Serie TV > Teen Wolf
Segui la storia  |       
Autore: Bambolina Blackmetal 94    17/09/2016    9 recensioni
Questa la dedico a YamiYuki13
Mafia au
Pedofilia accennata
Perché é cosi che funziona, Sindrome di Stoccolma, é una risposta psicologica passiva ad un nuovo padrone, é stata la sopravivenza per un milione di anni, se ti leghi al tuo rapitore sopravivi altrimenti soccombi.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Isaac Lahey, Stiles Stilinski
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




                                                        
                                                                                         


 

                                                           PANICO



Si chiamava Stiles, dodici anni e il vezzo di allungare svelto il collo, nervoso e giulivo ogni volta che incrociava qualcosa o qualcuno che lo incuriosiva. Suo padre rideva e diceva di trovare inquietante quella sua abitudine, sempre immerso nel suo mondo di sogni.
Di buono c'era però che John Stilinki aveva spesso turni di notte alla centrale, quindi quando Stiles voleva uscire, suo padre non faceva obiezioni, purché fosse in compagnia e sotto la supervisione di un adulto. Il papà del suo migliore amico Scott, accompagnava tutti e due con la macchina in città, in un centro commerciale distante quattro, cinque chilometri da casa, dove loro potevano girare per negozi o andare al cinema, e quando alle dieci tornava a prenderli non cercava mai di sapere come avessero trascorso la serata.
Da quelle parti dovevano essere senz'altro due figure note, sempre a passeggio in calzoncini corti e infradito, coi braccialetti carichi di ciondoli tintinnanti intorno ai polsi sottili e il passo strascicato; se incrociavano qualcuno che li interessava o li divertiva, si stringevano e bisbigliavano qualcosa tra loro, ridendo di nascosto. 
Stiles aveva i capelli rasati cortissimi, indossava una maglie jersey, l'andatura infantile e molleggiata che attirava l'attenzione di tutti, tanto languida da far credere a chiunque che stesse ascoltando dentro di sé una musica tutta sua; la risata squillante e nervosa, come il tintinnio dei ciondoli del suo braccialetto.
A volte Stiles e il suo amico andavano effettivamente al cinema o a far compere; altre volte, però, attraversavano lo stradone trafficato e, schivando svelti le automobili, passavano dall'altra parte, dove c'era un drive-in frequentato da ragazzi più grandi. Il locale aveva la forma di una grossa bottiglia, ma più tozza di una bottiglia vera, e sul tappo ruotava la figura di un giovanotto sorridente che teneva in alto un hamburger. 
Una sera di mezza estate, animati da un'audacia che toglieva loro il fiato, Stiles e Scott attraversarono di corsa lo stradone e subito notarono dal finestrino di una macchina Jackson Whittemore, il capitano della squadra di lacrosse del liceo di quella che era la loro ridente cittadina. Cercarono di attirare la sua attenzione sbracciandosi e chiamando il suo nome; ma quello, dopo una breve occhiata nella loro direzione decise di ignorarli alzando il finestrino. 
Si inoltrarono nel dedalo di automobili parcheggiate e automobili impegnate a perlustrare il luogo e giunsero al locale pieno di luci e di mosche con un'espressione soddisfatta e trepidante sul viso, quasi stessero per varcare la soglia di un palazzo sacro apparso nella notte per dar loro il rifugio e la benedizione agognati. Si sedettero al bancone del bar e così rimasero, con le caviglie incrociate e le spallucce esili irrigidite dall'emozione, ad ascoltare la musica che faceva diventare tutto bellissimo. Rimasero lì tre ore, mangiando hamburger e bevendo Coca-Cola da bicchieroni di carta cerata perennemente gocciolanti, senza accorgersi del ragazzo seduto con le spalle al bancone che li fissava, o meglio che lo fissava insistentemente.
Quando si avviarono verso il centro commerciale, dove ormai solo il cinema era aperto, Stiles non poté fare a meno di vagare con lo sguardo tra i parabrezza e i volti che lo circondavano, mentre nel suo viso brillava una gioia che non aveva niente a che vedere con Scott, o tanto meno con quel luogo; forse era effetto della musica. Drizzò le spalle e fece un respiro profondo, pervaso dal puro piacere di essere vivo, e proprio in quel momento posò per caso gli occhi su un viso a pochi metri dal suo: era il viso di un ragazzo dai capelli neri e ispidi, seduto su una fiammante Camaro nera. Il ragazzo lo fissò e subito le sue labbra si allargarono in un sorriso. Stiles socchiuse gli occhi e distolse lo sguardo, ma poi non seppe trattenersi e si voltò a guardarlo: ed eccolo lì, che lo stava ancora osservando. Il ragazzo scosse un dito e ridendo disse: "Tu non mi scappi, piccolo", al che Stiles si giro dall'altra parte, senza che Scott si fosse accorto di niente.
Assonnati e soddisfatti, se ne andarono via col padre di Scott, e Stiles non potè evitare di voltarsi indietro a guardare il centro ormai buio, col grande parcheggio vuoto, le insegne smorte e spettrali e, dall'altro lato, il dive-in con le macchine che seguitavano instancabili a girare e rigirare in tondo. Da quella distanza la musica non si sentiva.
L'indomani mattina il padre gli domando com'era stato il film e lui rispose: "Così così".

Stiles usciva con Scott e, di tanto in tanto, con un terzo ragazzino, diverse volte alla settimana e quando non usciva rimaneva in casa o nei paraggi, a intralciare il padre o a pensare, a fantasticare sui ragazzi che incontrava.  Immancabilmente, però, tutti i ragazzi scivolavano nell'oblio e andavano a confondersi in un unico volto, che non era neanche un volto bensì un'idea, una sensazione mista al martellio insistente e incalzante della musica e all'aria umida delle serie di luglio. 


Quella domenica suo padre era stato invitato dai colleghi per una grigliata e Stiles disse che no, a lui non interessava, levando gli occhi al cielo lo sceriffo acconsenti a farlo restare a casa. Dopo essersi lavato in fretta, Stiles andò a sedersi su una sdraia in giardino e da là lo vide partire, tutto voltato all'indietro per poter fare retromarcia. Seduto al sole a occhi chiusi, sognante e stordito dalla calura che l'aviluppava come un'onda d'amore, come carezze d'amore, Stiles tornò con la mente alla sera con Scott al drive-in, un po deluso che il suo eroe Jackson avesse deciso di ignorarli. E quando riaprì gli occhi a malapena ricordava dov'era; il giardino si perdeva fra le erbacce e una fila di alberi allineati a mò di staccionata; dietro il cielo appariva perfettamente azzurro e immoto. Come per svegliarsi, scrollò la testa.
Fuori faceva troppo caldo. Stiles rientro in casa e accese la radio per coprire il silenzio. Scalzo, si sedette sul bordo del letto e per un'ora e mezza seguì un programma intitolato XYZ Baldoria domenicale, dischi su dischi di musica aspra, veloce e strepitante che lui accompagnò cantando, fra un intervento e l'altro del presentatore radiofonico: "Per le ragazze del Napoleon.....da Son e Charley....ascoltate con molta attenzione il prossimo pezzo!".
E anche Stiles ascoltava con molta attenzione, immerso nel calore di una gioia dal pulsare lento che sembrava nascere misteriosamente dalla musica che alleggiava languida nella cameretta dall'aria vizziata, inspirata ed espirata a ogni delicato levarsi e ricadere del petto.
Dopo un pò udì un'automobile salire per il vialetto d'accesso. Immediatamente si tirò su a sedere costernato, dato che cosi presto non poteva essere suo padre, o forse si? Che avesse dimenticato qualcosa? La ghiaia continuò a crocchiare fino alla fine del vialetto e l'auto si fermò davanti alla porta di servizio e dal clacson partirono quattro colpetti brevi, come se si trattasse di un segnale a lui noto. 
Stiles si precipitò in cucina, si avvicinò lentamente alla porta e si affacciò all'antiporta tenendo le dita dei piedi arricciate sotto l'orlo del gradino. Rimase un po interdetto, non era suo padre come aveva pensato all'inizio, guardo confuso la Camaro nera parcheggiata. Nella macchina c'erano due ragazzi e Stiles riconobbe il guidatore: capelli neri, ispidi e un largo sorriso stampato sulle labbra.
"Mica sono in ritardo, no?" fece il ragazzo e Stiles indietreggio un momento confuso.
"Te l'avevo detto che venivo, o no?".
"Ma se neanche so chi sei..." rispose scontroso Stiles, attento a non mostrarsi né interessato né compiaciuto; il ragazzo parlava svelto, con un vivace tono monocorde. Senza fretta, Stiles distolse lo sguardo e osservò l'altro ragazzo: aveva i capelli castano chiaro riccioluti, tandenti al biondo; le basette gli davano un aspetto truce e imbarazzato, ma fino a quel momento non si era neanche degnato di guardarlo una volta. Indossavano entrambi un paio di occhiali da sole; quelli del guidatore erano a specchio e riflettevano tutto in miniatura. 
"T'andrebbe di fare un giro?" chiese quest'ultimo a Stiles.
Lui fece una smorfia e scosse piano la testa per negare.
"Ma che la mia macchina non ti piace? L'ho appena riverniciata" disse lui. "Ehi...".
"Che vuoi?"
"Lo sai che sei proprio carino?"
Stiles, non rispose e affettando insofferenza si mise a scacciare le mosche che volavano intorno alla porta.
"Che non mi credi?" fece lui.
"Ma se neanche so chi sei" ribatté ancora una volta il concetto Stiles.
"Ehi, guarda qua, ho la radio anche io. Isaac alza il volume, fagli un po sentire". Il ragazzo mosse il braccio e toccò qualcosa sul cruscotto, e solo allora Stiles udì la musica: era la stessa stazione radio che stava ascoltando in casa.
"Avanti, io so come farti divertire".
Stiles arrossì leggermente, non riuscendo a capire per via degli occhiali dove stesse guardando il ragazzo. Ancora non aveva deciso se lo trovasse simpatico, o se invece fosse solo un cretino, e così si gingillava, senza uscire dalla porta né rientrare in casa. "Me lo dici il tuo nome?" gli domandò per prendere tempo.
Il ragazzo aprì la portiera con grande cautela, come temendo di spaventarlo; poi, con uguale cautela, scese dalla macchina e pianto i piedi ben saldi a terra. Lentamente il minuscolo mondo metallico riflesso nei suoi occhiali si assestò come gelatina che si indurisce pian piano, con la canotta verde brillante di Stiles al centro. "Se permetti mi presento: sono Derek Hale, e bada che questo é il mio nome vero e voglio che te lo ricordi. E noi due, piccolo, diventeremo amici. In macchina c'è Isaac Lahey, lui è un tipo un attimino timido". Isaac continuò a ignorarlo e tenere lo sguardo basso. 
"Non t'interessa vedere com'é dentro la mia macchina? Non t'interessa un giro?".
"Mi sa di no".
"Come mi sa di no?".
"Ho da fare".
"Hai da fare che?"
"Delle cose".
Lui si mise a ridere come se Stiles avesse detto una cosa divertente, battendosi una mano sulla coscia. A Stiles piaceva come era vestito: jeans stretti e scoloriti ficcati dentro un paio di anfibi neri scalcagnati, la vita bassa che metteva in risalto il fisico, una canotta bianca un pò sporca che metteva in mostra i muscoli duri delle braccia e delle spalle, e il collo muscoloso. E il viso era in qualche modo un viso noto: mascella, mento e guance leggermente scurite per via della barba non fatta da un paio di giorni. Fiutava l'aria come se Stiles fosse una prelibatezza che da lì a poco si sarebbe pappato e tutto quanto fosse comunque uno scherzo.
"Stiles, tu non mi racconti la verità. Oggi ti dovevi tenere libero per venire con me a fare un giro, e lo sai" gli disse, ridendo ancora. Dal modo in cui, drizzandosi, si riprese dall'attacco di risa apparve chiaro che era stato fasullo.
"Come fai a sapere come mi chiamo?" gli domando lui indispettito.
"Ti chiami Stiles, ma il tuo vero nome é Genim".
"Forse sì, forse no".
"Io ti conosco, caro il mio Genim" rispose Derek scuotendo un dito. Adesso lo ricordava anche meglio, l'aveva visto al drive-in, e al pensiero di come avesse respirato profondamente proprio quando gli era passato davanti, dell'impressione che doveva avergli fatto, Stiles si sentì avvampare. E come lui si ricordava di Derek, Derek si ricordava di lui. "Io e Isaac siamo venuti qui apposta per te" proseguì Derek. "Isaac si può sedere dietro. Che te ne pare?".
"E dove?".
"Dove che?".
"Dove andremmo?".
Lui lo guardo. Si tolse gli occhiali e Stiles notò allora per la prima volta gli occhi verdi e l'estremo biancore della pelle sotto le lenti, come se gli occhi di lui non fossero buchi non in ombra, bensì in luce. Erano come schegge di vetro che riflettevano la luce in maniera accattivante. Derek Hale gli sorrise; pareva che per lui l'idea di andare da qualche parte fosse una novità.
"Giusto a fare un giro, mio dolce Stiles".
"Non ho mai detto che mi chiamo Stiles, e nemmeno Genim" ribatté il più piccolo.
"Ma io lo so, come ti chiami. So tutto di te, io. So un sacco di cose" disse Derek Hale. Fino a quel momento non si era mosso; era ancora appoggiato alla fiancata della sua Camaro. 
"Mi sei sembrato particolarmente interessante...un ragazzino così carino...e quindi adesso sono informatissimo...tipo, so che tuo padre é uscito, so dove é andato e anche quanto ci restera, e poi so con chi eri ieri sera, il tuo amichetto Liam. Giusto? E so che il tuo migliore amico si chiama Scott".
Parlava con una voce semplice e cadenzata, proprio come se stesse recitando il testo di una canzone. E col suo sorriso gli assicurava che era tutto a posto. Nella macchina, Isaac alzò il volume della radio senza degnarsi di gettare un'occhiata ai due.
"Isaac si può mettere dietro" ripeté Derek Hale indicando l'amico con un cenno incurante del mento, come se Isaac non contasse nulla e di conseguenza Stiles non dovesse preoccuparsene.
"Come hai fatto a sapere tutte quelle cose?" 
"Senti qua: Scott McCall, Liam Dunbar, Danny Mahealani, Kira Yukimura" fece lui a mò di cantilena. "Mason Hewitt, Heater...".
"Li conosci tutti quanti?".
"Io conosco tutti". "Mi prendi in giro. Tu non sei mica di queste parti".
"Come no".
"E allora...com'è che non ti ho mai visto?".
"Certo che mi hai visto" ribatté lui guardandosi gli stivali con fare un pò offeso. "Solo che non ti ricordi".
"Io invece, penso che me ne ricorderei" disse Stiles.
"Vetamente?". A queste parole Derek risollevò gli occhi raggiante. Era compiaciuto. La radio di Isaac stava ancora trasmettendo musica e lui cominciò a tenere il tempo battendosi piano i pugni l'uno contro l'altro. Stiles distolse lo sguardo dal suo sorriso e osservò la macchina, tanto lucente che quasi gli faceva male agli occhi.
"Dì un pò, a che pensi?" volle sapere Derek. "Mica sarai preoccupato che in macchina ti si possano sgualcire i vestiti..."
"No"
"Magari, allora, pensi che non guido bene".
"Come faccio a saperlo?"
"Tu sei un ragazzino difficile...com'è?" fece lui. "Non lo sai che sono tuo amico?"
Stiles lasciò andare l'antiporta e rimase perfettamente immobile dietro la retina, ad ascoltare la musica della sua radio che si confondeva con quella proveniente dall'altra radio; guardava fisso il ragazzo. Derek Hale si era irrigidito in una posa rilassata, in una finta posa rilassata, con una mano pigramente poggiata sulla maniglia della portiera, come se volesse tenersi dritto e non avesse più intenzione di muoversi. Tante cose di lui gli erano familiari: i jeans stretti che gli mettevano in risalto le cosce e le natiche, gli stivali di pelle unti, la canotta attillata e persino quel sorriso cordiale e ingannevole, quel sorriso sognante e indolente che tutti i maschi sfoderano ogni qual volta volevano far capire un concetto senza formularlo a parole. Tutte queste cose gli erano familiari come anche il tono cantilenante con cui parlava, lievemente beffardo, canzonatorio, ma serio e un pò malinconico, e quell'abitudine di battere i pugni l'uno contro l'altro in omaggio alla musica perpetua che lo seguiva. Ma in tutto c'era comunque qualcosa che stonava.
"Ehi" gli chiese all'improvviso, "tu quanti anni hai?".
A quella domanda a Derek il sorriso morì sulle labbra. Stiles si rese conto in quel momento che non era un ragazzino, che aveva molti più anni di lui, forse trenta, forse più. A questa scoperta il cuore cominciò a battergli svelto.
"Che domanda assurda. Ma che non vedi che ho diciotto anni ?".
"Bugiardo".
"Va bè, diciamo che ne ho qualcuno in più. Ne ho ventisei."
"Ventisei?" ripete dubbioso il bambino.
Lui torno a sorridere per rassicurarlo. Stiles notò allora che aveva le sopracciglia foltissime, così folte e nere che parevano ripassate con la pece. Di colpo, lui parve mettersi in imbarazzo e girò la testa verso Isaac. "Questo qua dietro è un pazzo" disse. "A te non ti fa sganasciare? È un matto, è proprio un tipo assurdo". Isaac stava ancora ascoltando la musica. Gli occhiali da sole non lasciavano scorgere nulla di quel che gli passava per la mente. Indossava una vivace camicia arancione, sbottonata, sotto la quale si vedeva il petto, un petto esangue, bluastro, non muscoloso come quello di Derek Hale; il colletto della camicia era tirato su e le punte si proiettavano oltre il mento, come a volerlo proteggere. Isaac continuava a star seduto lì in una specie di torpore, in pieno sole.
"È un tipo un pò strano" disse Stiles.
"Ehi, dice che sei un tipo un pò strano. Un pò strano!" esclamò Derek Hale battendo il pugno sulla macchina per richiamare l'attenzione di Isaac. Isaac si voltò allora per la prima volta e Stiles si accorse con sgomento che neanche lui era un ragazzino: aveva un viso chiaro, glabro, e le guance leggermente arrossate, il viso di un bambino di più di vent'anni. A quella vista Stiles si sentì mancare la terra sotto i piedi e continuò a fissarlo con lo stato d'animo di chi aspetta che qualcosa venga a cancellare lo choc del momento, a rimettere tutto apposto. Le labbra di Isaac seguitavano a formare parole, accompagnando il pezzo del momento alla radio.
"Forse è meglio se ve ne andate" disse Stiles debolmente.
"Come come? E per qual motivo?" esclamò Derek. "Siamo venuti qui per portarti a fare un giro. È domenica. Non lo sai che oggi è domenica? Domenica dalla mattina alla sera? E non importa con chi sei stato ieri sera: oggi, piccolo, starai con Derek Hale...non lo dimenticare! Forse è meglio se esci da quella casa" aggiunse, ma questa volta la sua voce era diversa: era una voce un pò più secca, come se ormai stesse perdendo la pazienza.
"No. Ho da fare".
"Forza".
"É meglio se ve ne andate".
"Se non vieni con noi non ce ne andiamo".
"Io con voi non vado da nessuna parte"

"Bello, con me lo smorfioso non lo fai. Non so se mi spiego...con me lo smorfioso non lo fai" ribatte Derek scrollando la testa. Rideva incredulo. Poi, con grande cautela, inforcò sulla testa gli occhiali da sole e si infilò le stanghette dietro le orecchie. Guardandolo, Stiles si sentì pervadete di nuovo da un'ondata vertiginosa di paura, tanto che per un attimo la vista gli si annebbiò, trasformando l'altro in una sagoma dai contorni vaghi appoggiata alla macchina.
"Se mio padre torna e ti vede..."
"Non torna. È andato ad una grigliata".
"E tu come lo sai?".
"A casa di un collega che festeggia il pensionamento. In questo preciso momento stanno...mhm...stanno bevendo. Seduti un pò qua, un pò là" disse lui vago, con gli occhi socchiusi, come se con lo sguardo arrivasse a vedere in città, nel giardino del collega del suo papà. Poi la visione parve farsi più nitida e annuendo vigorosamente Derek Hale aggiunse: "Sì, sì...seduti un pó qua, un pó là. Tuo padre oggi non porta la divisa, s'è messo il maglione blu, eh? Povero coglione...certo, con te non c'è proprio confronto! Tuo papà sta aiutando un poliziotto giovane a grigliare la carne...".
"Che poliziotto giovane?".
"E come cazzo faccio a saperlo? Mica conosco tutti i poliziotti giovani del mondo!" ribatté lui ridendo.
"Ah, é il vice sceriffo Parrish" fece Stiles. Si sentiva girare un pó la testa e aveva il fiato corto.
"Non mi interessa, a me, quelli come lui non piacciono. A me, piccolo, mi piacciono quelli come te" gli confidò con un sorriso sonnolento. Per qualche attimo continuarono a guardarsi attraverso la rete dell'antiporta. Quindi, con voce pacata, lui riprese: "Senti...allora: tu addesso esci da lì e ti vieni a sedere davanti con me; Isaac si mette dietro e tanti saluti. Mica ci deve uscire lui con te, giusto? Ci devo uscire io. Io sono il tuo uomo, piccolo".
"Tu sei pazzo".
"Si...il tuo uomo. Tu non sai ancora che cosa significa, ma capirai presto" seguitò lui. "Fidati. Io so tutto di te. Ma sta tranquillo: è una cosa stupenda. E non potevi capitare con uno più bravo o più educato di me. Io mantengo sempre la parola. E adesso ti racconto come andrà. Io sono sempre carino all'inizio, la prima volta. Ti tengo stretto stretto, così che neanche ci pensi a scappare, o a fare finta, perché sai che tanto non puoi. E poi ti entro dentro, nella tua stanzetta segreta, e tu ti arrendi e mi dai tutto...".
"Smettila! Tu sei pazzo!" esclamò Stiles indietreggiando con le mani schiacciate contro le orecchie, come se avesse udito qualcosa di terribile, qualcosa che non doveva sentire. "Uno non le dice, queste cose" mormorò. "Tu sei pazzo". Era in un bagno di sudore e il cuore gli martellava con una violenza tale che il petto quasi gli scoppiava. Guardando fuori, vide Derek Hale indugiare un istante, poi allungare uno stivale e muovere un passo verso la veranda aggrappandosi a un paletto del portico.
"Piccolo..." disse. "Mi senti?".
"Vattene via!".
"Non essere cattivo, piccolo. Senti...".
"Guarda che adesso chiamo la polizia e il mio papà...".
Lui vacillò di nuovo e dall'angolo della bocca sputò veloce una bestemmia, non destinata alle orecchie del più piccolo. Poi ricominciò a sorridere. Stiles osservò la bocca allargarsi impacciata, come se stesse sorridendo da sotto una maschera. L'intero suo viso era una maschera.
"Piccolo...Senti qua che succede adesso. Ti faccio una promessa, e bada che io dico sempre la verità: giuro che non ti vengo a prendere dentro casa".
"Infatti, non ti azzardare! Guarda che chiamo la polizia, se...se non...".
"Piccolo" disse lui contemporaneamente, "amore, non sono io che devo entrare, ma tu che devi uscire da lì dentro. E sai perché?".
Stiles aveva il fiato grosso. La cucina gli sembrava un luogo mai visto, un posto in cui si era rifugiato e che tuttavia non andava bene, che non gli sarebbe stato d'aiuto. Alla finestra, in tre anni, non c'era mai stata appesa una tendina; nell'acquaio c'erano dei piatti sporchi che, probabilmente, aspettavano lui.
"Mi senti, piccolo? Oho...mi senti?".
"...chiamo la polizia...".
"Guarda che se tocchi il telefono non sono più tenuto a rispettare la promessa e posso venire dentro. Non credo proprio che ti farebbe piacere".
Lui si precipitò alla porta e cerco di chiuderla a chiave; gli tremavano le dita. "Ma a che ti serve" gli disse Derek Hale dolcemente, parlandogli faccia a faccia. "È un antiporta. È carta velina". Uno dei suoi stivali stava in posizione strana, come se fosse pronto a sfondarla con un calcio da un momento all'altro. "Voglio dire che, se bisogna, tutti possono buttare giù un'antiporta, un vetro, una porta di legno, una porta di ferro, quello che ti pare...tutti, specie Derek Hale. E se casa tua va a fuoco, piccolo, stà sicuro che tu corri subito da me, fra le mie braccia, a rifugiarti sano e salvo fra le mie braccia...e la pianti di fare lo smorfioso perché hai capito che sono il tuo uomo. A me, i ragazzini timidi e carini non mi dispiacciono, ma gli smorfiosi non gli sopporto proprio". Derek Hale aveva impresso a parte del suo discorso un ritmo leggermente cadenzato e in qualche modo Stiles ne riconobbe le parole, eco di una canzone dell'anno precedente su una ragazza che tornava dal suo innamorato e correva a rifugiarsi fra le sue braccia, sana e salva...
Stiles era in piedi sul pavimento di linoleum, scalzo, e lo fissava. "Che cosa vuoi?" sussurrò.
"Te" rispose lui.
"Che cosa...?".
"T'ho visto quella sera e mi sono detto: eh sì, è proprio lui. Non c'è più bisogno di cercare".
"Ma tra un pó torna mio padre. Torna a prendermi. Io dovevo prima farmi la doccia...". Stiles parlava con voce piatta e rapida, tanto sommessa da non volersi quasi far udire.
"No, tuo padre non torna. Però, sì, ti sei lavato, e ti sei lavato per me. Tutto bello e splendente...per me. Grazie, tesoro" disse lui facendo scherzosamente un inchino. Stiles lo guardò, quindi guardo Isaac, seduto in macchina alle sue spalle, che pareva intento a fissare un punto impreciso alla destra di Stiles, nel vuoto. Prendendo le parole dall'aria una dopo l'altra, come se le stesse scoprendo in quel preciso momento, Isaac disse: "Vuoi che gli stacco il cavo del telefono?".
"Stà zitto e non t'immischiare" ribatte Derek tutto rosso in viso. "Non sono affari tuoi".
"Ma che...che stai facendo? Che vuoi?" disse Stiles. "Se chiamo la polizia ti fermano, ti arrestano..."
"La promessa era che non entravo se tu non toccavi il telefono, e giuro che la mantengo" disse lui. Sembrava l'eroe di un film nell'atto di fare una dichiarazione importante; peccato che non fosse un eroe. "L'idea non era quella che io dovevo entrare in questa casa, che non è mia, ma che tu dovessi venir fuori da me, come infatti ti consiglio di fare. Non lo sai chi sono?".
"Tu sei pazzo"mormorò lui. Indietreggiò ancora, ma preferì non allontanarsi in un'altra camera, temendo che in quel caso Derek si sarebbe sentito autorizzato ad entrare. "Ma che cosa...tu sei pazzo, tu sei...".
"Come come? Che cos'è che dici, piccolino?".
Gli occhi di Stiles guizzarono da una parte all'altra della cucina.
"Senti, piccolo, sai che succede adesso? Tu esci fuori e ce ne andiamo tutti e tre a fare un bel giro. Ma se non esci, noi aspettiamo qui finché non torna tuo padre. E ricordi? Oggi il tuo papà non porta la divisa, quindi niente pistola. E a quel punto sono cavoli suoi".
"Vuoi che lo stacco il telefono?" fece Isaac, abbassando il volume della radio con una smorfia, come se senza musica l'aria gli riuscisse insopportabile.
"T'ho detto stà zitto, Isaac, che non ci senti?" sbraito Derek. "Se sei sordo fatti un apparecchio acustico, capito? Datti una risistemata. Il piccolino non è un problema e con me farà il bravo, quindi pensa per te. Non è mica il tuo ragazzo...capito? Non t'impicciare e chiudi quella fogna!". disse con voce rapida e dissennata. Si riparò gli occhi con la mano e scrutò Stiles, che si era rannicchiato sotto il tavolo della cucina. "Non ci fare caso, piccolo, é solo uno scocciatore. Un deficiente. Giusto? Sono io quello che fa per te. E come ti dicevo, tu adesso vieni fuori da bravo e mi dai la mano. E così al caro paparino non gli succede niente. Perché, scusa, che motivo c'è di coinvolgerlo?".
"Vattene" gli rispose Stiles in un sussurro.
Derek a quel punto, quasi si fosse reso conto di essere stato scortese, abbassò la voce; poi si toccò gli occhiali, come per sincerarsi che stessero ancora al loro posto. "Su, adesso fà il bravo".
"Ma tu, che vuoi?".
"Una o due cosette...o forse tre, dipende" gli rispose Derek. "Ma ti prometto che non ci vuole molto, e dopo vedi che t'affezioni a me come alle persone a cui tieni. Fidati. E adesso esci, tanto ormai è inutile che rimani là dentro. Non gli vuoi far passare un guaio a tuo padre, no?" Disse tirando fuori una pistola dal retro dei pantaloni e puntandogliela contro attraverso la retina dell'antiporta.
Stiles reagi d'istinto, si voltò di scatto scivolando fuori dal tavolo e urtò contro una sedia o una poltrona sbattendo malamente la gamba, ma senza fermarsi corse precipitosamente nell'ingresso e si attaccò al telefono, gemendo piano piano tra le lacrime tanto era stravolto dalla paura. Il telefono era viscido e pesantissimo. Le sue dita cercarono il quadrante, ma erano prive di forza e non riuscirono a toccarlo. Stiles si mise a urlare nel ricevitore, urlò e chiamò il padre; il respiro che che gli entrava e gli usciva a strappi dai polmoni come se qualcosa seguitasse a pugnalarlo, senza alcuna tenerezza.
Mentre scivolava inerme a terra tutt'intorno si levò un lamento forte e doloroso, che lo tenne prigioniero, come lo teneva prigioniero quella casa.
"Stiles...ehi...piccolo...Ssssssh, calma calma, va tutto bene, respira... forza respira con me" gli gridava dalla soglia Derek in preda all'ansia.
Passato qualche istante il lamento scomparve. Stiles era seduto a terra, appoggiato al muro, con la schiena matida di sudore e il viso impiastricciato di lacrime. Dalla soglia Derek continuava a parlare.
"Su, fà il bravo. Ora rimetti a posto il telefono".
Con un calcio lui allontano l'apparecchio.
"No, piccolo. Tiralo su. Rimettilo bene".
Stiles prese il telefono e lo rimise a posto. Il segnale di libero tacque.
"Bravo. E adesso esci".
La paura dilagante di un attimo prima si era ridotta ad un senso di vuoto, l'attacco di panico gli aveva prosciugato le energie. Stiles stava seduto sopra una gamba piegata e nei recessi della sua mente pensava non rivedro più il mio papà, non dormiro più nel mio letto. La maglia verde brillante era ormai bagnata fradicia. In quel momento, con voce dolce e sonora, Derek Hale disse: "Il posto da cui sei venuto non esiste più e quello in cui avevi intenzione di andare si è annientato.  Il posto in cui ti trovi adesso, la casa di tuo padre, non è altro che un castello di carte che io posso buttare giù quando voglio. Tu lo sai, lo hai sempre saputo; lo sceriffo ha pestato i piedi a troppa gente per rimanere impunito. Ma io, sono misericordioso Stiles, non ammazzero quel cane, quel bastardo che tu ti ostini a chiamare papà, non bruciero questa bella casetta. Mi basti tu Stiles, mi basti solo tu. Hai capito? Mi capisci adesso, piccolo?"
E Stiles capì, capì perché tutto di quel ragazzo gli era cosi maledettamente familiare, capì il perché ce l'avesse con lui. Ricordò le immagini trasmesse al notiziario qualche anno prima, quel ragazzo, Derek, che veniva ammanettato e portato via dallo sceriffo, quelle immagini che lo avevano reso così tanto fiero del suo papà.
"Adesso ce ne andiamo fuori città, in un campo qui nei dintorni, col sole e l'aria buona" continuò Derek Hale. "E io ti tengo stretto stretto, così che non ti viene in mente di scappare, e ti faccio conoscere l'amore, che sensazioni dà l'amore. E chissenefrega di tuo padre e di questa casa!". Fece scorrere un'unghia sulla retina dell'antiporta, ma a quel rumore Stiles non rabbrividì come avrebbe fatto appena un minuto prima. "E adesso mettiti la mano sul cuore. Lo senti? Anche quello pare solido, ma noi lo sappiamo come stanno le cose. Con me devi essere carino, devi essere dolce. Perché che altro può fare un ragazzino come te, se non essere dolce e carino e arrendersi?...e scappare via prima che suo padre ritorni?"
Stiles sentì il cuore che gli martellava dentro il petto e gli sembro che la mano di Derek lo avvolgesse. Per la prima volta nella sua vita pensò che quel cuore non gli appartenesse, che non era qualcosa di suo ma che appartenesse a qualcun'altro, a Derek. Quell'oggetto animato e martellante dentro il suo corpo non gli apparteneva.
"Non vuoi che gli capiti qualcosa a tuo padre, no?" seguitò Derek. "Su, bello, adesso alzati. Tutto da solo".
Stiles si alzò.
"E adesso girati da questa parte. Ecco, bravo. Vieni qui da me...Isaac, già te l'ho detto, metti via quell'affare. Deficiente. Brutto deficiente rompiscatole" disse Derek Hale. Non c'era rabbia nelle sue parole: facevano semplicemente parte di un incantesimo. Di un tenero incantesimo. "Su, piccolo, esci da quella cucina e vieni qua fuori. E sorridi, dai, fà un tentativo...sei un ragazzino proprio dolce e coraggioso...Pensa che tuo padre adesso starà mangiando pannocchie e salsicce sugose alla brace...lui non ti conosce, piccolo, non ti ha mai conosciuto. E tu sei mille volte meglio di lui perché lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere per te".
Stiles avvertì sotto i piedi la sensazione di fresco che gli dava il lineoleum. Con fare incerto, Derek Hale si staccò dal palo e allargò le braccia ad accoglierlo, tenendo i gomiti rivolti verso l'interno e i polsi molli per dimostrargli che si trattava di un abbraccio imbarazzato e un pó ironico: non voleva metterlo a disagio.
Stiles poggiò una mano sulla rete. E vide se stesso aprire lentamente la porta come rientrando sano e salvo in un luogo imprecisato al di là della soglia; vide quel corpo e quella testa dai capelli neri ondeggiare sotto il sole, dove Derek Hale lo stava aspettando.
"Il mio dolce ragazzo dagli occhi ambrati" disse lui sorridendo compiaciuto tirandoselo in braccio e sistemandogli le gambe nude intorno ai suoi fianchi, per poi asciugarli le lacrime e baciargli una tempia mentre si dirigeva verso la Camaro. Perché é cosi che funziona, Sindrome di Stoccolma, é una risposta psicologica passiva ad un nuovo padrone, é stata la sopravivenza per un milione di anni, se ti leghi al tuo rapitore sopravivi, altrimenti, soccombi.
  
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Teen Wolf / Vai alla pagina dell'autore: Bambolina Blackmetal 94