta e sbircio dalla finestra accanto, appena coperta da una tendina bianca con dei fiorellini rosa ricamati sopra. Analizzo l’intruso: un uomo sulla trentina appena compiuti, alto, dai capelli ramati e gli occhi color oceano. Sento un tuffo al cuore ed una sensazione di panico e nausea pervadermi. Quel viso… mi ricorda tanto Finnick. Ma non voglio lasciarmi dominare da questo sentimento malinconico: spalanco la porta.
Il ragazzo sobbalza e sta per balbettare qualcosa, quando dico secca, facendo vedere la mia ascia: “Che vuoi? Io non li voglio gli scocciatori.”
Lui allora risponde, spaventato dalla mia arma, ma non abbastanza da desistere: “Sono il dottor Nereo Glauco, assistente del professor Caesar. Mi ha mandato qui per il suo… problema. Sono un esperto del settore.”
Mi consegna una lettera, la scarto con i nervi a fior di pelle e leggo le raccomandazioni di quel demente del mio nuovo strizzacervelli. Sostiene che questo dottor Glauco, laureatosi al distretto 2 da poco, sia uno dei migliori sul campo per il mio problema, per la mia fobia. Il giovane uomo che ho davanti ha esattamente 27 anni, originario del distretto 4 e volenteroso di aiutarmi nel risolvere la mia questione. Che fosse del 4 non era necessario specificarlo, non solo i suoi tratti sono tipici di quella zona… ma ha un odore di mare e salsedine addosso stranamente buono. Perché è familiare.
Sbuffo e lascio a terra l’ascia, invitando il dottorino ad entrare. Anche questa volta, non potrò sgozzare nessuno.

“Mi dica, ha fatto gli esercizi in acqua che il professore le ha prescritto?” Alzo le spalle: “No.” Ma per chi cavolo mi ha preso? “Come mai?” domanda lui, guardandomi mentre sorseggia la sua tazza di tè. Guardo il liquido verdastro nella tazzina di porcellana e già mi sento morire, figuriamoci fare quelle cose sceme che ha detto Caesar. Rispondo con non curanza: “Avevo altro da fare.” Nereo ridacchia, quasi sputacchiando il suo tè: “Ad esempio affilare la vostra adorabile ascia e spaventare chiunque osi bussare alla vostra porta? Signorina Mason, il mio professore sospettava che, dato il suo grande orgoglio, non avrebbe ammesso di avere un problema… di questo genere. Per questo mi ha fatto venire qua: se non le dispiace, la seguirò per tre giorni, sia nelle ore notturne che diurne. E le farò fare gli esercizi.”
Termina di bere, questa volta ridacchio io: “E come crede di fare, signor Glauco? Mi trascinerà in bagno e mi metterà sotto la doccia?”
Lui sorride e quel sorriso mi fa rabbrividire: ancora Finnick. Sono così distratta dai ricordi da non rendermi conto che Nereo ha preso la mia tazzina di tè, ormai freddo, e lo ha versato sulla mia mano. Scatto per allontanarla dal liquido appena ne sento la consistenza sul dorso. Tremo. Per quattro gocce d’acqua. Sento le scosse partirmi sulla mano e rabbrividisco. “Lei ha un problema. Mi faccia indovinare, fa delle docce di tre secondi netti? Signorina Mason… lasci che la aiuti.”
Lo guardo interrogativa: “Le ho chiesto come intende aiutarmi.” Nereo fa il pensieroso e poi esclama: “Iniziamo da una bella doccia, signorina Mason: mi dispiace ammetterlo, ma l’arom de sudor non è attraente. Non le si addice.”
Appena ti addormenti, ti pianto l’ascia nella schiena, scemo di un dottorino!

Mi vergogno a morte: ho addosso uno stupido costume bianco e il rumore dell’acqua che riempie la mia vasca da bagno mi infastidisce a morte. La guardo scorrere e rabbrividisco, tremo tenendomi il corpo con le braccia. Nereo si gira, chiedendomi se sono pronta. Non rispondo. I miei occhi sono fissi dentro la vasca. Non voglio entrare. Rimetterò in voga il profumo di sudore. Il dottorino sospira e mi tende una mano, dicendomi dolcemente: “La prego, signorina Mason… anzi, posso chiamarla Johanna? Si fidi di me, sono un esperto.”
Faccio un sorriso storto, continuando a tremare: “Signor Glauco, temo che lei non capisca che questo problema mi sta più che bene, non me ne frega nulla di una stupida doccia! E la sua presenza mi infastidisce.”
Nereo afferma che è indispensabile e che devo tenerlo per mano mentre entro. Scuoto la testa, facendo danzare i miei corti capelli bruni. Lui sospira e si alza, dato che era inginocchiato davanti alla mia vasca. Sgrano gli occhi: sta iniziando a spogliarsi. “Porca puttana, signor Glauco! Si rivesta subito!”
Lui ride e risponde placido: “Stia tranquilla, ho già il costume addosso… e non mi risulta di essere il primo uomo senza vestiti che vede, quindi non sia così scandalizzata: è per la terapia, devo entrare in acqua con lei.”
Digrigno i denti: “Un motivo in più per non farlo! Mi rifiuto di-“ Non termino la frase. Sono in acqua. La sento sul mio corpo e, nonostante abbia il costume, la sento ovunque. Inizio ad annaspare e a divincolarmi, sentendo le mani di Nereo bloccarmi i movimenti. “Stai calma, Johanna! Sono qui. Non stai per morire!” Piango.
Mi volto e piango sul petto nudo di Nereo, supplicandolo di lasciarmi andare: “Io non ho paura di morire. Io ho paura di soffrire. Lasciami!” Il panico mi pervade, il cervello è in palla, non capisco più nulla.
Vuoto.

“Mi scusi tanto, signorina Mason… non pensavo che il suo… problema fosse così… complesso, ecco.” Mi massaggio le tempie, maledicendolo a bassa voce, quasi tra me e me, per poi chiedergli cosa diavolo è successo. Mi spiega che sono svenuta dalla paura e dal panico. Era da tanto che non mi capitava di fare i conti con questo. Solitamente, per lavarmi, usavo l’acqua il minimo indispensabile ed ero sempre in spazi aperti. Prendevo dell’acqua dalla mia vasca da bagno e mi lavavo immergendo solo le mani ed insaponandomi. Non entravo mai totalmente in acqua né lasciavo che scorresse sul resto del mio corpo: già quel minimo contatto per me era puro dolore. Sentivo le scariche elettriche scorrermi tra le ossa e le vene delle mani e tremavo all’idea che l’acqua potesse entrarmi nella bocca, nel naso, fino a riempirmi i polmoni e soffocarmi… per poi sentire il dolore delle scosse. Quello mi fa paura: il dolore. Cosa vuoi che mi freghi della morte?
Lo dico allora a Nereo: “Non mi frega della morte. Ho desiderato morire. Molte volte. Per non sentire quel dolore… quel… maledizione! Non...” Le parole per spiegare cosa provo in quei momenti di angoscia e panico mi mancano. Dico al dottore di darmi della morfina, così mi calmerò. Lui mi risponde, placido: “No. Mi deve perdonare, signorina, ma non contribuirò a farle del male.” Sibilo allora a denti stretti, alzandomi dal mio divano rosso: “Lei mi ha già fatto del male.”
Con una mano lo strattono, sbattendolo a terra e mi dirigo su per le scale, verso la mia camera, dove in un cassetto tengo i medicinali e qualche fiaschetta di alcolici, per le notti di incubi. Il dottorino mi ritrova mentre sono sotto gli effetti della morfina, sdraiata sul mio letto. Il suo viso esprime disappunto. Ma non me ne frega un cazzo: “Sai che cosa mi hanno fatto?”
Lui mi guarda interrogativo, finché non gli rispondo: “Mi hanno quasi ammazzata. Quasi. Mi hanno fatta affogare e riemergere. Hanno dilaniato il mio corpo con le scosse. Io volevo morire. Loro me lo impedivano. Potevo solo soffrire. E gridare. Ora mi dica, signor Glauco: quanti pazienti con un trauma simile ha curato o studiato nei suoi sciocchi libri?” I suoi occhi si fanno più cupi e non serve che apra la bocca per sapere la sua risposta. Digrigno i denti e sbraito, furiosa: “Allora lasciami in pace e vai a farti fottere!”
Lui lascia la mia stanza, in religioso silenzio. Così posso lasciarmi andare ad un pianto liberatorio, silenzioso. Ripenso a Finnick. Quel caro ragazzo che credeva in quella sciocchezza dell’amore e che per questo si è fatto ammazzare. Il dottorino mi ricorda lui, ma sono due persone completamente diverse: Finnick mi avrebbe preso a sberle vedendomi in questo caso. Mi avrebbe insegnato a vedere nell’acqua una amica, come faceva lui. Mi avrebbe insegnato ad amare. Ma quel deficiente si è fatto ammazzare.
Non c’è più.

Scendo per andare in cucina, ho fame e trovo il dottorino ad aspettarmi, con la tavola imbandita. Gli dico, con tono irritato: “Mi sembrava di aver capito che te ne saresti andato.” Lui mi sorride, come se non fosse successo nulla. Come se non lo avessi spinto, come se non gli avessi urlato addosso. “Penso che resterò ancora un po’, non sono uno che si da per vinto… e voi? Anzi, approfittiamo del pranzo per entrare in sintonia: iniziamo dandoci del tu. Chiamami solo Nereo, Johanna.”
Non mi piace come dice il mio nome. O meglio, mi piace in un modo che non mi piace. Alzo l’angolo destro della bocca, in una smorfia di disgusto: “Io non voglio entrare in confidenza. Sono la signorina Mason per voi.” Lui ridacchia, quasi come se avessi detto una battuta stupida e mette in tavola una bottiglia di vetro verde piena d’acqua: “Penso che, dopo quello che è successo oggi, siamo già entrati un po’ in confidenza.”
Si riferisce a quando ho pianto tra le sue braccia, terrorizzata per via dell’acqua. Digrigno i denti, mentre lui continua: “Temo ci saranno altri episodi simili. Quindi direi che è il caso di comportarci come amici, invece che come nemici: abbiamo uno scopo in comune, no?”
Odio quelle parole. Quelle due parole ,“amici” e “nemici”. Mi ricordano i Giochi. M siedo: “Non vuoi essere davvero mio amico, Nereo. Tu vuoi solo vantarti di come mi curerai, perché sei talmente arrogante da credere di potercela fare. Beh, notizia flash: non puoi. Nessuno può.” Lo spezzatino di cervo è fumante davanti a noi. Nereo sorride ed alza la sua forchetta al cielo, come se avesse avuto una illuminazione: “Ah! Ecco il problema, mia cara Johanna: voi non credete di poter guarire. Siete più forte della vostra paura. Sicuramente nessun uomo può controllare i flutti dell’acqua. E il mare per molti è una coperta di morte. Ma non sei tra i molti, Johanna. Hai già riso in faccia alla morte svariate volte… - riempie il suo bicchiere- che vuoi che sia distruggere la sua coperta preferita?”

 

~

Oggi è il secondo giorno di permanenza del dottorino. Si è svegliato baldanzoso, con il costume addosso e nient’altro, presentandosi così in camera mia. Per poco non gli tagliavo la testa con la mia ascia, mi sono limitata a tirargli una cuscinata in faccia, sbraitando come una ossessa. Ma lui non si è scomposto, sorridendo mi ha detto: “Oggi andiamo al lago, mia cara Johanna! – inspira, come se ci fosse un odore particolare nell’aria- Già, faremo una bella nuotata tra le calme acqua di questo bel laghetto, insieme! - mi fa l’occhiolino- Vedi di non approfittartene.”
Praticamente mi costringe a mettermi il costume, mentre nella mia mente mi chiedo perché non l’ho già ammazzato: è seccante. Nereo ha anche preparato una specie di cestino da pic nic con le cose che ha trovato nella mia cucina. Uscendo, ammetto che la giornata è piacevole, le temperature sono ottimali e regna una bella pace nella foresta. So che non sono ancora andata in panico perché non ho ancora toccato l’acqua e sto cercando di non pensarci. Ho un altro costume addosso, questa volta color pesca. Nereo fa delle stupide battute sul fatto che mi sta bene, ma che ho la grazia di una addestratrice di elefanti. So perché mi sta punzecchiando, perché è tanto allegro e perché ha fatto quello stupido cestino: vuole distrarmi, farmi pensare ad altro e farmi vedere l’acqua come una cosa che posso gestire, di cui non devo aver paura. Arriviamo alle sponde del lago e Nereo, dopo aver lanciato un urlo entusiasta, si butta.
Ammetto che è un uomo di bell’aspetto, ma io sono decisamente più bella.

Non so perché sono in acqua. Ho una stramaledetta voglia di tirare un ceffone al dottorino e scapparmene a casa mia, lasciandolo fuori. Ma il gelido dell’acqua mi si conficca nelle ossa e mi è impossibile muovermi, se non tremando. Ho gli occhi serrati, cerco di distrarmi come posso. Finché non sento qualcosa di caldo prendermi le mani e la voce di Nereo, vicinissima al mio viso: “Johanna, va tutto bene. Non ti succederà nulla. Non permetterò a nessuno di farti del male.”
Ridacchio, ma è una risata amara. Perché penso che un Pacificatore lo butterebbe a terra senza alcun problema, Nereo è solo uno studioso, non un combattente. Io lo sono. E mi hanno messa in ginocchio, hanno spezzato il mio animo. Sono una Sopravvissuta, non una Vincitrice. Serro le dita sulla mano d Nereo, mi concentro sul calore di quelle mani senza calli e morbide, che immagino coperte di inchiostro ed intente a sfogliare libri. Mi ritrovo a fare un sorriso sghembo, pensando a come erano le mie, di mani, quando vivevo al mio Distretto: piene di calli, graffiate, ma forti. In grado di sollevare e bandire un’ascia come se fosse il prolungamento del mio braccio. Ora invece sembro un pulcino spaventato che impara a nuotare, terrorizzato. “Ci sono io con te.”
Nereo me lo ripete in tutti e dieci i minuti in cui rimango miracolosamente nell’acqua, a respirare affannosamente, concentrandomi sul dolce calore che questo ragazzo è in grado di donarmi. Mi ricorda ancora una volta il mio amico Finnick: lui era come il Sole, altrettanto bello e sfolgorante, ma anche caldo e dolce. Apro gli occhi lentamente i mi ritrovo l’oceano degli occhi di Nereo davanti: sorride. “Ci sei riuscita, Johanna!” esclama gioioso.
Ho spaccato la maledettissima fredda coperta della morte per dieci minuti. Usciamo subito dall’acqua appena sento il panico serpeggiare nelle mie viscere e mi scaglio sull’asciugamano per togliere il bagnato dalle mie gambe. “Sono molto contento dei tuoi progressi, se continuiamo così per un altro anno avremo risolto tutto!”
Lo dice con un ottimismo che mi rivolta lo stomaco. Non ha capito che non ho avuto paura perché nemmeno la sentivo, l’acqua. Sentivo solo le sue mani. Il suo respiro. Percepivo il suo corpo ed i suoi occhi puntati su di me. Desideravo le sue labbra. Così mi avvicino a lui. Lo bacio. Forse ora il dottorino capirà che la sua stupida terapia smetterà di funzionare nell’istante in cui se ne andrà. Mi stacco immediatamente, come se le sue labbra fossero fatte di fuoco. Nereo sussurra il mio nome, mi prende per il viso e mi bacia come se fosse la prima volta che si innamora.
Lo lascio fare.

~

Sono passati sei mesi dalla mattina in cui Nereo si è presentato a casa mia, dicendo di volermi curare. Non aveva idea di come mi avrebbe curata. Questa è la prima volta che mi tolgo il costume per fare la doccia. Da quando Capitol mi ha torturata, non sono riuscita a stare nuda sotto l’acqua.
Nereo si sta già insaponando i capelli ramati, fischiettando come un idiota: non si aspetta il mio intervento. Appena metto piede nella doccia, mi appiccico alla sua schiena da nuotatore, calda e rassicurante. Lo sento sobbalzare.
So che adesso sta sorridendo, mentre dice il mio nome, come quando rimproveri bonariamente un bambino per aver fatto una cosa carina ma stupida. Sto tremando per l’acqua, ma tento con tutte le forze di concentrarmi su di lui: voglio che sia fiero di me. Voglio che, quando andrà a parlare coi suoi colleghi strizzacervelli, dica che è orgoglioso di me. Voglio che si giri, mi veda nuda e faccia l’amore con me. Si gira.
Mi fissa coi suoi occhi blu ed istintivamente mi copro, ricordando come mi guardavano i Pacificatori. Nereo mi prende le mani, le bacia e le mette sul suo viso, sussurrandomi: “Va tutto bene. Johanna, sono qui. Va tutto bene.”
Mi bacia dolcemente. E facciamo l’amore. Sotto l’acqua.

  
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