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Autore: Demetra    16/09/2016    3 recensioni
Il pensiero di immaginarla in un certo modo lo metteva ancora in imbarazzo.
Di sicuro aveva una bella pelle.
Ma questo, probabilmente, non glie lo avrebbe mai detto.
Forse lo avrebbe fatto un giorno.
Magari non troppo lontano.
Forse.
Se lei fosse venuta.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Io c’ero

 

Nuvoloni cupi e carichi di pioggia avevano oscurato il cielo, sollevando mormorii indignati tra il gruppetto che avanzava lentamente verso il campo di Quidditch. Alcune gocce di pioggia avevano già cominciato a riversarsi sul campo, rendendo ancora più difficile raggiungere gli spogliatoi che si trovavano in uno degli anfratti sotto le tribune. Senza contare che la pesante cassa che conteneva: Bolidi, Pluffa e Boccino, li rallentava ulteriormente rendendo ancora più difficile mantenere il passo. Non sarebbe stato facile volare in simili condizioni; per di più il fatto che il capitano della squadra fosse stato esonerato per infortunio non giovava né al gruppo né tantomeno all’esito che avrebbe potuto avere quella partita.

Non era la prima volta che metteva piede nel campo, ma una cosa era attraversarlo con la divisa di Hogwarts mentre accompagnava il suo migliore amico agli allenamenti, un’altra era imbracciare una vera e propria scopa con tanto di caschetto, guanti e uniforme della squadra. Anche se ormai era diverso tempo che era stato reclutato, non aveva ancora imparato a controllarsi, a domare le proprie incertezze e paure.

Poteva sentire le proprie dita, leggermente intorpidite per il freddo, serrarsi automaticamente attorno al manico che sicuramente aveva visto giorni migliori. Il legno scuro e tarlato, in alcuni punti, gli conferiva un’aria decisamente troppo vecchia e malandata per essere stata, anche solo vagamente, presa in considerazione per un allenamento di Quidditch. Figuriamoci per una partita.

Tuttavia sembrava che Madama Bumb non avesse avuto molta scelta dal momento che quel malridotto manico era stato appoggiato alla parete dello spogliatoio insieme a tutte le altre.

Una volta dentro si tolse il mantello; era talmente fradicio che diverse goccioline schizzarono ovunque, colando sopra il consunto e scricchiolante pavimento in legno. Fortunatamente c’era un fuoco crepitante nel camino, che non solo illuminava gradevolmente la stanza, ma riscaldava dal freddo penetrante che continuava a perturbare all’esterno.

Indossava ancora la divisa. La cravatta portava un’evidente segno di una colazione consumata in fretta. Una macchia di marmellata spiccava su una delle fascette gialle, che componevano i colori della casa di Grifondoro. Fragole, pensò con rammarico, cominciando a pentirsi di non essere potuto rimanere in Sala Grande con tutti gli altri. Assistere alla partita, restando solo a guardare, aveva i suoi lati positivi. Almeno il loro capitano si sarebbe risparmiato non solo quella freddolosa giornata, ma anche la probabile umiliazione di una sconfitta.

Corvonero non brillava certo per abilità, ma possedeva discrete tattiche che il più delle volte facevano perdere un sacco di punti. Cho-Chang poi, l’ultimo acquisto, era una cercatrice particolarmente abile. Chissà se anche il loro sostituto sarebbe stato all’altezza. Passò distrattamente le dita su quella macchia scura, appena visibile, trattenendo il respiro.

Chissà se lei sarebbe venuta a vederlo.

Dopo tutto quello che era successo, non poteva esserne sicuro; era ancora arrabbiata probabilmente. In fondo lui si era comportato da stupido.

Flirtare con un'altra, proprio quando lei si era decisa a fare il primo passo per entrambi, invitandolo a quella maledetta festa di Natale, non era stata decisamente una delle sue mosse migliori.

Ecco cosa significava una “verità scomoda”. Non l’aveva mai capito prima.

Lasciò dondolare la testa tra le mani per qualche momento, i ciuffi rossi illuminati dal bagliore del fuoco avevano assunto una tonalità talmente accesa da farli sembrare quasi incandescenti; stavano tutti ritti e fermi tra le sue dita, solleticandole leggermente. Quei capelli che erano stati presi di mira centinaia di volte e sempre dagli stessi soggetti: Serpeverde purosangue, viziati e ridicoli nei loro modi di fare e di atteggiarsi, come se fossero stati al di sopra di tutti. Come se la loro casa non fosse in realtà un marchio di infamia che ormai gli era rimasto appiccicato addosso come una mosca a una montagna di…

Il boato di diverse urla e fischi da stadio lo riscossero da suoi pensieri. I suoi compagni avevano già indossato le proprie uniformi e gli stavano intimando di sbrigarsi.

“Guarda che ci serve il portiere!” gli avevano notificato, tirandogli addosso il caschetto e i guanti.

Evidentemente la colazione in Sala Grande doveva essere finita. Scendendo verso il campo, con il maltempo, non si era reso conto di quanto ci avessero realmente impiegato per raggiungere lo spogliatoio. E adesso…adesso erano tutti lì fuori, in attesa. Ammassati sopra le tribune e tutt’intorno allo stadio, sperando che la pioggia non guastasse la partita e che Madama Bumb non fischiasse per dichiarare l’incontro nullo.

Magari fosse successo.

Pensò, cominciando a disperare sentendo la folla incitare, al di fuori, i giocatori perché uscissero.

Lui però non era ancora pronto. Non sarebbe mai stato pronto. Forse aveva fatto perdere tempo a tutti: il capitano si era sbagliato, l’intera squadra si era sbagliata. Avrebbero dovuto rifare le selezioni e trovare qualcuno più adatto. Uno come McLaggen probabilmente.

Era ancora in tempo, in fondo, avrebbe potuto scusarsi, consegnare la divisa e lasciare di fretta il campo, per andare a nascondersi in qualche oscuro anfratto del castello. Non avrebbero sicuramente sentito la sua mancanza, soprattutto non appena avesse fatto passare la prima Pluffa dentro uno degli anelli. Non era tagliato per fare il portiere: troppe responsabilità. Tutto considerato sarebbe stato meglio se fosse rimasto in quella dannata Infermeria, semi-incosciente con il Bezoar ancora ficcato nella gola, mentre cercava di impedire al proprio corpo di non arrestarsi per avvelenamento. Oppure sarebbe stato sicuramente migliore come Cercatore, benché non fosse particolarmente veloce o abile con la scopa, ma se avesse perduto o schivato il Boccino nessuno se la sarebbe presa con lui. In fondo era una cosa che capitava spesso: perdere il Boccino. Far passare la Pluffa però, permettere agli avversari di avvicinarsi quel tanto da assestare un bel punteggio: no, quello non era ammissibile. Il portiere doveva essere sveglio, agile, potente, aggressivo, tutte cose che lui non era e di cui non sarebbe mai stato all’altezza. Grifondoro era già abbastanza giù di morale per le ultime partite e per il continuo cambio di giocatori, un’altra sconfitta non avrebbe fatto altro che demoralizzarli otre a far perdere credibilità alla squadra.

Come se non ne avessero avuto già abbastanza.

Grifondoro avrebbe meritato di meglio. Anche “lei” avrebbe meritato di meglio. E lui, di certo, non era “il meglio”.

Tastò con le dita umide il bordo del colletto, in cerca del nodo che allentasse la cravatta.

Ma non c’era: la cravatta era sparita.

Se l’era sfilata senza neanche accorgersene e adesso lo fissava. Quella maledetta macchia di marmellata di fragole osava guardarlo negli occhi ricordandogli che in fondo non era all’altezza. Che sarebbe stato meglio in Sala Grande o nelle tribune, con tutti gli altri.

Se almeno lei fosse venuta.

Immaginò di scorgere il suo volto impaziente tra la folla; le labbra corrucciate e le dita fredde avvolte dai guanti in cerca di una minima traccia di calore.

Non amava molto il freddo, non quando era costretta a starsene per ore fuori; lontana dai suoi amati libri e dal crepitio rilassante del caminetto. Solitamente resisteva per una mezz’ora o poco più prima di infilarsi nel primo pub decente che trovava sulla strada. Solitamente la scelta ricadeva sui Tre Manici; lei adorava quel posto. E anche lui. Non era imbarazzante come la Sala da tè di Madama Piediburro, e non era nemmeno una bettola scalcinata come la “Testa di Porco”. Con tutto il rispetto per Aberforth, ma quel dannato locale puzzava di cavolo e uova marce.

“I Tre Manici” erano decisamente più accoglienti, non solo per la sala ampia e piacevolmente riscaldata, ma anche per Madama Rosmerta che attirava più clienti di un firewiskey incendiario; anche se lui aveva imparato più ad apprezzarla per il modo in cui decorava abilmente i bicchieri di ombrellini e ciliegine colorate.

Era una bella donna, Rosmerta, ma anche “lei” stava cominciando a non essere niente male. Anche se il pensiero di immaginarla in un certo modo lo metteva ancora in imbarazzo.

Di sicuro aveva una bella pelle.

Ma questo, probabilmente, non glie lo avrebbe mai detto.

Forse lo avrebbe fatto un giorno.

Magari non troppo lontano.

Forse.

Se lei fosse venuta.

 

***

 

Un paio di occhi castani si posarono sul ritratto di una vecchia foto caduta dall’ album che era rimasto aperto ai suoi piedi. Aveva i bordi consunti, un po’ ingialliti, sciupati un po’ dalla polvere e un po’ dal tempo.

Un paio di manine morbide strinsero leggermente le pieghe della carta, osservando l’uomo in divisa rosso-oro muoversi agilmente tra gli anelli, parando la Pluffa che altrimenti sarebbe entrata segnando inevitabilmente il punto.

 “Papi?” aveva domandato con una voce sottile e allegra, mentre l’uomo alle sue spalle le lasciava un tenero buffetto su una guancia seguito da un bacio. I suoi occhi si soffermarono per qualche secondo sul ritratto tra le mani della piccola, non potendo impedire alle proprie labbra di aprirsi in un sorriso.

“Si, questo è proprio il tuo papà” mormorò con una punta d’orgoglio, stringendo a sua volta quella vecchia cornice tra le mani; incontrando lo sguardo di quegli occhi verdi, identici ai suoi,  di un giovane così magro e acerbo che evidentemente non ancora pronto a tutto quello che la vita gli avrebbe riservato.

Osservò quei ciuffi rossi, un po’ più folti e più ribelli dei suoi, oscillare al vento. Mentre un silenzioso e muto grido di giubilo si percepiva uscire dalle sue labbra.

I boccoli altrettanto rossi e ribelli di sua figlia si sparpagliavano morbidamente sulla sua maglia, mentre la piccola cercava di accoccolarsi meglio tra le sue braccia, in cerca d’affetto.

“Papi” ripeteva in piccoli versi d’entusiasmo, mentre tentava con le dita di tirargli la pelle delle guance, come se volesse farlo assomigliare al giovane della fotografia.

L’uomo sorrise, baciandole la punta del naso e appoggiando la sua fronte ampia, venata solo da qualche sottilissima ruga, a quella di lei, decisamente più liscia e morbida. Gli occhi castani vispi, come quelli di sua madre, lo fissavano come se cercassero di memorizzarne avidamente ogni tratto: ogni piccola parte del suo meraviglioso papà.

Furono interrotti solo quando un sonoro colpo li fece voltare bruscamente. La botola della soffitta era stata aperta, sbattendo sul consunto pavimento il legno e sollevando diverse nuvolette di polvere. Videro un paio di mani appoggiarsi e diverse ciocche boccolute e arruffate,  fare capolino dall’apertura; il viso leggermente imperlato di sudore e gli occhi semichiusi per abituarsi alla luce soffusa della stanza.

“Si può sapere che cosa diamine state facendo quassù?” domandò con un tono che non nascondeva un leggero rimprovero.

“E’ pieno di polvere e poi è da mezz’ora che vi chiamo” si affrettò a precisare, come se non potesse trattenere oltre le parole. “La cena è pronta!”

La bimba la osservò divertita sollevando il ritratto che teneva tra le mani.

“Guarda: Papi!”

Strillacchiò felicemente, sgambettando verso di lei. La donna le sorrise dolcemente, accarezzando un po’ il grosso pancione. Prese la fotografia tra le mani, osservandola attentamente per qualche attimo.

“Mi ero quasi dimenticata di questa foto” sorrise, incrociando lo sguardo curioso di suo marito. “Avevo chiesto a Colin una copia. Era l’unico che girava con la macchina fotografica quel giorno”

“Non sapevo fossi venuta a quella partita” mormorò un po’ divertito, con sguardo timido. Scompigliandosi in un modo che lei trovava semplicemente adorabile, quei ciuffi rossi che rimanevano un po’ sparati in aria, tendendo ovunque.

Si avvicinò lentamente a lui, la fotografia stretta tra le dita, mentre sua figlia la seguiva con la manina appigliata alla manica del lungo maglione. Suo marito aspettava immobile, seduto sul polveroso pavimento con le gambe incrociate e gli occhi vispi mentre rimirava fieramente il pancione.

La donna lo strinse a sè, soffocando le mani tra i suoi ciuffi rossi, e avvicinandolo contro il proprio ventre, dove il bambino aveva cominciato a muoversi e, probabilmente, a scalciare.

“Io c’ero, Ron” mormorò, stampandogli un dolce bacio tra i capelli e appoggiando la testa alla sua.

 

Io c’ero.

 

 

 

- NOTE DELL' AUTRICE -

Piccola shot senza troppe pretese, su un momento qualsiasi, di una giornata qualsiasi, che si colloca in una pagina...qualsiasi, del sesto volume di hp.

Beh che dire, fatemi sapere che ne pensate.

  

 

 

  
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