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Autore: La_Dama_Del_Lago    18/09/2016    14 recensioni
[Storia Interattiva. Iscrizioni aperte sino al 30 Settembre]
Dal testo.
Esistevano ricordi che neanche il tempo tiranno e iniquo poteva cancellare, attimi d’immenso che divenivano eterni nella mente, istanti d’assolo in una vita d’orchestra.
Caitria Dalekein non avrebbe mai dimenticato il momento in cui le tessitrici della sorte si fecero beffe di lei, ponendo lui nel suo cammino caotico e ciondolante, il vagare senza meta di un avventore di pub a basso costo, tra le strade di un mondo che non aveva mai sentito proprio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Poseidone, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prologo

 
[Norman:] We're all in our private traps. Clamped in them, and none of us can ever get out
[Marion:] Sometimes we deliberately step into those traps
[Norman:] I was born in mine; I don't mind it anymore
[Marion:] Oh but you should, you should mind it
[Norman:] Oh I do, but I say I don't

Pyscho
 
Esistevano ricordi che neanche il tempo tiranno e iniquo poteva cancellare, attimi d’immenso che divenivano eterni nella mente, istanti d’assolo in una vita d’orchestra.
Caitria Dalekein non avrebbe mai dimenticato il momento in cui le tessitrici della sorte si fecero beffe di lei, ponendo lui nel suo cammino caotico e ciondolante, il vagare senza meta di un avventore di pub a basso costo, tra le strade di un mondo che non aveva mai sentito proprio.
Tutto incominciò una mattina di Agosto, la brezza salina che le scompigliava i ricci scuri come molle di liquirizia, persi nella scia di un’Harley Davidson vinta a poker in un bar fuorimano del Bronx.
Il rombo della moto sotto di sé era rassicurante, una calda coperta che allontanava i mostri della mente, l’abbraccio dolce di un genitore amorevole. Era qualcosa che Cat non ricordava d’aver mai provato. Quando si era di natura divina, poco era stato piacevole durante l’infanzia.
L’Oceano Atlantico era una tavola scintillante, come se fosse stato tirato a lucido per un concorso di bellezza, l’azzurro e il verde che si mescolavano illuminati dal Sole caldo dell’Estate, i rimasugli di un’afa che aveva paralizzato New York per giorni.
Nell’aria si potevano udire gli schiamazzi gioiosi dei bambini che giocavano nell’acqua, interrotto appena dai richiami decisi dei loro genitori. New York sembrava essersi riversata nei parchi, e sulla costa, interrompendo per un giorno la frenesia del lavoro e quella detestabile attitudine all’isolamento che colpiva i materialisti, non più abituati a ricercare il bello, bensì soltanto l’utile. 
Dal canto suo, Cat preferiva il garrito sibilante del vento all’acqua che le lambiva le caviglie e all’erba fresca di rugiada che pizzicava a contatto con la pelle lattea: l’aiutava a non pensare.
 
Il vento soffiava rabbioso come un gatto agguerrito, gettandosi contro la catena del Caucaso con la furia inaudita di un battaglione da guerra. Il gelo le penetrò sin dentro le ossa e Cat si strinse nelle spalle esili, sebbene fosse consapevole d’essere in un sogno.
In un altro momento, se non fosse stata presa dalla vista dell’uomo incatenato, la sua mente avrebbe vagato sui lidi del verosimile, arenandosi in congetture e pensieri, teorie sconclusionate e bislacche per cui molti l’avrebbero derisa. Non era nella sua natura fermarsi al generale: preferiva perdersi nei corridoi infiniti del Labirinto che era la sua mente.
Il canto dell’aquila la riportò in sé, accanto a quella roccia erosa dalle intemperie alla quale Prometeo era stato incatenato millenni prima.
Una tunica, che un tempo poteva essere stata candida e che in quel momento rassomigliava al grembiule di un macellaio per quanto era scurita da grumi di sangue rappreso, gli fasciava i fianchi coprendogli le cosce tornite e allenate.
Sebbene l’aquila gli stesse strappando fegato e intestino, artigliandoli con tale voracità che Cat dovette reprimere un conato, nulla dell’avvenenza del Titano era stato intaccato. Cat gli somigliava vagamente: capelli neri come la pece, gli stessi occhi di fumo e nebbia, tratti marcati come se fossero stati scolpiti da uno sculture che non aveva poi molta cura neoclassica, naso tozzo e troppo importante per il viso minuto, stessa scintilla d’astuzia e intelligenza nella piega del sorriso; però si notava subito che Prometeo apparteneva a una razza superiore, un livello cui nessun mortale avrebbe potuto ambire.
Suo padre le rivolse un sorriso caustico, una lama di spada che feriva senza uccidere. Cat si mosse a disagio verso di lui, tentando di evitare l’aquila che continuava imperterrita a dilaniargli le membra spossate. Prometeo non ci faceva caso: doveva essersi abituato dopo tanti secoli.
« Sempre molto bucolico e rassicurante,» esclamò laconica la giovane semidea, portandosi le braccia incrociate al petto scarno e ancora infantile.  
« Sempre poco sarcastica, mia figlia diletta,» ribatté amabile suo padre con la leggerezza che un uomo incatenato a una roccia non avrebbe dovuto possedere.
Cat sbuffò e gli rivolse un’occhiata infastidita: il sarcasmo era un buon modo per scappare dalla realtà. Vi erano altri, anche più altolocati, giochi mentali con cui usava dilettarsi quando Finn non c’era, per scacciare la noia e il ricordo, quando era lontana dal Campo Mezzosangue, l’unico luogo fremente di vita che Cat chiamasse casa.
« Perché sono qui?»
« Mi sentivo solo,» rispose Prometeo con l’innocenza di un bimbo trovato con le mani sporche di nutella, gli occhi grigi che brillavano come quelli di un gatto, « L’unica mia compagnia è questa dannata aquila,» soggiunse con un sibilo di rabbia malcelata, osservando con odio il maestoso esemplare che continuava imperterrito con il suo pasto. Icore dorato gli colava dalle ferite aperte, uno spettacolo rivoltante e interessante insieme. V’erano certi orrori che lo sguardo umano ricercava, si ritrovò a pensare la ragazzina, certe atrocità che animavano gli istinti più animaleschi e oscuri, qualcosa che nessuno mai avrebbe ammesso neanche nel suo intimo.
Un tuono rimbombò in lontananza e suo padre sollevò lo sguardo verso il cielo, quella distesa di azzurro perfetto e infinito, come carta da zucchero che ricopriva la caramella del mondo.
« Ah, il caro Zeus,» sospirò melodrammatico, « Non più forte come un tempo, eh ragazzino?»
« Adesso basta,» esclamò Cat, tentando di celare il tremolio spaventato che la stava scuotendo. Suo padre era una delle poche entità che davvero riusciva a impaurirla, lei che era tanto persa nel suo mondo da non far caso a tutto il resto, « Sai, io ho una vita e mi piacerebbe ritornarci. Se volessi assistere a uno spettacolo, andrei a teatro.»
« Non manchi d’intelligenza e astuzia, bensì di pazienza. Temo sarà la tua rovina,» soggiunse con tono triste, accorato, empatico come se davvero gli importasse quando per anni l’aveva abbandonata a se stessa. In quella clinica… no, si costrinse a non pensarci. Doveva dimenticare, accantonare, rimuovere da sé quei ricordi corrosivi come acido.
« Tu parli di rovina? Tu?» sibilò adirata, scoccandogli uno sguardo di fuoco, gli occhi di nebbia condensata che brillavano come fari. Tremava di rabbia, adesso, e non più di timore,  « Guardati. Non tornerai mai più al mondo,» lo rimbrottò sarcastica indicandolo con il palmo aperto, come per deriderlo.
« Davvero? » la interruppe realmente interessato dalla risposta, incuriosito come se stesse parlando con un suo pari. Questo per un attimo la lusingò, prima che suo padre le rivolgesse quel sorriso indolente ed esasperato che gli adulti utilizzavano con i bambini indisciplinati, « Mia cara bambina, il mondo che tu conosci non è che un mero inganno del tempo. Torna pure alla tua illusione. Ben presto ti sveglierai.»
 
Persa com’era nei ricordi del sogno della notte appena trascorsa, la ragazza non si accorse dell’ombra che si gettò dinanzi alla ruota. Riuscì a fermarsi prima di investirlo, la moto impennata in un angolo tanto pericoloso che le salì il cuore il gola.
« Sei impazzito per caso? » esalò con tale sgomento da mascherare persino il timore, inquadrando il malcapitato a pochi centimetri da lei. Un altro metro e avrebbe potuto ucciderlo. Con il cuore che batteva come un tamburo da guerra, smontò con un balzo rabbioso per poi abbandonare l’Harley contro il marciapiede e raggiungere il ragazzo.
Alto e con una zazzera di capelli così neri da sembrare blu come l’inchiostro, era un tipo alquanto muscoloso sebbene gli abiti che indossava, - una camicia hawaiana con i fenicotteri rosa e un paio di bermuda color cachi,- non gli rendevano affatto giustizia.
Il ragazzo si appoggiò a lei e Cat lo sorresse come meglio le riuscì, considerando che era sin troppo mingherlina e lui doveva essere tesserato a una palestra rinomava per com’era ben fornito.
« Puo-puoi vedermi,» biascicò sollevato, rivolgendole un paio di occhi verdi e grandi, baluginii di malachite e giada con pagliuzze di zecchino verso la pupilla. Le ricordavano il mare dei Caraibi, un paesaggio da sogno, qualcosa di talmente incantevole che l’avrebbe fatta arrossire in un’altra occasione.
Caitria s’irrigidì e per un attimo fu tentata di abbandonare la presa e correre verso la moto: non era mai stata una gran combattente e l’unica arma che aveva con sé era un fermaglio per capelli. La Foschia impediva ai mortali di scorgere mostri e altre amenità del genere, ma il ragazzo non sembrava affatto una creatura mitologica.
« Che dovresti essere tu?» borbottò tra sé meditabonda mentre ancora tentava di impedirgli di rovinare al suolo. Qualcosa le diceva che poteva fidarsi sebbene fosse assurdo: Cat era diffidente per natura.
Bofonchiò un’imprecazione a denti stretti quando le palpebre gli si rovesciarono e il giovane le cadde addosso, facendole piegare le ginocchia per sostenere il peso.
A malincuore abbandonò l’idea di trascinarlo fino alla moto: non era fattibile guidare con qualcuno in quelle condizioni; e sollevò la destra per chiamare un taxi. Di solito era più probabile trovare il famoso ago nel pagliaio piuttosto che riuscire a trovare un passaggio a bordo delle auto gialle, ma quel giorno New York era avvolta in una sonnacchiosa aura di attesa e dovette aspettare solo il terzo tentativo.   
« Il suo amico non sembra stare molto bene,» osservò l’autista, adocchiandoli dallo specchietto retrovisore.
« Davvero, Sherlock? Non l’avrei mai detto,» sibilò senza fiato per lo sforzo e più scontrosa di quanto desiderasse. La retorica non era per lei, che detestava i sofismi e i discorsi arzigogolati che non portavano a nulla se non a forti emicranie.
L’uomo le rivolse un’occhiata raggelante, sterzando così bruscamente che il ragazzo le finì di nuovo addosso. Cat, che era abituata agli scarponi di suo nonno, non ci fece neanche caso e osservò con fare casuale l’abitacolo. Niente rilevatore per banconote. Era il suo giorno fortunato.
« Dumbo[1],» esclamò trattenendo a stento un sorriso e allontanando il ragazzo con una gomitata ben assestata: per vincere quell’Harley aveva dato fondo a tutta la sua dose di astuzia.  
Profumava di salsedine come se fosse abituato più a nuotare che a camminare e aveva la pelle abbronzata come quella di un pescatore. Per un attimo pensò che potesse essere un figlio di Poseidone o Nettuno, ma un semidio di quel calibro non avrebbe mai resistito tanto a lungo nel mondo mortale senza incorrere in qualche spiacevole missione suicida. L’ultimo figlio di un Pezzo Grosso era Percy Jackson, l’insegnante di scherma al Campo, e le sue avventure erano incominciate quando aveva dodici anni. Il giovane ne dimostrava sedici quanto lei, forse anche diciotto. Cat lo guardò meglio, tentando di arginare la Foschia, ma non notò nulla d’insolito. A parte il fatto che stesse biascicando termini in un greco tanto antico che neanche Caitria riusciva a comprendere, una cantilena pigra e armoniosa come una ballata. Poté captare una breve invocazione a Rea, ma non aveva alcun senso: di solito le suppliche alla madre si rivolgevano ad Era. Rea era troppo antica e troppo sfuggente per poter essere conosciuta. Nessuno la scorgeva più da secoli.
« Tredici dollari,» annunciò l’uomo strappandola dalle sue congetture.
Cat gli rifilò una banconota da venti, rigorosamente falsa, e si affrettò a trascinare occhi di gatto fuori dal taxi. Il covo non era molto distante e il ragazzo riusciva a tenersi in piedi da solo, sebbene si stesse pesantemente appoggiando a lei.
Tre colpi veloci e un pugno deciso contro la saracinesca di quello che sembrava un garage per auto. In realtà era un ricettacolo di banconote false, un giro d’affari che era fruttato loro un gruzzolo notevole di denaro, così tanto da potersi permettere di passare l’Inverno lontano dal Campo Mezzosangue senza dipendere dalle risorse del signor D., il direttore nonché dio del vino e della follia.
« Kitty Kat,» esclamò gioiosa una voce che la ragazza conosceva sin troppo bene, spalancando le braccia come se si aspettasse che Cat si fiondasse tra di loro. La ragazza, che rifuggiva il contatto fisico come se fosse una malattia incurabile, non ne aveva alcuna intenzione e si limitò a borbottare un epiteto poco gentile che non incrinò affatto il sorriso amabile e cristallino del suo migliore amico.
George Finnigan, in arte Finn, era il semidio più strano che Cat avesse mai incontrato e lei di persone bizzarre e bislacche ne conosceva parecchie, essendo una di loro.
Di solito i figli di Apollo somigliavano a divi del cinema: occhi cerulei, ricci biondi come il grano, pelle color sciroppo d’acero, con un’abbronzatura perfetta e i denti candidi come perle. Finn, invece, rassomigliava più a un incrocio tra un nano da giardino e un fungo. Se i puffi non fossero stati blu, Finn ne avrebbe potuto essere il rappresentate.
« Chiamami così un’altra volta e il tuo naso farà la conoscenza di Destro e Sinistro,» mugugnò scontrosa rifilandogli un pugno al petto scarno, fasciato da una camicia a quadri improponibile quanto quella di occhi di gatto, che il suo amico non avvertì neanche.
« Accomodati pure, Olenna[2],» asserì lieto, facendosi da parte per lasciarla entrare. Un penetrante odore d’inchiostro le colpì le narici e dovette trattenere un colpo di tosse: a volte si domandava come facesse Finn a trascorrere le notti accanto alle macchine, « Chi sarebbe questo?» continuò l’amico passandosi la mancina tra la zazzera bionda e riccissima che sembrava non aver mai conosciuto una spazzola. Gli occhi castani come il ciliegio brillavano di gioia: Finn era l’unico sempre felice di vederla e questo le riscaldò il cuore. Non aveva mai avuto una casa da quando sua madre l’aveva abbandonata a se stessa, ma Finn era quanto più vicino a una famiglia avesse.
« Non lo so,» dovette ammettere a malincuore la semidea crollando su una sedia di plastica dopo aver abbandonato il ragazzo sul giaciglio improvvisato che era il letto di Finn. Grato, il moro si sistemò meglio contro le lenzuola raffiguranti strumenti musicali di ogni natura. Sembrava davvero un grosso gatto ronfante. Cat dovette mordersi l’interno della guancia quando la sua mente registrò la parola adorabile associata a un perfetto sconosciuto, che poteva anche essere pericoloso.
« Adesso soccorri gattini smarriti?» domandò aggrottando le folte sopracciglia di un biondo appena più scuro dei capelli, stranito da quella accortezza che Cat non avrebbe mai accordato a nessuno data la sua diffidenza che talvolta sfociava nella misantropia.
« Dacci un taglio, Finn,» esclamò esasperata più con se stessa che con il suo migliore amico. La conosceva sin troppo bene e poteva essere un’arma a doppio taglio, « Ho un’Harley tra le mani e questo tizio sbuca dal nulla, facendosi quasi investire. Ladra sì, ma assassina no,» gesticolò appena, lo sguardo rivolto con la coda dell’occhio al moro che sonnecchiava beatamente come se non si stesse disquisendo di lui. Per certi versi le ricordava il signor Jackson, ma una versione meno simpatica e accogliente. Meno umana, « Parla greco,» soggiunse quasi tra sé, immersa nei propri pensieri, portandosi le ginocchia al petto e abbracciandole come per imprimersi una forza che non aveva mai posseduto.
« Porta rogne,» ribatté Finn con diplomazia, appoggiandosi contro una macchina e distendendo le corte gambe, fasciate da jeans sdruciti e sfilacciati, dinanzi a sé. Cat annuì, tamburellando le dita contro le ginocchia mentre notava il ragazzo spalancare gli occhi verdi e rivolgere un sorriso furbo che Cat non apprezzò affatto. Non era abituata ad essere un passo indietro rispetto a qualcun altro, a non avere il controllo della situazione. Le causava un’ansia associabile soltanto ai tempi della clinica, un periodo che stava strenuamente tentando di obliare.
« Chiamo Chirone,» borbottò lui quando notò che non avrebbe risposto. Finn era uno dei pochi a rispettare i suoi silenzi, qualcosa che aveva apprezzato sin da subito del chiassoso figlio di Apollo.
« Bevi,» esclamò Cat porgendo al moro una bottiglietta d’acqua a metà, con un filo di condensa sulle pareti di plastica. Era ora di capire con chi stava avendo a che fare. Il ragazzo accettò di buon grado e sporse la destra ad afferrarla per poi svuotarne il contenuto in un unico sorso grato, schioccando le labbra come se ne volesse dell’altra.
« Hai uno strano odore per essere una semidea,» notò con la voce arrochita di chi non era solito utilizzarla molto spesso. Era una voce da uomo sebbene il corpo fosse quello di un ragazzo, un timbro che era certa di aver già udito sebbene non ricordasse in quale occasione.
« Disse la chimera in incognito,» bofonchiò sarcastica accavallando le gambe lasciate nude dal vestitino vintage che indossava. Un tempo aveva avuto anche un cappello di paglia abbinato, ma aveva dovuto cederlo all’inizio della partita di poker per far abbassare la guardia ai suoi avversari.
« La chimera è femmina,» le fece notare lui, con un sorrisetto sarcastico che avrebbe voluto cancellare a suon di pugni.
« Sei molto baldanzoso per uno che è stato trovato esanime e borbottante come una teiera sbeccata. Inoltre mi devi tredici dollari. E un’Harley,» soggiunse sollevando il sopracciglio destro nella perfetta imitazione di un detective.
« Di chi sei figlia? Di Ares?» domandò sarcastico quanto lo era stata lei pochi istanti prima.
Come se solo i figli di Ares potessero apprezzare le motociclette.
Sollevò gli occhi verso il soffitto poi li riportò verso il ragazzo: con tutte le crepe e le ragnatele che c’erano, non era proprio uno spettacolo eccelso.
« Giusto per essere chiari: io domando, tu rispondi,» rimarcò gesticolando con fare teatrale, cosa per cui il ragazzo inarcò le sopracciglia scure, « Chi sei?»
Lui le rivolse un sorriso amabile, qualcosa di talmente stucchevole che le fece piegare le labbra in una smorfia.
« Poseidone, il dio del mare. Forse hai già sentito parlare di me.»
 
[1] Dumbo è un quartiere di Brooklyn, New York.
[2] Olenna Tyrell, personaggio di Game of Thrones
 
 
Angolo Autrice
 
Salve a tutti, lettrici e lettori. Chi piomba qui per la prima volta benvenuto altrimenti bentornati. Come vi sarete accorti, ho cambiato il prologo di Kalokagathìa sebbene la trama sia sostanzialmente la stessa. Sono passati quindici anni dalla fine di Eroi dell’Olimpo, quindi sedici dalla sconfitta di Crono e dei Titani.
Vi lascio al regolamento.
 
  • Non accetto figli dei tre Pezzi Grossi. Non accetto figli di divinità vergini come Era/Giunone, Artemide/Diana, Estia/Vesta. Accetto, però, loro sacerdotesse o Cacciatrici;
  • Sono molto, molto benaccetti figli di divinità minori. Sbizzarritevi. Il pantheon è ricchissimo e pieno di divinità interessanti;
  • Non accetto figli dei Giganti, ma i figli dei Titani sì;
  • Non accetto Mary Sue e Gary Stu;
  • Accetto personaggi sia buoni che cattivi che al confine;
  • Non so ancora quanti semidei accetterò, ma verrà fatta una selezione. Ne accetterò sicuramente 11, ma potrei anche prenderne altri se mi intrigassero.
  • Accetto semidei sia greci che romani;
  • Bisogna inviare le schede esclusivamente per messaggio privato. Non scrivo questa storia per ricevere recensioni, ma solo per il piacere di inventare. Nella recensione gradirei che commentaste il prologo oltre che a specificare sesso, genitore divino ed età del personaggio;
  • Non c’è un limite massimo di schede che potete inviare;
  • Le iscrizioni scadono il 30 Settembre.
 
E questa è la scheda. Per favore, eliminate le parti tra parentesi. I campi segnati con * sono facoltativi.
 
Nome e Cognome:
Secondo nome*:
Soprannome*:
Età (attuale e di arrivo al Campo) con data di nascita:
Genitore divino e rapporti:
Genitore mortale e rapporti:
Greco o Romano (se Romano, specificare Coorte ed eventuale ruolo):
Descrizione fisica:
Prestavolto:
Descrizione caratteriale e psicologica (siate dettagliati e accurati. Non meno di una decina di righe):
Malattie o disturbi*:
Storia personale: 
Arma/poteri/abilità (non esagerate):
Ama/Odia:
Fobie/incubi/debolezze:
Relazione con altri OC (volete che abbia una relazione sentimentale? Con che genere di persona si rapporterebbe in amore? Con quale in amicizia? Quale genere proprio non sopporta?):
Orientamento sessuale:
Difetto fatale:
Frase che lo caratterizza:
Altro* (curiosità, hobby, passioni):
 
E loro sono i miei due OC:
 

Caitria “Cat” Dalekein. 16 anni. Figlia di Prometeo.

 

Quello che non sai non può farti male, vero? Se un uomo attraversa una stanza buia dove c'è una voragine, se ci passa a pochi millimetri, non c'è bisogno che sappia che c'è mancato un pelo a cascarci dentro. Non c'è bisogno di avere paura. Basta che le luci restino spente.
Cujo, Stephen King
 
George “Finn” Finnigan. 16 anni. Figlio di Apollo.



Lorenzo: I'm also told that you are a trouble-maker, you are arrogant, impolitic, and utterly incapable of keeping your opinions to yourself.
Leonardo: Arrogance implies that I exaggerate my own worth. I don't.
Da Vinci’s demons. 
   
 
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