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Autore: SagaFrirry    15/09/2016    0 recensioni
Hope è una ragazza apparentemente normale. Venuta a sapere del malessere dello zio, decide di tentare l'impossibile: riunire la famiglia. Essa è a dir poco originale, piena di dissapori e soggetti pittoreschi. Riuscirà la Speranza a far trovare un accordo alla "famiglia più importante del Mondo"?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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XIV

 

Roma, Italia

 

Hope correva lungo le strade  di Roma. Le era stato detto che il padre aveva bisogno di lei ma non riusciva a trovarlo. Era passata per la grande casa il cui lui viveva in Città del Vaticano. Aveva attraversato la moltitudine di stanze, buie e piene di mobili antichi, che riempivano l’aria di odor d’antico, profumo d’eternità. Aveva chiamato il genitore lungo i corridoio sentendo di risposta solo il suo eco ripetuto. Eppure, constatò, non poteva essere molto lontano perché tutte le cose a cui teneva di più erano lì. Non sarebbe mai andato da nessuna parte senza molte delle cose di mamma che ora lei vedeva. Al cellulare, ovviamente, non le rispose. Lasciò l’edificio, stupita poiché non c’era il giardino. Suo padre sceglieva sempre case con ampi spazi verdi. L’ingresso dava sulla strada. Fece per attraversare, rassegnata perché non sapeva più dove cercare, quando una moto le tagliò la strada e quasi la investì.

“Guarda dove vai, stronzo!” urlò, continuando a camminare.

“Povera piccola Hope…” sentì il motociclista mormorare.

“Mi conosci?”.

“Certo. Povera piccola Hope…hai cercato papà dappertutto, vero? Case, locali, parchi, catacombe…eppure lui non c’è! E tu ti senti frustrata perché ti han detto che ha bisogno di te…”.

“Se sai dov’è dimmelo, se no chiudi la bocca e lasciami in pace!”.

“Quanta rabbia in te, giovane Speranza”.

“Giovane un paio di balle e adesso sparisci, se non sai aiutarmi”.

“Io non posso dirti dove si trova esattamente ma posso aiutarti…ricorda che devi guardare in alto”.

“Guardare in alto?”.

“Tuo padre è alla costante ricerca di un pezzo di cielo perduto. Guarda in alto, bambina!”.

Detto questo la moto ripartì, con un boato, a si allontanò. Hope, tossendo per i fumi di scarico, storse il naso.

“Guarda in alto”? In che senso? Fece ancora qualche passo, con le mani nelle tasche del lungo cappotto nero, e poi alzò lo sguardo. Non vedeva altro che case, case e strade. E poi lo vide. E si rimise a correre. Quell’ombra lassù, in piedi su un ponte sopraelevato, era sicuramente suo padre. E guardava giù.

 

Sentiva il vento, contaminato dall’inquinamento di Roma. Nessun rumore naturale. Solo motori, clacson e sgommate. Sotto i suoi piedi solo cemento ed asfalto. Sopra di lui solo il grigio del fumo e delle nuvole di quella fredda mattina di fresca primavera. Avvolto in un Mondo artificiale, il padre di Hope rimaneva immobile, sul ciglio di un ponte rialzato, guardando le macchine che ci passavano sotto. Dietro di sé avvertì lo spostamento d’aria provocato da un grosso TIR che decisamente infrangeva i limiti di velocità. Con gli occhi screziati di un magnifico rosso, si accorgeva di quanto indifferente fosse la gente. Nessuno faceva caso al fatto che, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciarsi cadere di sotto. Apparve una smorfia sul suo viso. I capelli neri, sciolti e mossi dal vento, avevano su di loro tutto l’odore delle sigarette che il loro proprietario fumava continuamente, assieme ad una lieve venatura di balsamo speziato. Si sentiva in mezzo al cielo. Il vento gli spingeva indietro la camicia, quasi del tutto aperta, e lo sorreggeva. Teneva le mani in tasca, con sguardo perso nel nulla, in cerca di un angolo azzurro fra le nuvole. Le macchine continuavano a passare e nessuno dei loro occupanti si preoccupò del fatto che, molto probabilmente, c’era una persona in procinto di buttarsi.

“Umani…come siete diventati…” mormorò lui, restando in piedi per non si sa quale legge infranta di gravità e con espressione di rimprovero.

Il vento iniziò a soffiare più forte, fischiando fra i pilastri di cemento. Lui socchiuse gli occhi. Un’ombra scura lo fissava, da sotto il ponte, levitando in aria in posizione orizzontale.

“Israfil…” mormorò il padre di Hope.

“Ciao, Iblis” gli rispose l’ombra, con voce profonda.

“La foglia dell’albero cosmico con su scritto il mio nome è finalmente caduta, angelo della morte? Sei venuto a prendermi?”.

“Sai che questo non è possibile, amico mio”.

“E allora perché sei qui?”.

“Tua figlia, la mia consorte, la Morte, è in apprensione ed io sono venuto personalmente a vedere che cosa combini…”.

“Torna a lavorare, angelo nero. Io faccio ciò che voglio!”.

“Puoi fare ciò che ti pare. Ma ti ricordo che, anche se ti butti, non puoi morire!”.

“Questo è tutto da vedere!”.

 Spalancò le braccia e si inclinò in avanti. L’angelo lo fermò con un dito, riportandolo in posizione verticale. Poi scomparve.

Rimasto solo, colui che era stato chiamato Iblis tornò a sporgersi, pronto ad andare di sotto.

“Qualcosa non và, signore?” sentì una voce alle sue spalle.

Molto stupito, il padre di Hope girò la testa leggermente. Sbatté gli occhi con aria interrogativa.

“Tutto bene?” si sentì domandare di nuovo.

Era un ragazzo, alto e magro, vestito di chiaro al quale Iblis non rispose.

“È tutto a posto?” insistette il ragazzo.

“Certo!” ridacchiò di risposta l’uomo, con tono sarcastico “Ogni giorno io mi metto così sui ponti. È il mio hobby. È divertente e non ho niente di meglio da fare che contare gli automobilisti che guidano parlando al cellulare senza auricolare”.

“State scherzando?”.

“No. Sono un ausiliario del traffico. La creatura più malvagia e diabolica della Terra”.

“Non dite fesserie. Non vorrete mica buttarVi di sotto?!”.

“No. Sto qua a cantare, come gli uccellini sui fili della luce”.

“La smetta. E venga via di lì”.

“Non darmi ordini, ragazzino!”.

“Papà!” urlò Hope, arrivando di corsa “Che fai?!”.

“Guardo il panorama. Puoi portarmi via questo scocciatore?” borbottò il genitore, indicando il ragazzo che gli stava accanto.

“Andres?” disse, in tono interrogativo, Hope.

“Ciao, Hope” salutò il ragazzo.

“Conosci questo impiccione?”.

“È il mio vicino di pianerottolo a Kilkenny”.

“Un irlandese?”.

“Non proprio, signore” rispose Andres.

“Peccato. Mi piacciono gli irlandesi…”.

“Non cambiare argomento e vieni qui!” esclamò Hope, sporgendosi leggermente dal battistrada.

Ma suo padre non si mosse.

“Non fare il bambino! Vieni qui! Dammi una mano, Andres…”.

Andres le andò vicino, non sapendo bene che cosa fare.

“Figlia mia…” iniziò il padre “…che tristezza! Gli umani sono cambiati così tanto! Non sanno più la differenza fra bene e male, fra giusto e sbagliato. Conoscono solo l’indifferenza. A che serve la Sapienza, la Speranza, la Libertà, la Colpa.. ed a cosa serviamo tutti quanti noi, fratelli, se loro vivono per l’indifferenza? A cosa serve la mia presenza e la tua, bambina, per non parlare di tutti gli altri membri della famiglia, se non hanno altro che nebbia nel cervello questi esseri?”.

“Non parlare così!” sussurrò Hope “C’è uno di loro qui accanto a me!”.

Il ragazzo non parve agitato sentendo quelle parole.

“Sono privi di sentimenti e di emozioni. Ma non perché ne siano al di sopra, come déi, ma perché ne sono privi, come i sassi! Ed io che ho tanto faticato, assieme ai miei fratelli, a donare a questi cosi qualcosa di speciale…”.

“Papà, piantala!” sibilò Hope, accigliata.

“Guardatemi!” urlò suo padre, spalancando le braccia “Guardatemi, esseri ingrati! Ho le mani grondanti di sangue mortale e porto i segni sulla pelle di tutti i vostri errori! Guardatemi! Guardate l’aspetto che mi ritrovo per la scelta della Sapienza!”.

“Papà! Basta!”.

“Guardali, figlia mia! Potrei aprire le ali qui, ora, e nessuno ci farebbe caso. Potrei mostrare il mio aspetto più terribile e nessuno si fermerebbe a fissarmi, spaventato!”.

“Ok, ho capito il concetto. Anche se non comprendo i discorsi sulla Sapienza. E adesso vieni qui, smettila. Stai tranquillo e calmati”.

“Non voglio calmarmi!”.

“Sei veramente fuori di testa! Sei davvero impazzito come dicono!”.

“Chi lo dice?!”.

“Che te ne frega?! Ma muoviti da lì e stai zitto”.

“Non darmi ordini!”.

“Ok. Stai pure lì, se ti va! Ma chiudi la bocca…o, perlomeno, abbassa la voce!”.

“Non è un problema” affermò Andres, sorridendo.

“In che senso non è un problema?” si stupì Hope.

“So chi sei. Più o meno…”.

“In che senso?”.

“Ho visto il tuo tatuaggio. Quello che porti sulla spalla sinistra”.

“E con questo?”.

“Sono qui per un motivo”.

“E quale sarebbe il motivo?”.

“Non lo so…”.

“Stupido umano, parla in modo decente!” protestò il padre.

“Non saprei spiegarmi meglio di così, signor L.”.

“Signor L?!”.

“Non le piace? Ho fatto delle ricerche e so che non ha propriamente un nome ma tanti diversi perciò, dato che mister X mi pareva tanto stupido, ho pensato di usare la prima lettera del nome con cui la mia cultura vi identifica…Lucifero. Signor L”.

“Carino” ridacchio Hope.

“Stupido” commentò, invece, suo padre.

“Ad ogni modo…io, mi spiace, ma seguo te, Hope, già da un po’. Questo in seguito ad uno strano sogno che ho fatto una notte…”.

“Fammi indovinare…un angelo?!” borbottò il “Signor L.”.

“Sì, esatto! Ho sognato un angelo. Un meraviglioso angelo che mi ha detto che avrei incontrato Hope, spiegandomi chi fosse, e che l’avrei riconosciuta da un tatuaggio sulla spalla. Poi mi ha avvertito che avrei dovuto starle vicino. All’inizio pensavo che fosse solo un sogno e non ci ho fatto caso. Ma poi ho visto lei ed era come mi aveva detto l’angelo: i capelli, il tatuaggio, il nome e soprattutto…i suoi bellissimi occhi!”.

Hope arrossì, stupendosi della cosa.

“Grazie” mormorò.

“Prego! È la verità! Avete degli occhi bellissimi e ho rivisto gli stessi occhi in voi, Signor L., ed ho subito capito perché avrei dovuto seguire Hope: per aiutarvi. Non so cosa stia succedendo, ma mi piacerebbe poter fare ciò che l’angelo mi ha detto di fare. Voglio aiutare”.

“Lo hai gia fatto” sorrise Hope “Ti ringrazio, Andres. Gli hai impedito di buttarsi giù”.

“Bravo” ghignò, sarcastico, il padre “Adesso sparisci e torna alla tua vita! E, comunque, non posso morire perciò non sarebbe cambiato nulla anche se mi fossi buttato!”.

“Avresti arrecato danni al tuo corpo materiale. Per non parlare del fatto che i mortali inconsapevoli ti avrebbero visto…” iniziò Hope.

“E avrebbero chiamato qualche strano programma televisivo in modo da stabilire se sono un alieno. Già ce li vedo…”.

“Non fare lo stupido, papà! E ringrazia”.

“Perché dovrei?”.

“Non serve che mi ringrazi…” esclamò Andres.

“Di fatti non lo deve fare” ringhiò qualcuno, alle spalle dei tre.

“Hantay!” esclamò il padre, balzando al sicuro, lontano dal bordo del ponte.

“Esatto. Hantay. Il tuo adorato, unico, figlio maschio. Al quale hai nascoste un po’ troppe cose”.

“Che intendi dire?” si stupì Hope.

“Mia cara sorella…tu sei troppo buona e fiduciosa. E, sinceramente, troppo stupida per capire”.

“Non parlare in questo modo a tua sorella!” tuonò il padre, sconcertato dalle frasi del figlio.

“Perché se no cosa mi fai? Mi nascondi e dici a tutti che sono morto?”.

“Non so a che cosa tu ti stia riferendo, ragazzo mio, ma mi auguro che questo tuo atteggiamento sia solo temporaneo, magari dettato da chissà quale accadimento…”.

“Credimi, non lo è. E adesso buttati di sotto, prima che ti ci scaraventi io!”.

“Ma che stai dicendo?!” parlò Hope, con voce più che meravigliata da quell’ordine.

“Fatti gli affari tuoi, donna!”.

“Hai appena ordinato a mio padre di gettarsi da un ponte! Sono affari miei!”,

“Non è solo tuo padre!”.

“Appunto! Come fai a parlargli in questo modo?”.

Hantay aveva gli occhi completamenti rossi, lucenti e con pupille sottilissime. Oltre al colore avevano anche cambiato forma, divenendo simili a quelli di un gatto. Non sbatteva le palpebre ma guardava fisso la sorella. E sorrideva, con un ghigno malvagio ed inquietante. Ringhiava sommessamente. Hope non si mostrò intimorita ma ringhiò a sua volta. Il fratello, stuzzicato, spalancò la bocca in una specie di ruggito, mostrando una riga di denti aguzzi e affilati. Il tutto senza che nessun autista di passaggio ci facesse caso o notasse nulla. Il padre rimaneva in disparte, a braccia incrociate, guardando i suoi gemelli, lei vestita in modo quasi normale e lui con solo la specie di gonna che aveva in Nepal. Ma di nemmeno questo nessuno dei passanti parve interessarsi o, in qualche modo, stupirsi. Andres, intimorito dal ruggito, sobbalzò. Solo in quel momento Hantay si accorse che quel ragazzo era mortale. Ghignò, soddisfatto, e si passò la lingua biforcuta sulle labbra.

“A che stai pensando?” sibilò il padre, alzando un sopracciglio.

“Che volete fare?” chiese Andres, allarmato dall’eccessiva vicinanza di Hantay.

Pur essendo un ragazzo parecchio alto, risultava più basso di chi aveva di fronte. Hantay era più alto del padre, che comunque era sopra la media.

“Che volete fare?” ripeté, non ricevendo risposta.

“Vedi un po’ tu…” rispose l’altro, annusando e toccando il ragazzo.

“In che senso?”.

“Tu sei un umano. Un misero ed inutile umano. Ed io…”.

Il padre rizzò le orecchie e sciolse le braccia, chiamando la figlia.

“Hope…” parlò, mentre la figlia si girava a guardarlo, allarmata.

“Io ho fame!” sibilò Hantay, balzando verso Andres.

“…scappa!” urlò il genitore, scattando e riuscendo ad anteporsi fra figlio e mortale, afferrando quest’ultimo fra le braccia e buttandosi dal ponte.

Andres gridò. Hantay pure e Hope sbuffò, sollevandosi da terra per allontanarsi dal gemello furioso.

“Figlia mia! Ci vediamo in Indonesia!” gridò il padre, spalancando le ali e attraversando il sottopasso con agilità.

Questa frase fece sorridere la figlia, che atterrò e si allontanò verso la casa in cui aveva lasciato la sua borsa e le sue cose per poter, poi, raggiungere la famiglia.

“Ti uccido! Torna qui, maledetto bugiardo!” sbraitò Hantay, spalancando enormi ali da pipistrello ed inseguendo il gruppo.

Il tutto senza che nessuno dei mortali sulla strada notasse qualcosa, tranne un bambino che però non venne creduto quando raccontò cosa aveva visto.

 

Andres era terrorizzato ma il suo trasportatore lo rassicurò. Non lo avrebbe lasciato andare.

“Non per offendere, Signor L., ma credo che stia volando un po’ troppo in alto!”.

“Non per essere sgarbato, Andres, ma direi che ho parecchia esperienza di volo. Ad ogni modo sono piuttosto in alto per uno scopo: non essere visto. Avvertimi se, per caso, non riesci più a respirare. A voi umani capita se siete troppo in alto”.

Andres si immobilizzò e trattenne il fiato.

“Non tremare! Non ti lascio!”.

“Perché non mi lascia andare a casa?”.

“Non lo hai detto tu che hai uno scopo? Che un angelo ti è apparso? E allora vieni con noi, con me e la mia piccola Hope, e cerchiamo di capirci qualche cosa. Anche perché se hai sognato un angelo di sicuro hai qualche cosa a che fare con mio fratello”.

“Fratello?!”.

“Sì. Che mi deve delle spiegazioni. Ecco perché lo sto raggiungendo a Kai. Sei cristiano?”.

“Esatto. Si vede tanto?”.

“No. Ma siete la maggioranza…”.

“Le da fastidio che io lo sia?”.

“No. Che me ne frega! Ad ogni modo…”.

“Avete un fratello?!” interruppe il giovane.

“Hai presente tutte le storie su Dio, il Diavolo, il fatto che lui ha creato tutto da solo eccetera?”.

Andres annuì. “Bene. Sono tutte balle! E non solo dal punto di vista scientifico”.

Andres non disse niente, non trovando le parole.

“Capirai tutto, forse, quando sarai in Indonesia. Puoi sentirti onorato. Non credo che mai a nessun mortale sia stato permesso di sapere certe cose, ma dato che il mio caro fratellino ti ha mostrato un angelo…immagino voglia vederti. La mia è solo un’ipotesi. Potrei anche sbagliarmi…”.

Hantay volava dietro al genitore, velocissimo, urlando in varie lingue, quando una luce fortissima lo fece fermare. Si coprì il viso con le mani finché non si abituò al bagliore e riaprì gli occhi. Davanti a lui stava un’angelo, una femmina, che lui trovò splendida, con lunghi capelli turchini ed occhi viola.

“Lasciali andare, Hantay. Trattieni la tua rabbia per quando sarete tutti in Indonesia” parlò.

Lui la trovò così bella da non avere la forza di far altro che obbedire, in silenzio, prendendola per mano per andare assieme all’Isola di Kai.

 

“Attento, Andres. Reggiti” ridacchiò il “Signor L”, scendendo in picchiata.

Andres non poté far a meno di urlare, vedendo il mare sotto di sé avvicinarsi a folle velocità.

“Chiudi gli occhi!” gli consiglio il trasportatore.

“Già fatto!” gemette il trasportato.

“E adesso vediamo, pivellino, se meriti di essere mio figlio!” sibilò, con un ghigno compiaciuto, il genitore mentre planava vicinissimo all’oceano.

“Riapri gli occhi, Andres. Te lo consiglio”.

Andres obbedì e rimase ammirato. A destra ed a sinistra c’era un’infinita distesa di mare blu.

“Apri le braccia. Fingi di volare” si sentì suggerire.

Il ragazzo obbedì e urlò di gioia. La brezza era piacevole, Hantay non li inseguiva più e un gruppo di delfini li stavano come scortando, con grandi salti.

“Dove siamo, Signor L?”.

“Sull’oceano Atlantico. Non voglio passare sull’Africa ma sorvolare l’America questa notte e arrivare alla meta da est”.

“Come mai, se mi è lecito chiedere?”.

“Perché gli americani son facili da far fessi e mio figlio non ci può trovare oltre la coltre di inquinamento che ci avvolgerà oltre l’azzurro su cui voliamo ora”.

Il “Signor L” ridacchiò, mentre invitava Andres a guardare il tramonto e il ragazzo spalancò gli occhi pieno di meraviglia e gioia. Pur essendo in bilico, ed in braccio ad una creatura non molto rassicurante, sopra il mare aperto, non poteva far altro che provare sensazioni piacevoli.

“Bellissimo!” esclamò, vedendo apparire le prime stelle.

“Grazie. Devo ammettere che certe cose ci son venute bene” fu la risposta, mentre con il buio gli occhi del trasportatore iniziarono a brillare in modo molto intenso.

Alcuni americano sotto di loro, vedendoli, si convinsero di aver visto delle stelle cadenti. Altri un U.F.O.

   
 
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