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Autore: reginamills    21/09/2016    3 recensioni
{Sequel di Take Me Away} | Outlaw Queen AU. Robin Locksley aveva tutto: una bellissima casa, una moglie che amava con tutto sé stesso e che lo ricambiava, un bambino in arrivo e perfino un fedele amico: si tratta di Wilson, il Golden Retriever che lui e Regina avevano adottato. Ma ecco qui: un battito di ciglia e tutto ciò che ama di più sembra scomparire davanti ai suoi occhi. E, come se non bastasse, il passato sembra ripresentarsi...
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Regina Mills, Robin Hood
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Beh, scusate l'orario! Sono le due del mattino ma su twitter vi avevo promesso un nuovo capitolo entro stasera e beh... eccolo qui. Avrei postato prima ma ho avuto dei problemi con la connessione... figuratevi se me ne poteva andare bene una! 
Ma basta chiacchiere, vi lascio alla vostra lettura, anticipandovi che sarà leggermente più lunga della precedente.
Spero vi piaccia! 
Buona lettura :)
 

Quando Robin tornò dal cimitero, quella mattina, erano già le undici. 
Considerando che ci era andato subito dopo aver accompagnato Renee a scuola, intorno alle otto, aveva impiegato più tempo del previsto. Non era colpa sua, sapeva che non era colpa sua se doveva, ogni volta, chiudere gli occhi e riaprirli, ricacciare indietro quella sensazione di nausea più di una volta alla vista di quella tomba.
La sua tomba. 
Erano passati otto anni, ma lui ancora non riusciva a crederci: l’amore della sua vita, la donna per cui avrebbe fatto qualunque cosa, era stesa lì, sotto un metro di terra. Non sarebbe mai più tornata e, ormai, Robin faceva i conti con questo ogni singolo giorno.
Una volta riuscita finalmente a guardarla, comunque, tutto gli veniva abbastanza automatico, come un rituale che, ormai non così troppo spesso, era solito ripetere: toglieva i fiori che ormai si erano rinsecchiti sostituendoli con altri più freschi e sempre colorati, colmava il loro vaso del giusto livello d’acqua e si assicurava che neppure una foglia fosse fuori posto. Il tutto cercando quanto più possibile di evitare di guardare quella fotografia.
La sua fotografia.
Erano anni che si rifiutava di guardarla. Lo aveva fatto solo una volta, al funerale, e la sensazione che aveva provato nel guardare quegli occhi perfettamente castani che contrastavano con il pallore della lapide, lo torturava ancora ogni notte.
Poi, Robin aveva stampato un bacio sulla sua mano, aveva accarezzato la fredda pietra che custodiva quel corpo che una volta aveva tanto stretto tra le sue braccia ed aveva abbassato lo sguardo per evitare di leggere quel nome.
Il suo nome.

 

Regina Mills, adorata moglie e madre.

 

Dopodiché, Robin Locksley se ne era andato, senza dire una parola. 
Mentre ripercorreva la stradina di ciottoli ambrati del cimitero, Robin si era guardato intorno. Aveva notato il modo in cui alcune tombe fossero completamente abbandonate, senza neppure un fiore. Ne aveva notate altre dove i fiori sembravano addirittura abbondare. Poi, si era soffermato a guardarne una in particolare, accanto alla quale sedeva una donna, in ginocchio, intenta a fare esattamente ciò che lui aveva appena finito di fare.
Notò come la donna fosse molto più serena di lui, e di come, al contrario di quanto lui facesse, lanciava lunghi e amorevoli sguardi alla foto che sembrava donare un po’ più di colore alla lapide. E notò anche il modo in cui le sue labbra si piegassero in morbidi e amorevoli sorrisi, tra una parola e l’altra.
Chiunque fosse quell’uomo, lei ci stava parlando. Proprio come faceva lui con la sua Regina.
Non era la prima volta che vedeva qualcuno parlare ad una lapide; lui, ad esempio, non l’aveva mai fatto: sapeva che, anche se tutto ciò che restava dell’amore della sua vita era racchiuso sotto quel pezzo di marmo, la sua anima era altrove, era con lui, con la loro bellissima bambina, nel loro letto, a casa loro.
Lo aveva sempre saputo.
“Era un suo amico?” la voce della donna, improvvisamente rivolta a lui, sembrò come risvegliarlo da un lungo sonno. Merda.
“Come?” batté le palpebre più di una volta “No, mi—Mi dispiace, ero immerso nei miei pensieri e…” estrasse una mano dal cappotto nero e se la portò tra i capelli, grattandosi la testa con fare goffo. “Mi scusi, non volevo ficcare il naso, mi creda. Stavo pensando a—“
“Non deve preoccuparsi.” la donna gli offrì un sorriso gentile. “In molti mi credono pazza.”
“Non lo è.” si affrettò a dire Robin. “Anche io,” prese una pausa, un profondo respiro “parlo con mia moglie. Solo non qui, non al cimitero. Ma questo mi rende meno pazzo di lei?” ridacchiò.
“Suppongo di no.” rise anche lei e Robin si accorse solo allora del fatto che si era alzata da terra e che lo stava guardando da vicino. “Mi dispiace molto per sua moglie.” disse poi, seria.
Robin annuì, abbassando lo sguardo. Solo allora si permise di dare un rapido sguardo alla tomba che la donna stava poco prima accudendo. “Anche a me per suo marito.” disse poi, indicando la lapide.
Lei sembrò sorridere, un sorriso di quelli amari: “Sono passati quattro anni da… da quando l’ho perso e ancora non riesco a farmene una ragione.”
Per Robin, per un attimo, fu come guardarsi allo specchio: “Per me ne sono passati otto. Mi creda, so come ci si sente.” 
La donna lo guardò fisso. Robin notò che aveva due bellissimi occhi verdi che, in quel momento, forse, contenevano più lacrime dei suoi. 
“Mi chiamo Jane, comunque.”
“Robin.”
E poi, dopo alcuni minuti in cui nessuno dei due aveva osato dire una parola, si erano salutati e divisi, andando ognuno per la sua strada. Robin non aveva capito che cosa di quell’incontro l’avesse portato a ripensarvici anche una volta tornato a casa. Poi, guardando il letto ancora sfatto, aveva capito: incontrare quella donna, parlare con qualcuno che avesse subito il suo stesso dolore, sentirsi come se stesse guardando sé stesso dall’esterno… faceva bene. Lo faceva sentire meno solo in un mondo decisamente troppo crudele.
Mentre rifaceva il letto, sistemava i cuscini e piegava le lenzuola, si sentì di sorridere. Prese una delle foto di Regina che teneva sul suo comodino, fermamente compressa in una cornice d’argento. Si sedette all’angolo del letto e strinse con tutte le sue forze a sé quell’oggetto così semplice ma carico di significato.
“Scusami, amore mio. Scusami se, ogni volta che vengo a trovarti, io… Non ti guardo.” strinse forte le palpebre e gli sembrò di vedere il dolce viso di sua moglie sorridergli e sussurrargli che tutto andava bene, che non importava. “Dio, ti amo così tanto…”
E, dopo aver accolto calorosamente, seppur a malincuore, quelle lacrime compagne di vita da ormai otto anni, Robin cercò di mantenere la promessa fatta a sua figlia la sera prima: pulì la casa. Cominciando da quella cornice d’argento.

Renee Locksley prendeva l’autobus per tornare a casa. Tutti i giorni a mezzogiorno, puntuale come un orologio. Fino a due anni prima la accompagnava il suo papà, ma lei lo aveva supplicato di lasciarla andare da sola, spiegandogli che ormai era grande e che non aveva di che preoccuparsi, visto che tutti i suoi compagni facevano lo stesso. Robin, con riluttanza, aveva accettato, decidendo che sarebbe stato l’ennesimo passo importante per una bambina che stava crescendo decisamente troppo in fretta. 
Le prime volte, ricordava, l’aveva aspettata sul portico in ansia, e Renee lo sapeva: aveva notato il modo in cui il suo papà camminava avanti e indietro, sedendosi e rialzandosi dal dondolo, giocherellando distrattamente con il cellulare mentre, con discrezione, controllava ogni macchina che attraversasse quella strada.
Dopo una settimana, comunque, ci aveva fatto l’abitudine: in fin dei conti, la sua bambina ritornava sempre puntuale, sana, salva e sorridente.
Quella, però, non era una di quelle mattine: era seduta sulla panchina da circa un quarto d’ora. L’autobus era in ritardo e molti dei suoi compagni, con l’aiuto dell’insegnante, avevano chiamato i propri genitori per chiedere di essere riportati a casa. 
Brianne però, la sua amica del cuore, ed anche l’unica che aveva, non era fra questi: “La mia mamma sta lavorando, non può venire.” aveva spiegato timidamente a Renee, guardandosi le scarpe rosa. 
“Non preoccuparti, non ti lascio da sola, aspetteremo l’autobus insieme.” Renee aveva sorriso ed aveva abbracciato la sua unica amica che, sollevata, aveva ricambiato.
Erano lì da un quarto d’ora e dell’autobus ancora nessuna traccia. 
“Forse dovrei chiamare il mio papà. Ha la giornata libera, sicuramente non sarà un problema per lui riportarti a casa. O forse potresti pranzare da noi! Ti andrebbe, Bree?” 
La piccola sorrise, quei capelli così lisci e biondi, che a Renee ricordavano tanto quelli della sua Barbie, furono mossi dal vento.
“Dev’essere bello avere un padre.” sospirò. Il sorriso era ancora lì, a piegarle le labbra, ma non raggiungeva più i suoi occhi verdi. 
Renee sorrise: “Lo è molto.” e lo pensava davvero. Il suo papà era il suo mondo. “Ma non devi sentirti triste: il tuo papà è in cielo, proprio come la mia mamma. Sono sicura che ora si trovano su una nuvola, seduti proprio come noi. Ci guardano e ridono di come ancora insistiamo per prendere quello stupido autobus!” risero insieme e il mondo tornò a riempirsi di colori. 
“Lo pensi davvero?” chiese Brianne.
“Lo penso. E ci guardano, ci proteggono e ci amano tantissimo.” Renee prese la mano della sua amica: “Forza adesso, torniamo dentro e chiediamo alla signorina Blanchard di fare quella telefonata.” 
Si sorrisero a vicenda e la sua amica annuì. Si precipitarono di nuovo in classe e la signorina Blanchard rispose che ci avrebbe pensato lei. Renee fece l’occhiolino a Brianne e le strinse di nuovo la mano: “Andiamo ad aspettare fuori. Non vedo l’ora di presentarti mio padre, ti piacerà tantissimo!” 
Brianne rise: “Come si chiama?” 
“Robin. Come Robin Hood.” la sua amica rimase stupita a giudicare da quel gigantesco “Wow!” esclamato con occhi sognanti. Renee le regalò un sorriso dolce:
“E la tua mamma, invece?”
“Jane.” 
 

Ancora una volta vi chiedo di fidarvi di me e della storia che sta venendo fuori. Ricordate che nulla succede mai per caso! 
Spero vi sia piaciuto e, come sempre, qualsiasi commento o recensione è sempre ben accetto!

   
 
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