Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: L0g1c1ta    29/09/2016    0 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Lituania immagina di essere dentro ad un pendolo. Immagina delle lancette immaginarie dondolare avanti ed indietro all’interno di una finta scatola di legno. Nota che non ci sia alcuna gigantesca lancetta, ma solo il buio dello studio di Russia, la pelle della poltrona fin troppo morbida, il profumo di primavera di Russia. Russia sa di fiori e di pini, sa che è stupido pensare ad una cosa del genere proprio ora. Ora che ha visto il battito nella vena di Polonia, non riesce a pensare a nulla. Il suo cervello ha un blocco, o qualcosa di simile. Lituania immagina nella sua mente un veloce guizzo di scarabocchi e petrolio nero. Inchiostro e garbugli di graffiti. Come uno scarabocchio di un bambino, Lituania ha la mente impiastricciata e bloccata. Anche il corpo rifiuta di avere reazioni.

Russia continua a sfregare la mano dietro la nuca. Qualche minuto, forse secondo fa, era più gentile. Le dita dell’uomo strusciano, impacciate, tremori, dietro la sua nuca. E il pendolo continua a dondolare. A malapena gli occhi reagiscono e memorizzano quel che stia facendo il generale. Poggia spesso le dita sui suoi capelli, Russia. Forse gli piacciono che siano lunghi o forse vuole recuperare qualcosa che teme di perdere o di aver perduto. Spesso la sua mano scende e tocca la nuca, senza cicatrici e tagli. Lì l’ha sbattuto contro il vetro e quei pezzetti di cristallo si erano conficcati nella schiena. Ora la mano trema e il dondolio nella sua testa diventa sempre più asfissiante.

Se l’uomo gli abbia parlato tempo prima, quando l’ha portato fuori da quello scantinato, non saprebbe dirlo. Il pendolo ha cominciato a spezzargli l’udito appena è entrato in casa. Appena Russia l’ha portato dentro, in salotto. Appena l’ha fatto cadere su quella poltrona, nel suo studio, in mezzo a quel buio. Si deve essere dimenticato di aprire le tende, pensa il ragazzo. Vorrebbe darsi dello stupido, che non è il momento di pensare a certe cose, che dovrebbe pensare a Polonia, ancora là sotto al freddo, ancora vivo. Ma il pendolo dondola ancora, Russia è ancora più impacciato e il garbuglio nel suo cervello è troppo aggrovigliato per essere districato. Russia trema, lo stringe più a sé, terrorizzato.

Lituania è ancora freddo. Lituania è ancora ghiaccio. È ancora morto. Russia ha paura di questa reazione, allora sfrega con più forza. Quasi gli fa male. Ora il ragazzo registra il dolore. Un frammento di scarabocchio cancellato. Batte le palpebre, il pendolo ha un suono troppo veloce e rimbombante. Gli fanno male le orecchie, l’uomo lo stringe troppo forte. Sbatte ancora le palpebre. Se ne rende conto, il lituano, che il dondolio della lancetta non era altro che il cuore angosciato dell’uomo, premuto malamente contro il suo orecchio. Fa male quel suono, anche se innocente. Lituania non è più gentile, non pensa più al bene di qualcun altro. Nemmeno dell’uomo che è cambiato tanto per lui. Nemmeno per i suoi fratelli. Non pensa di far del male a Russia col suo silenzio e coi suoi occhi ghiacciati. Lituania vuole solo stare da solo, per riflettere e per comprendere il miracolo che ha visto. Vorrebbe che Russia non patisse per lui, che lo lasciasse andare.

Russia, forse compreso qualcosa, forse semplicemente arreso, lo libera dalla stretta. Lituania si sente libero e sollevato. Preoccupato e triste. Abbandonato e solo. Russia non lo sfiora più, non prova più a confortarlo per un male che lui immagina. Lituania non è malato e non ha bisogno di aiuto, ma la mano dell’uomo era calda e l’abbraccio teso ma paterno. Sente le spalle ghiacciate e nude, i capelli disfatti e i vestiti fin troppo leggeri. Sa che lo sta guardando, che vorrebbe una sua parola, un cenno o un pianto. Russia accetta ogni cosa da loro ora, ma non riceve niente dal ragazzo. Lituania lo immagina più piccolo e bambino. Più incapace e tormentato. Non vuole che si senta male per il suo dolore. Non potrebbe sopportarlo. Ma non riesce nemmeno a pensare a Polonia, per questo resta immobile come la maschera di cavaliere che ha sempre indossato. Vede un tentennamento del capo da parte del generale. Pare annuire e comprendere qualcosa di sconosciuto perfino a Lituania stesso.

“Lietuva…” non Lituania, non Litva, che comunque non usa mai, ma Lietuva. Lituania attende e lo guarda. I suoi occhi non sono tristi, non più. Hanno qualcosa di cupo e malinconico, le sue iridi. Lituania attende ancora, statua di ghiaccio e mente congelata “Ti devo far vedere una cosa” la voce affatto infelice, eppure fragile come un fiore, con discrezione lo tocca. Lituania guarda Russia, ma Russia non guarda Lituania. I suoi occhi sono di un bambino infantile che con fatica tenta di raccontare una sua marachella. La voce fragile e adulta di un uomo addolorato che tenta di narrare la morte di un fratello. Russia si alza, ma non si cura di far alzare il ragazzo. Lituania si alza, ma perché ora è preoccupato, anche se rigido come roccia.

L’uomo si ferma alla sinistra della scrivania e punta gli occhi sotto al legno scuro. Fermo, indeciso se continuare, rimane ancorato in quel punto, bollente e pentito. Lituania, freddo come ghiaccio in inverno, muove i passi e li ferma di fianco al suo padrone. Questo non si scuote, né si scosta. L’iride incapace e colpevole punta verso il basso, dove gli ampi cassetti occupano il legno dello scrittoio. Lituania attende ancora, affatto impaziente, ma inquieto dalla piega dello sguardo del generale. Russia lo guarda, sposta l’occhio su di sé. L’ametista non brilla, né riesce a vedere qualcosa con cui possa parlargli. Guardano entrambi lì, nei cassetti. L’uomo l’osserva ancora e pare aver preso la decisione più dolorosa della sua vita. Annuisce e il ragazzo capisce che parli con lui. Lituania ricorda un baule, del sangue e il cadavere di Polonia ammucchiato là dentro come sporcizia e panni sporchi. Per questo tentenna molto nell’aprire l’ultimo cassetto della scrivania.

Aperto, Lituania rimane perplesso ed angosciato, forse anche travagliato. Carta, prima bianca e ora gialla, per gli anni e forse per i secoli abbandonati alle spalle. Lettere, lettere accumulate e riposte con cura in un unico cassetto. Due lunghe file di carta compresse le une con le altre, simmetriche e perfette nella precisione. Lituania non potrebbe dare un nome a quel che sta vedendo e non sa nemmeno cosa siano tutte queste missive e il non saperlo lo affligge. Il ghiaccio si scongela, gli occhi vivi, trepidanti e la gola aperta nel ricevere deglutii. Sa che Russia gli stia facendo vedere qualcosa di orribile, che forse si pentirà di conoscere. La mano ferma e i pensieri ancora ingarbugliati, afferra la prima lettera della prima fila a sinistra. La carta pressata e perfetta, già aperta e strappata. Lituania non vede che l’indirizzo della casa di Russia e la città di Vienna premuta sotto ad un timbro. Ansioso, forse cosciente di quel che sta avendo in mano, afferra tremore la carta dentro la busta e inizia a leggere, con una fretta disgraziata nel voler sapere.

 

Caro Liet,

sono io. Sono Polonia. Sì, lo so, non è proprio il modo totalmente corretto di iniziare una lettera, ma volevo scrivertelo di corsa. Sono riuscito ad avere il tuo indirizzo, cioè quello di Russia (ma è anche il tuo, quindi è ok, no?). Non chiedermi come abbia fatto ad averlo, perché è stato tipo una faticaccia. Te lo racconterò in un’altra lettera. Ti scrivo perché non voglio che tu fraintenda o che pensi che ora sia tutto finito fra noi due.  

Voglio che tu sappia che tu sei ancora mio amico e vorrei tanto che anche per te sia tipo lo stesso. Perché non ce la farei proprio a stare da solo e a pensare che tu sia totalmente lontano da me e che forse tu viva anche peggio di come vivo io (non che viva male, ma che ne so io come ti tratti qualcuno come Russia). Sono ancora malato, Liet. Mi hai visto durante il Congresso, no? Te lo leggevo in faccia. Cioè, sapevi quel che mi era successo e come stavo. Te l’ha detto Austria, giusto? Non mi sorprenderei, ma non sono arrabbiato con lui, alla fine l’avresti scoperto lo stesso. Forse te lo avrebbe detto Russia (o qualcuno cattivo come lui, tipo Prussia, ma ora non importa). Comunque, voglio che tu sappia che è tutto vero. Sono stato strappato letteralmente dalla mia nazione, prima che scomparisse del tutto e io con lei. Il cordone che ci legava dev’essersi spezzato, o qualcosa del genere, e ho avuto dei mesi d’inferno prima di stabilizzarmi e ad abituarmi a non dipendere più dalla mia terra. È tutto vero, Liet. È vero anche che fino a qualche anno prima del Congresso io non vedevo né sentivo nulla. Cioè, veramente. Era come essere dentro una stanza senza finestre né porte. Al buio, totalmente al buio. Non capivo nulla all’inizio, Liet. Credevo di essere morto e di essere finito all’Inferno. Poi però mi ero reso conto di essere ancora vivo e di… essere stato proprio fortunato. Credevo che fossi sopravvissuto per te, Liet. Che dovevo ancora fare qualcosa di importante in questo mondo prima di morire veramente.

Ora ho riavuto la vista e ricordo ancora come si scrive, ma mi fa male pensare a come ti senta laggiù, da solo, veramente solo. Qui ho Ungheria e Italia. Ho fatto amicizia anche con lui, lo sai? Mi preparava lui il pranzo e mi abbracciava quando piangevo e pensavo a te. È davvero, ma proprio davvero davvero, una bravissima persona e un buon amico. Qualche volta Austria si preoccupa per me. Fa un po’ paura, ma è buono anche lui. Ungheria dice che non è cattivo, ma che fa così perché è stato abituato ad essere totalmente severo con tutti. Ne so qualcosa, per questo non mi arrabbio quando mi sgrida o tipo va di matto. Immagino che tu non abbia nessuno, Liet. Io ho qualcuno qui che mi vuole bene, ma tu non so. Non credo che Russia… lascia stare.

Ti scrivo per dirti che sei ancora mio amico e che vorrei che ci scrivessimo ancora, anche se siamo lontani. Anche se forse non ci rivedremo tanto presto. Ma tu (dico veramente, non ti prendo in giro) sei importante per me. Non potrei dimenticare nulla di te. Mi fido più di te che di qualcun altro! Non mi fido di me stesso se prima non ho tipo il tuo sì. Liet, scrivimi, voglio sapere se tu stia bene. Dimmi di tutto. Dimmi pure che mi odi per non essermi alzato per aiutarmi quella volta, ma a me non importa. Non cambia che io ti voglia bene. Liet, aspetto la tua lettera, tipo totalmente impaziente!

Tuo,

Polska

 

Lituania è confuso. Il battito del cuore libero ed emozionato, ma incredulo. Legge la data e non capisce. Polonia non gli aveva mai scritto prima del conflitto con lui stesso avvenuto decenni fa. Non gli aveva mai raccontato della sua malattia, nemmeno che avesse fatto amicizia con Italia. Nemmeno che ci fossero con lui Ungheria ed Austria. Non ricorda una sola volta in cui gli avesse scritto il suo indirizzo per ricevere o mandare lettere. In quegli anni Lituania si sentiva solo e credeva di essere stato abbandonato. Credeva che Polonia non lo volesse più e cercava di convincersi invece che la sua malattia l’avesse colpito con più forza o che avesse di nuovo perso la vista. Guarda di nuovo il cassetto stracolmo di carta gialla. Frettoloso, ne afferra un’altra, al centro della prima fila, iniziando a comprendere la verità.

 

Caro Liet,

cioè, non riesco ancora a capire perché tu non mi scriva. Almeno un ‘Polska ti odio per avermi abbandonato quaggiù a morire di freddo’, no eh? Bene, se sei arrabbiato con me, non fa niente. Ti scriverò lo stesso, così mi vendico anch’io e saremo tipo tutti felici. Contento?

Ieri era l’anniversario di matrimonio di Austria ed Ungheria. Si sono innamorati, Liet. Si sono davvero innamorati. L’ho visto mesi fa, forse lo erano anche prima, quando non stavo bene e forse non vedevo niente, ma ora è ovvio. Sono belli insieme, anche Italia dice lo stesso. E se lo dice Italia, allora è tipo la verità. Abbiamo fatto una sorpresa a loro due. Abbiamo suonato insieme tutto quel che sapevamo dell’Ungheria e dell’Austria. Lo abbiamo suonato al pianoforte, io ed Italia. Abbiamo preparato insieme la cena e poi li abbiamo visti ballare. Cioè, Liet, se c’eri tu t’innamoravi di quell’atmosfera. Erano un pezzo di paradiso in mezzo a questa terra. Non esagero, davvero, Liet. Lo sai cosa penso del matrimonio, ma non ce l’ho fatta.

Quando si sono baciati era come se il mondo mi si fosse capovolto, ma nel verso totalmente giusto. Ero… totalmente felice per loro. Italia mi abbracciava e quei due non si staccavano per un secondo. Erano la cosa più dolce di questa casa. Austria così felice non l’ho mai visto. Tranne, certo, quando c’è Ungheria vicino a lui. Mi fanno davvero cambiare idea su tutto quello che ho visto a corte, lo sai? Forse esistono dei matrimoni felici e forse io sono stato totalmente idiota per non averli mai visti. Mi piacerebbe vederti sorridente come ho visto oggi quei due. Non sento ancora nulla, Liet. Non ricordo più nemmeno che suono faccia un pianoforte e credimi se io ed Italia ci abbiamo messo dei giorni per coordinarci senza sbagliare nemmeno una nota.

Liet, ricordo la tua voce. Ricordi quando ti ho portato nel bosco, quando eravamo piccoli? Tipo, eri contentissimo, ne ero certo. Avevo mangiato troppi mirtilli e mi si era fatta la lingua blu. Dicevi che sembravo tipo un folletto ed ero buffo. Eri felicissimo, lo sapevo. Ridevi come un matto, non la smettevi più. Ricordo il suono della tua voce, Liet. Ricordo solo questo. Non ricordo più nemmeno la mia di voce. Ma mi sta totalmente bene. È meglio così, ricordo bene anche come canticchiavi quando tornavamo al castello e come provavi a raccontare a quelli idioti della corte come tu ti fossi divertito. Ero felicissimo anch’io, lo sai? Ma sono strafelice lo stesso. Conserverò la tua voce per sempre e più, Liet. Non mi dimenticherò mai di te. Ti voglio bene.

E scrivimi, almeno so che sei totalmente arrabbiato, così mi arrabbio anch’io e facciamo pace, va bene?

Tuo,

Polska

 

Gli gira la testa. Comprende. Comprende anche senza vedere Russia in volto. Si sente male. Sente la nausea e forse le gambe molli come foglie d’autunno. Con la testa ancora più ingarbugliata e i polmoni straziati, afferra un’altra lettera, una delle ultime della prima fila.

 

Caro Liet,

veramente, scrivimi, non mi sento bene. Non mi scrivi perché non mi vuoi più vero? Sei arrabbiato ancora e non vuoi più parlarmi, è così?

Liet, te lo dico. Sai perché non mi ero alzato quella volta e non ti ho salvato da Russia? Liet, avevo la pancia aperta. Non ti sto mentendo, Liet, è vero. Ero ferito, mi hanno sparato. Non mi hai visto perché eri svenuto e ti volevano far del male. Ti ho difeso con tutto il mio corpo, Liet, e non mi pento. Tipo per niente. Anche se ho dovuto sparare in faccia ad uno di loro. Non si è più mosso da lì, ma non m’importava un bel niente. Puoi anche non credermi, ma è totalmente così. Mi girava la testa, faceva freddo e tu non ti svegliavi. Credevo che fossi morto, Liet, e che presto sarei morto anch’io. Quando Russia ti ha portato via, sapevo che era totalmente inutile. Non avevo nemmeno un po’ di energia, mi sentivo morire per davvero, Liet. Sono rimasto lì per tutta la notte e credevo che sarei morto di freddo. Lo sentivo in quel momento, non appena ti hanno portato lontano da me. Sentivo che mi avrebbero ucciso, ma che tu almeno saresti sopravvissuto. Era totalmente ovvio, Liet.

Ma non mi mossi nemmeno per salvarmi. Sapevo che non serviva. Sapevo già che sarei morto di freddo o che mi avrebbero abbandonato lì ugualmente. Ma pensavo solo che tu ti saresti salvato e che avresti potuto avere una possibilità. Liet, sto piangendo. Dico davvero Liet, sto piangendo come un bambino. Non sento ancora nulla e ora non ci credo più che riavrò indietro le orecchie. Credo che adesso le cose andranno sempre male e non solo fra noi due.

L’hai saputo lassù, vero? Sacro Romano Impero è morto. Non l’ho proprio visto quando ero qui, a Vienna. So veramente poco di lui, ma mi fa male sapere una cosa del genere. Francia è venuto da noi. Piove anche oggi e non credo che finirà questo diluvio. Forse anche Dio è triste o qualche angelo ha pietà di noi. Non sento ancora nulla, ma ho letto le labbra, Liet. L’ha detto mormorando. Era ferito e aveva il mantello strappato. Ha portato in disparte Italia e gliel’ha detto. Ha detto che il suo amico è morto. Piango, Liet, piango. Italia non aveva più nulla che lo ricordasse come lo ricordavo prima. Non piangeva, ma lo ha ucciso questa notizia. Non ha detto niente, si è alzato ed è uscito fuori. Continua ancora a piovere, vedo i fulmini fuori dalla finestra e sento con le dita il vento che prova a spezzare il legno della porta.

Liet, Italia è sparito, non so dove sia. Austria ed Ungheria sono andati a cercarlo, ma non lo trovano. Sono passate ore e fra poco sarà buio. Ho paura, continuo a piangere, ho paura che Italia voglia scappare o peggio. Tremo e ho freddo, in questa casa non c’è più nessuno. Francia è ancora in salotto, sono tipo insieme a lui. Non riconosco più nemmeno lui. Ho paura. Sono triste, voglio che tu sia qui. Voglio che tu mi abbracci, come facevi sempre. Liet, mi manchi. Scrivimi, ti supplico, scrivimi.

Tuo,

Polska

 

Scarta un’altra lettera, una delle prime della seconda fila.

 

Liet, perché non mi scrivi? Perché mi vuoi far piangere così?

Sto male, Liet, sto male. Mi trattano come un bambino, come un malato. Hanno cominciato a farlo adesso. Mi fa male il cuore. Voglio di nuovo sentire, Liet, è orribile tutto questo. Italia non mi parla più, non vuole vedere più nessuno. Si è chiuso in camera sua, non vuole che qualcuno gli parli o solo che lo veda. So come ci si sente quando si perde qualcuno, Liet, lo so bene. Vorrei che Italia si senta bene e vorrei che anche Austria ed Ungheria mi pensino ancora. Non mi pensano più, lo sai? Non c’è più quell’atmosfera, non c’è più quel profumo di sposi nell’aria. Non so se stiano bene insieme l’uno con l’altra adesso. Ho paura che forse tutto questo possa distruggere il loro legame.

Vorrei che Francia non fosse mai venuto a casa nostra e che non abbia mai parlato con Italia, né con Austria ed Ungheria. Non lo perdonerò mai per questo. Lo so bene: l’ha ucciso lui, con quel dannato Napoleone e la sua voglia di conquistare. Fra poco conquisterà tutta l’Europa e ci mangerà tutti quanti, ne sono certo. Al diavolo la Nazione dell’Amore!

Mi sento solo, Liet. Ti voglio bene. Ti voglio tanto bene. Sei il mio migliore amico, ti amo tanto. Non potrei dimenticarmi mai di te. Ti prego, dimmi che non ti è successo niente o che non stia scrivendo ad un muro. Ti prego, Liet, ti sto supplicando in lacrime…

 

Un’altra lettera, una al centro della seconda fila.

 

Lietuva, leggi, questo è lituano.

È vero lituano. L’ho imparato per te, lo sai? Ora possiamo scriverci nella tua lingua. Quando eravamo bambini e vivevamo insieme, non ho mai voluto impararlo. Credevo che saresti stato insieme a me per sempre, quindi che non avrei avuto bisogno di imparare la tua lingua. Pensavo che sarebbe stato molto più semplice se tu avessi imparato la mia di lingua. Te lo dico perché voglio essere totalmente sincero con te. Sono mesi che ti scrivo, ma tu non scrivi a me. Ma non riesco a dimenticarti, tipo per niente. Ti voglio bene ancora, Lietuva, come ho sempre fatto.

Prussia è tornato a farci visita. Tutto è cambiato. Quando entrava lui in casa, sembrava come se tipo fosse entrato un demone e noi dovevamo scacciarlo via il prima possibile. Austria ed Ungheria non lo volevano mai e non gli parlavano nemmeno troppo. Non so bene il perché, ma era così prima. Era accaduto tutto in fretta e io a malapena capivo quel che stava accadendo.

Italia era scappato di nuovo e non tornava più a casa, nemmeno dopo quasi tre giorni. Prussia, non so come, l’ha trovato. È stato un miracolo, Liet. Non so cosa si siano detti o cosa sia accaduto fra loro due, ma l’ha riportato a casa. Eravamo in pena per lui e per quel che gli passava per la testa. È stata solo gioia, Liet. Ci siamo abbracciati, tutti noi: io, Ungheria, Italia, Austria (non ci crederai mai!) e anche Prussia si è unito a noi. Sembravamo veramente una famiglia. Mi sentivo benissimo. Qualcosa si è aggiustato totalmente fra di noi. Italia non scappa più e riesce a sorridere ancora. Austria ed Ungheria si amano ancora. Prussia è entrato nella nostra famiglia, o tipo quel che è il nostro gruppo.

E’ ritornato il sole, anche se qui Francia con quel maledetto diavolo di Napoleone ne fa accadere di tutti i colori. Ma non m’importa. L’importante è sorridere, Liet. Perciò fallo anche tu. Sorridi in tanti modi diversi, lo sai? Non fai mai lo stesso sorriso. Arricci le labbra almeno in dieci modi totalmente dolci. Un giorno li conterò, va bene? Ti andrò a trovare lassù, a Mosca, prenderò a calci Russia e ti abbraccerò di nuovo. Anche se sarai totalmente arrabbiato o forse mi avrai dimenticato, me ne fregherò tipo completamente! Ti voglio bene e questo non cambierà mai.

Tuo,

Lenkija

 

“Alcune le ho bruciate, ma la maggior parte le ho conservate” la voce di Russia, fragile e sottile come un filo, gli fa alzare il capo. Non lo guarda, non si volta verso di lui. Il garbuglio che ha nella testa non prova, nemmeno tenta di srotolarsi. Si sente soffocare. Si sente rinchiuso in una gabbia. Vede le pareti stringergli attorno al corpo e paralizzarlo nelle proprie membra. Ancora silenzio, il pendolo è scomparso minuti fa. Eppure non vuole rumore, il povero ragazzo, che ha ricevuto forse uno dei colpi più forti di tutta la sua vita. Guarda la lettera che ha in mano e la quantità infinita dentro il cassetto. Non riuscirebbe a contarle nemmeno con tutta la sua forza di volontà.

“Non fraintendere, Lietuva, non pensare male di me…” non piange, ma sente nelle corde vocali dell’uomo uno strappo, una ferita sanguinante. Lituania si sente freddo, insicuro, incredulo della scoperta. Tradito. Russia anni fa, prima che iniziasse la guerra, ha giurato a loro tre fratelli che mai più li avrebbe mentito. Mai avrebbe nascosto a loro qualcosa. Lituania non guarda Russia, non ha le forze per farlo. Ritorna ghiaccio, ritorna maschera di cavaliere. Guarda di fronte a sé, la porta chiusa, eppure facilmente sorpassabile. Stringe forte il pugno, quello libero dalla carta, quello lasciato al suo fianco. Le nocche scricchiolano e liberano le ossa dal gelo nella sua anima. Non proverebbe nemmeno ad alzare un pugno su qualcuno, ma le dita bruciano di inganno e disperazione. Sente la mano del gigante cedere e provare a posarsi su di lui. Lituania, ancora tradito, veloce e fluido, fa un passo di lato e rifiuta di venire sfiorato. Russia guarda Lituania con disperazione, Lituania guarda la porta come se avesse ricevuto una pugnalata da lei stessa.

“Lietuva, ero diverso all’epoca. Era per te, per voi. L’ho fatto per voi…” Lituania si sente un corpo senza anima, un filo di vento incastrato in questa realtà non sua. Deve costringere lui stesso i passi a farsi strada e ad avviarsi verso la porta. Russia sembra un disperato. Gli sussurra, gli supplica di non arrabbiarsi, di comprenderlo. Ma Lituania non lo comprende, per questo continua a camminare. Non sbatte la porta, non sente nemmeno la consistenza del legno sotto i polpastrelli. Ricorda gli anni di gelo e terrore. Ricorda di aver maledetto quell’idiota di Polska più volte di quanto abbia maledetto Russia in tutti quei decenni. Ricorda la prima guerra combattuta contro Polonia da lui stesso e si sente tradito. Crede che Russia non sia mai cambiato e mai cambierà. Se si nasce mostro, si muore mostro. Non l’ha capito se non oggi. E il seme del tradimento germogliò quando ritornò in quella stanza e trovò un secondo e un terzo cassetto, anch’essi stracolmi di carta. Prese tutte quelle lettere e ancora deve finire di leggerle.

Dentro il treno, guardando Riga dal finestrino, non si pente di aver sacrificato Russia per Polonia. Russia l’ha maltrattato per secoli, ha ucciso la sua gente e in futuro farà questo e peggio. Non lo odia, non ne è capace, non dopo essere cambiato così tanto per loro. Ma nemmeno lo ama. Lituania non si pente di nulla, né vorrebbe cambiare la sua decisione. Paziente, sospirante, guarda la moltitudine di gente nella stazione e si chiede quando tornerà Lettonia dopo avergli concesso di rivedere la sua capitale.

 

Caro Lituania,

sono ancora io. Questa sarà la millesima lettera che io ti abbia scritto in questi anni e questa sarà l’ultima. Sarò breve e maturo con te.

Sto per salvarti da quell’inferno, sto per portarti via da Russia. Sono ritornato ad essere una Nazione. Una vera Nazione e sto iniziando a crescere. Vorrei ritornare come un tempo e mi servono territori. E anche il mio vecchio amico che mi ricordi di avere una testa sulle spalle. Ora so cosa ti fa quel maiale. Non chiederti come l’abbia saputo, ma lo so. E penso che sia una cosa totalmente ingiusta. In passato sei stato il mio cavaliere, mi hai difeso e salvato più volte di quanto ricordi. Ora è il mio turno, Lituania. Questa volta sarò io il tuo cavaliere, sarò io a salvarti e a renderti giustizia. E quando sarò di nuovo grande, ucciderò Russia. E pagherà per ogni singolo istante in cui ti ha fatto del male.

Ho aperto una guerra contro di lui. Ti strapperò via da quel postaccio freddo e buio. Ti porterò a vivere come prima, com’eravamo bambini. Sarai di nuovo mio e staremo di nuovo insieme come un’unica Nazione. Aspetta solo che raggiunga Vilnius e poi faremo insieme festa fino all’alba! Aspettami, che ti riporterò a sorridere come un tempo.

Tuo,

Polonia

 

 

 

 

 

Lettonia allunga il naso sul cielo color cenere di Riga. Annusa, riempie i polmoni di quell’aria completamente diversa e che mai potrà dimenticare. La sua capitale, la sua bellissima capitale è ora qui, di fronte ai suoi occhi. E lui non può vederla per troppo. I polmoni si riempiono di pane sfornato, di dolci freschi, di acqua di mare, di aria tiepida. La tenue pioggia ha smesso di toccare le strade e le vie. Riga è sempre stata calma e pacifica. Mosca è troppo caotica e rigida per somigliarle. Le era mancata. Ah, se l’era mancata.

Smette e ritorna col naso ai piedi della stazione. Non può muoversi, non può oltrepassare le scale, altrimenti perderà il treno. Si sono fermati per una breve sosta, per far passeggiare un po’ i passeggeri e poi ripartire. Ha solo cinque minuti, il povero Lettonia, ma vorrebbe più tempo. Il cuoricino commosso e i polmoni carichi della sua vecchia patria lo fanno commuovere. Sente di essere ritornato a casa. È la sensazione di pace e piacere che difficilmente si dimentica. Russia per qualche anno l’ha fatto sentire in pace, ma mai l’ha fatto commuovere ed emozionare come ora. La panchina viene tastata in continuazione dal suo corpo, irrequieto. I piedi smaniosi. Vorrebbe restare qui per sempre e dimenticare ogni cosa.

La gente per le strade è poca, il cielo ancora grigio, ma di un grigio ben diverso, più tendente al bianco. Più speranzoso e affatto carico di neve. In Russia nevica sempre in anticipo, sempre ed ogni inverno. Fa caldo a Riga, a Mosca tremi dal freddo. Mosca è disordinata, Mosca scoppia di persone e stranieri. Riga è docile, Riga non ha altri se non le proprie generazioni. Non cambia nulla a Riga, Mosca è mutevole e frenetica. Lettonia ha un cuore calmo come la sua città e non gli è mai mancata tanto se non ora. Non è domenica, nemmeno è festa, le persone sono formichine, ben lontane da lui. Non c’è caos, non c’è agitazione. Riga è quiete. Riga è pace.

Una donna, malandata e forse anziana, si siede sulla stessa panchina, nel verso opposto. Lettonia guarda ancora il cielo, sente nell’aria salsedine e una pioggerellina estiva. Ricomincerà a piovere, lo sente nella propria anima. Non si è dimenticato la sensazione di toccare coi piedi la propria nazione. Alza lo sguardo dietro di sé, dove il treno è ancora fermo e i passeggeri ronzanti vespe in un alveare. I vagoni sono ancora fermi, ma l’orologio non gli mente e nemmeno il fischio leggero, segnale di imbarcarsi. Mancano pochi minuti. Deve tornare da Lituania. Amareggiato, eppure maturo, il ragazzino si alza. Col passo di piombo, inizia ad avviarsi. Non si volta, non vuole farlo. Qualcosa di tiepido e gracile lo ferma, una mano gentile. Stringe con difficoltà, lo impone a fermarsi. Lettonia non sobbalza, né trema, troppo cortesi erano le dita, anche se agitate. Volta il capo e i riccioli lo seguono “Lettonia, aspetta!”.

Il ragazzino guarda e non comprende, affatto cauto. La donna non è anziana, non lo è affatto. Non lo è nemmeno la sua mano, piccola ma rigorosa. Strizza le palpebre, insospettito. Si chiede come sappia il suo nome. Occhi blu, toccati dalla gigantesca nube grigio e bianca sotto di loro. Occhi stanchi, occhi pressati dal dolore. Dolore fisico e mentale. Dolore di un tradimento. Lettonia guarda e vede bende pressate sul capo della signora. Le palpebre, incredule, prese da uno scatto di terrore e paura, si spalancano. Le gambe restano impigliate al cemento dello scalino della stazione, la mano ancora impigliata a quella della donna. Se lei fosse stata Russia, avrebbe iniziato a tremare. Eppure ha pur sempre un liquido congelato, stridente sulla sua spina dorsale. Balbetta, come faceva un tempo “C-Che ci fai qui, Ucraina?” sempre gli stessi occhi addolorati, sempre lo stesso dolore. Ucraina è una donna spezzata dalla fatica e dalla sofferenza.

“Lettonia, perché mi hai sparato?”

 

Lituania osserva il cielo, grigio e con un venticello bollente. Non è certo, ma crede che presto inizierà a piovere. Sospira di sollievo, al caldo della cabina, solo e affatto seccato. Non pensa ancora a Lettonia, è ancora troppo presto per preoccuparsi. Il venticello timido entra dentro il vagone. Riscalda l’aria tiepida e ritorna indietro, preoccupato anch’egli ad altre faccende. Deve portare il caldo e l’estate in Lettonia, non può soffermarsi troppo su un ragazzo addormentato. Lituania, cauto e fraterno, s’accosta a Polonia, dritto e dormiente, accucciata la testa sulla coperta, resa ora cuscino.

Poggia lentamente, quasi con timore, un dito sotto al naso del ragazzo. Il respiro debole di Polonia si poggia sulla sua pelle. La riscalda e poi la raffredda, affatto potente come soffio di vita. Il moro, ora tranquillo, toglie l’indice da sopra il labbro dell’amico. Lo fa spesso, terrorizzato da una reazione negativa del corpo. Teme un mancamento, un respiro smorzato, un cuore fermo, un cadavere da portare a Varsavia e non un povero soldato rinvenuto dalla terra. L’osserva, lo controlla. Il volto inespressivo, bianco, né sereno, né dolente. La carne magra senza muscoli, le ossa sporgenti. Pare più morto che vivo, il povero Polonia. Ma a Lituania non interessa.

Istintivo, dolce, afferra la mano fredda dell’amico e la stringe con la sua.

 

“C-Cosa? Non sono stato io, Ucraina!”

“Ne sei certo, caro?”

“Certo! Io stavo scappando, Ucraina. Russia… Russia mi stava inseguendo e voleva sparare me. Non voleva farlo apposta. È stato un incidente”

“Davvero, Lettonia?”

“Sì, davvero”

“Allora perché sei scappato via? Perché non mi hai aiutato?”

“Perché… P-Perché avevo paura…”

“Oddio, caro Lettonia…”

“S-Scusami…”

“Avevi paura di mio fratello o di me, tesoro?”

 

Lituania alza la mano ossuta, senza carne del biondo. La porta di fronte agli occhi. Le iridi ispezionano, più perplesse che preoccupate. Le dita forti iniziano il loro percorso. Sfiorano curiose i solchi e i tagli profondi nella carne marcia. Le dita di Polska sono davvero morte. La terra ha mangiato e assorbito ogni goccia di sangue e sudore. È cuoio sotto i polpastrelli del lituano. La pelle uniforme, legata e stretta attorno ad ogni osso come un guanto soffocante. Inagibile, intrattabile e restia a contrarsi. Teme di muovere troppo le dita, teme di strappare la pelle senza articolazioni, senza liquidi. Porta ancora una volta il fazzoletto bagnato di pioggia sulle dita ossute. Fuori sta incominciando a piovere, ma non a diluviare. Le goccioline, infanti e piccine, tintinnano i loro corpicini sul vetro chiuso del finestrino. Unghie argentine sulla pelle tesa di un tamburo. Come prima, come miracolo, come magia, l’acqua del fazzoletto viene immediatamente assorbita. Affamata di liquidi e sangue, la pelle si tende e inizia a perdere il colore della morte. Più bianca e meno grigia, si stende e appare assai meno rivoltante. Polonia non si è mosso, ignaro di ciò che gli sta accadendo. Lituania sente un secondo fischio del treno. Alza lo sguardo dall’amico e vede fuori i passeggeri tornare dentro i vagoni, ancora pesci in un branco di sardine. Lituania si fa pensieroso e si chiede se Lettonia sia fra quel mucchio di giacche e vestiti.

 

“I-Io… io non volevo…”

“Shh… Lettonia caro, non piangere”

“I-Io non volevo lasciarti lì. M-Ma avevo tanta paura. Pensavo che Russia si sarebbe arrabbiato e non ci avrebbe fatto partire. Non volevo andarmene e lasciarti morire lì, Ucraina. Davvero, credimi…”

“Certo, caro, certo che ti credo. Ti prego, caro, non piangere… Allora perché sei andato via?”

“A-Andato via? U-Ucraina, io non volevo scappare…”

“Lettonia, Russia ed Estonia si stanno preoccupando a casa. Perché sei scappato?”

“N-Non posso dirtelo…”

“Perché, caro?”

“P-Perché sennò farei del male a Lituania”

 

Lituania ha la tentazione serpentina di aprire la veste di Polonia e di scoprire la carne del petto. È curioso, maledettamente curioso di sapere in che condizioni si trovi il torace perennemente scarno del povero ragazzo. Vede bende ancora bianche, pulite e perfette sotto altro fresco e leggero bianco. Potrebbe profumare di pulito, Polonia. Ma la pelle è ancora bucata e il sangue troppo poco per tentare e soddisfare l’infelice desiderio di sapere. Lituania si chiede se veramente, nonostante il lungo viaggio che stanno percorrendo, il suo amico avrà cicatrici impossibili da eliminare. Con le dita ancora intrecciate e il fazzoletto umido premuto fra di loro, Lituania si chiede se mai Polonia potrà avere segni indelebili sul proprio corpo. Non ha mai visto cicatrici sul polacco, o almeno quand’erano ragazzini. Lui combatteva e lo difendeva da mali e disgrazie. Lui si macchiava di sangue, lui si feriva. Polonia era troppo mingherlino, troppo esile per portare fra le mani il ferro di una spada o il legno acuminato di una lancia. Le cicatrici di Polonia venivano spazzate via dagli anni e solo l’anima le curava col tempo e con l’affetto del proprio fratello. Lituania ha ancora qualche ferita ricavata dalla guerra e dai primi anni trascorsi dietro lo scudo di cavaliere. Ma ora sono solo sottili frammenti di vita infantile che persino il corpo ha dimenticato. Le Nazioni dimenticano in fretta l’infanzia. Polonia avrà cicatrici dettate dalla guerra e dal proprio paese straziato e distrutto.

Lituania prova ad immaginare il suo amico col petto libero dai vestiti e le gambe scoperte con ragnatele di tagli. Non ci riesce.

 

“Non fa niente, caro, puoi anche non dirmelo”

“U-Ucraina…”

“Ma sai che Russia è molto preoccupato per te. Crede che non tornerai più a casa. Anche Estonia è molto preoccupato”

“E-Estonia sta bene?”

“Sì, caro, Russia non gli ha fatto niente. Sta bene”

“Oh, grazie al Cielo…”

“Lettonia, tu devi tornare a casa. D-Devi farlo…”

“Ucraina! La tua testa! Esce sangue!”

“Non è niente, sto bene, caro…”

“Sanguini e sei pallida! Sei tu quella che deve tornare a casa!”

“L-Lettonia, devi venire con me”

 

Lituania ritira le dita, involontariamente cadute fra le ciocche morte di Polonia. Se n’è staccata un’altra. Un altro mazzetto di fili d’oro spento cadono e lasciano il cranio secco ed infecondo. Durante il viaggio ne sono cadute altre due, di ciocche. Lituania deglutisce, sospira, abituato ormai a quel che stia vedendo. Abituato a cambiamenti che forse non comprenderà affatto. Afferra l’ennesimo mucchietto e lo lascia volare fuori, contro il vento estivo e bollente, le goccioline, tamburelli contro ogni mattone e tetto di Riga. Polonia non ha capelli molto folti e nemmeno molto forti. Sono letteralmente fili sottili e delicati. Ma non si strappano né cadono facilmente. Sono fili, ma fili rigidi come corde. Lituania impara in fretta e ha imparato a guardare i cambiamenti dell’amico senza aprire bocca. La ciocca era meno folta delle precedenti, ma vede ugualmente uno spazio vuoto e liscio sul capo del ragazzo. Ormai è ovvio: gli cadranno i capelli. Spera che quelli nuovi possano ricrescere velocemente, così come è ricresciuto la carne sul labbro. Ha lasciato un segno bianco e visibile, ma perlomeno non è più carne morta. Anche se un cambiamento positivo, per Lituania è sofferenza: Polonia non sarà completamente come prima.

 

“S-Se ti curi, allora verrò con te”

“Certo che lo farò, caro. Non avere paura, R        ussia non ti farà alcun male. Ti vuole bene, non ti farebbe mai del male. Mai più”

“Ma così dirò addio a Lituania…”

“No, caro, è solo un arrivederci”

 

Lituania ha sentito il terzo fischio, il treno sta per partire. Lettonia non c’è ancora. La gente ha riempito i vagoni e ora chiacchiera all’interno del treno. Deglutisce, un balzo al cuore. Alza il finestrino e caccia fuori la testa. Vento bollente, gocce ghiacciate di pioggia. Riga piange un addio. Si bagna, s’inzuppa piano, il disperato Lituania. Aguzza ancora la vista e vede. Lettonia si avvicina, vede il rosso dei suoi pantaloni. Piano, mortificato, trascina i piedi fin sotto il suo finestrino. Con una fatica degna di Ercole, alza lo sguardo. Non è lacrimoso, né vorrebbe buttarsi nelle lacrime. Vede vene pulsare nei suoi occhi e teme di aver fatto male. Ricorda come l’ha abbracciato durante il viaggio, di come volava via dal vagone per vedere la sua città, di come tristemente abbia accettato di non rivederla più di pochi minuti. Avrebbe contratto la tristezza lui stesso, se ne rende conto. Affatto arrabbiato, incontra coi suoi occhi il suo sguardo.

“Lituania… non posso” sente caricare le ultime due parole, come se pesassero quanto mattoni e mattoni di case e castelli. Anche se un ragazzino, anche se lo conosce e lo abbia sempre trattato più di un fratello, anche se comprende, sente la tristezza. E lo sconforto. Non è tradimento, ma è qualcosa di simile quello che sente e che il cuore con fatica accetta. Le sopracciglia cadenti, le spalle spaccate, i denti scoperti per il dolore, Lituania sussulta. Lettonia pare far lo stesso, che deglutisce ed ingoia la promessa e il giuramento di aiutarlo e di stargli affianco. Ma Lituania è comprensivo, anche se rattristato.

“Perché?” la voce di Lituania pare disperata e non sua. Deglutisce ancora, il ragazzino. Ancora niente lacrime. Lettonia le contiene ed è bravo a tenerle ferme, senza nemmeno sporcare le ciglia. Affranto, fa un grande respiro e pare che la gola si liberi, si senta molto più leggera. Lettonia ricorda il sangue sui muri e i dipinti della casa di Russia. Gli occhi sbarrati, increduli e morti di Ucraina. La pozza di sangue. La disperazione di Russia e come scuoteva quel corpo insensibile ai suoi lamenti. Lettonia non tradirebbe mai Lituania, ma il senso di colpa è troppo forte. Ucraina ora è affianco a lui. Lituania l’ha a malapena riconosciuta. La donna affianco a lui gli dà più angoscia che liberazione.

“E’ per Ucraina, Lituania. Ti giuro che è solo per lei” non ha paura, Lituania legge chiaramente nel suo sguardo. Lettonia è sempre stato un libro aperto, uno specchio senza alcuna macchia per confondere o imbrogliare. Lettonia è sempre sincero. Lettonia si era svegliato l’altra notte chiamando e chiedendo perdono alla donna che pensava di aver quasi ucciso. Lituania accetta, Lituania comprende. Ucraina è ancora stanca, la benda cucita malamente e gocce di sangue grandi quanto dei pollici. Lituania comprende e non è più tradito.

Il treno comincia a camminare, a prendere la rincorsa verso casa sua, verso la Lituania. Lettonia cammina, Lettonia teme di dover perdere un altro fratello. Alza e afferra la mano calda del maggiore. È calda e sudata per la fatica, la sua mano. Il moro vede le sue gambe correre e il paesaggio di Riga cambiare rapidamente in verde ed erba, carezzata da gocce di pioggia. I capelli mori volano, si liberano anche se pesanti per la pioggia. I riccioli di Lettonia paiono meno biondi e più spessi. Lettonia lascia Lituania. Lituania lascia Lettonia. Mani fredde, anima pesante. Il treno inizia veramente a correre. E già la mano piccina del fratellino manca. Lo strappo è stato meschino: Lettonia è già lontano. Lituania si sporge con più enfasi e disperazione. Lituania piange, Lettonia no, ha imparato e ora non è più bambino.

“Arrivederci, Lettonia! Abbia cura di te!”

“Arrivederci, Lituania!”

Lituania smette di agitargli la mano, intimorito di poter cadere. Vede la sua figura allontanarsi e farsi più piccola. Anche se piccino, anche se ancora un ragazzino, Lituania è fiero di Lettonia. Si asciuga le lacrime e ritorna da Polonia, abbandonato tra le coperte e gli improvvisati cuscini. Lituania guarda quel che resta del suo amico e la malinconia lo prende e sbatte forte il suo cuore. Troppi strappi alla carne per quei pochi minuti. Sente gli occhi inumidirsi e la gola chiudersi. Cerca di trattenersi, deve trattenersi. Lettonia non ha pianto nemmeno una volta di fronte a lui, non può dare il cattivo esempio ed esserne da meno.

 

 

 

 

 

Apre gli occhi e il buio lo avvolge, come sempre, come ha fatto fin da quel momento. Sbatte le palpebre, più e più volte, confuso, impacciato. È il buio, il buio che l’ha sempre accompagnato, soffocato, infuriato. Però è un buio assai particolare, questo qui. Non è il solito buio crudele ed insensibile. È un buio scuro, ma non lo trattiene a sé come una madre fin troppo protettiva. È un buio molto più tenue, dolce. Non è il buio che ha sempre conosciuto e questo lo interessa. È un buio singolare e colorato. Non vede nero, vede blu.

Alza il tronco e il capo. Sente lo stesso freddo sulle guance e la stessa coperta sulle gambe. La sente e la vede. Il buio, questo che gli chiede cortesemente di destarsi, è veramente speciale. Ha un blu scuro, un blu pregno di bianca luce e di verdognolo delle siepi. È buio, è notte. E vede, in qualche modo vede. È incredulo ed affascinato da questa scoperta. La coperta che gli attorciglia le gambe è chiara, più del buio. Ha una forma morbida e pelosa. Può vedere. Vuole scoprire altro.

S’alza, coi piedi sul tappeto muto, con le palme spoglie a darsi l’equilibrio, cammina. Indaga e cerca altro di nuovo. Guarda di fronte a sé. La riconosce bene: un pomello di un buio meno chiaro della coperta, ma affatto scuro come quest’altro buio attorno a sé. Alza le dita. Vede le sue dita. Le muove, le agita. Si muovono e si agitano. Le vede muoversi ed agitarsi. Un tenue calore gli scalda il cuore. È confuso, ma felice. Poggia la mano sul pomello e lo muove. La porta si sposta e si apre. Vede un buio molto più diverso, molto più ammaliante. Una notte piena di stelle e un blu quasi celeste. Zampetta per quel luogo, tasta quel che vede. Vede veramente. Sorride, davvero sorride.

Apre un’altra porta silenziosa. Vede la sala gigantesca, la più grande che abbia mai trovato. Vede un buio veramente troppo oscuro. Ma quel buio è lucido, per questo è ancora più curioso. Lo riconosce. È legno lucido, le stelle brillano su di esso, catturate nella ragnatela dell’oscurità. Coi passi muti e la mano cauta, tasta. È liscio, non è umido, ma quasi ghiacciato. Si abbassa e si poggia sullo sgabello. Il pianoforte sembra prezioso, tanto è curato, tanto è viziato nella perfezione del pulito. Prima profumava, ne è certo. L’odore si è dissolto e smarrito. Apre il legno lucido e il buio scompare. Bianco e cristallo lucido sono i tasti. Ignora i maggiori in nero, ignora qualche vecchio segno giallastro per l’età o per la sbadatezza. È un pianoforte e lui sa suonarlo.

Poggia le palme separate, le dita allargate, le ossa fuoriescono ancora e si contraggono nella carne delle mani. Respirato il profumo dissolto, poggiato gli occhi per bene sui tasti da toccare, suona. Aggrotta le sopracciglia e sbatte le palpebre. Nessun suono. Non comprendendo, eppure non arrendendosi, ritenta. Le stesse dita, le stesse note. Poggia i polpastrelli sul bianco e li sbatte con dolcezza. Le sopracciglia ancor più incrinate. Nessun suono ancora. Il piano è muto. Non comprendendo ancora, ma nemmeno volendo arrendersi, ritenta.

Le dita volano e pigiano sui tasti quasi giallognoli e sulle stelle incastrate nella ragnatela nera. La pratica l’ha lasciato, ma non abbandonato. Le dita non danzano, si scontrano e fanno capriole le falangi sulle unghie e sulle falangette. Ancora nemmeno un suono. Sospira, contrariato. Ritenta, daccapo. Ricorda la notte come malinconica ma comunque felice, allora suona un Notturno che non immaginava di saper suonare e pretende che le sue dita la ricordino. Gli sgambetti sono meno prepotenti, le unghie non s’incastrano più nei de molle e nemmeno nei si. La melodia continua, ma il pianoforte non suona. Non fa sentire la sua voce. Tiene premuti più a lungo i tasti, pigia le note alte con insistenza, fa scivolare piano l’anulare sinistro sui tasti bassi. Ma nulla. Il Notturno smette di muovere i tasti. L’ha ritentato due volte, ma non si decide a far sentire la sua voce. Rilascia i tasti e si chiede perché, se non veda, perché non senta ugualmente.

Si sente sfiorare, un tocco leggero, di mano straniera, né è certo. Con velocità e con paura si tira in piedi e per fortuna la seggiola non cade. Si volta, istintivo, verso il suo nemico. Il buio non è oscuro come ha creduto quand’è giunto fino in questa stanza. Vede la figura alta, troppo alta per lui e a malapena riconoscere il volto senza lenti di Austria e senza i suoi soliti abiti. L’ha destato il pianoforte, nel bel mezzo della notte, e si chiedeva perché diavolo Italia si fosse messo a suonare ad un’ora come questa. Solo lui e il ragazzo sanno suonare. Guarda attentamente l’iride del ragazzo. La pupilla è ferma e non traballante ed instabile. L’occhio dà fuoco a quel che vede di fronte a sé. Vede. Polonia vede.

Polonia sa che Austria non saprebbe come attaccarlo. Quasi si poggia sul pianoforte e per sbaglio pigia i tasti. Ancora nessun suono. Austria sbatte le palpebre, sussulta, come sorpreso o infastidito. Il pianoforte fa suono, ma lui non sente ugualmente. Guarda Austria prudente, come lo guardava in battaglia come suo nemico. Non ricorda il bagno nel lago che gli ha concesso, nemmeno la passeggiata nel giardino di Vienna, nemmeno la mano elegante e gentile che lo teneva stretto protettiva ed impaurita. Austria capisce che Polonia non lo riconosce e non lo ricorda, ma nemmeno lo teme. Con sguardo sospettoso, continua a fissarlo, quasi contrariato dalla sua presenza. Austria sospira, più per lo sconforto che per il sonno.

Allunga la mano, prudentemente, verso il ragazzo. Polonia è sospettoso, per questo prova ad allontanarsi, sbattendo soltanto più il fianco sul legno lucido. Guarda le dita come se fossero insetti velenosi ma dormienti. Austria fa un passo in avanti e anche il braccio lo segue. Il biondo lo osserva tra il dubbioso e l’offeso. Le dita s’impigliano nella ciocca fuggita dall’intrigo di capelli. Polonia continua a guardare, immaginando un trucco. L’indice si avvolge ai fili dorati e la ciocca comincia il viaggio. Incredulo, il ragazzo non riesce più a vedere la mano, ma sente. La sente aggrappata alla ciocca, sorvolare l’orecchio e poi cadere giù, oltre il lobo. Il dito si stacca e Polonia ricorda. Ricorda di aver sentito vertigini e il cuore sussultante. Aveva sentito dolore alle ginocchia e di essere rotolato giù, per un po’ di tempo. Ricorda di essere ritornato in piedi da solo e di come le lacrime scendevano per lo spavento e il dolore. Ricorda lo stesso tocco. Lo stesso dito e lo stesso attorcigliarsi nelle ciocche sporche.

Polonia guarda Austria e comprende. Austria guarda Polonia e si sente sollevato. Però la tristezza e la felicità si confondono in una melma inconsistente dentro di sé. L’aristocratico fa di nuovo lo stesso segnale, lo stesso indice fra le ciocche dei suoi capelli. Polonia realizza molto. Si sente sorpreso e meravigliato. Guarda Austria e vede tristezza. Vorrebbe ringraziarlo, ma senza voce non può fare nulla e comunque non comprenderebbe. Non ricorda la guerra, passata anni fa, non ricorda che Austria gli abbia fatto del male, anche se non intenzionalmente. Polonia stacca la carne dal pianoforte e s’avvia. Poggia il capo e il busto sulla veste da notte di Austria. Lo sente irrigidirsi, lo sente poi rilassarsi. Non alza braccia né s’avvicina più di così. Non lo conosce abbastanza per farlo. Austria si sente felice e triste ugualmente. Continua a tenere la mano fra le ciocche bionde, senza muoverle o agitarle. Vorrebbe piangere, ma non lo fa. È disdegnoso per lui, soprattutto se Ungheria l’ha seguito e ora sta dietro di lui. Ha sentito anche lei il pianoforte fantasma, così come l’ha sentito Italia, terrorizzato, e Prussia, loro ospite, anche se sgradito.

Italia si avvia anche lui, con timidezza e confusione. Non ha ancora realizzato, così come Ungheria si sente stupefatta ed entusiasta, così come Prussia ha compreso. Ha compreso che non è mai stato lui un problema per Ungheria, come lei gli ha urlato in faccia mesi prima. Lui non ha mai fatto nulla di sbagliato. Sa che se Polonia non fosse mai sopravvissuto lei non avrebbe mai rivalutato suo marito. E suo marito non si sarebbe mostrato molto più affettuoso con lei ed Italia. Ora anche il giovane servo ha realizzato e saltella felice, irrequieto ed elettrizzato. Prussia rimane all’entrata della sala, non riuscendo a vedere altro che rosso di battaglia e cenere di spari in quell’aria allegra. Stringe il pugno e trattiene i denti sotto le labbra bollenti.

Se Polonia non fosse stato qui, in questa casa, Ungheria sarebbe stata sua.

 

 

 

 

 

 

Il flash di una fotocamera lo prende di sorpresa. Sbatte più volte le palpebre, un misto di stupore e dolore. Bruciano e fanno sibilare le orecchie, gli occhi accecati. Si passa una mano guantata sugli occhi, ancora carboni ardenti sotto le palpebre. Bruciano ancora. Sulla sua spalla, infuriato, Toris sibila un suo tipico verso infuriato. Abbassa le spalle con fin troppa foga. Rischia di farlo cadere. Indignato, si sporge veloce e rapido sull’orecchio scoperto e bianco del polacco. Vorrebbe afferrarlo, vorrebbe tirarglielo come sempre e come farà anche in futuro. Polonia si strofina ancora gli occhi, irrequieto e dolente. È l’occasione giusta. Il rapace si sporge e il becco s’incastra perfettamente come un pezzo di puzzle fra il lobo. Basterebbe solo tirare. Giusto un po’.

“Allora, questa volta com’è uscita, peggio di quella di prima?”

“Darek, per favore!” ancora col bruciore all’iride, Polonia apre gli occhi. Con fatica gli socchiude. Vede puntini bianchi sopra la sua testa. Questi avvampano e s’impigliano nelle vene degli occhi. Chiude ancora gli occhi. Bruciano come tizzoni ardenti, le orecchie sibilanti e quasi sorde. Ma si concentra, il dolore quasi attutito del tutto, il falcone alla sua spalla impaziente e stranamente fermo e rigido. Socchiude gli occhi. Confuso e meravigliato, si guarda attorno, come un bambino sperduto.

“Signori, questo era l’ultimo scatto. Fra qualche settimana vi spedirò la migliore”

“E     dev’essere la migliore!”

“Tymek, non incominciare anche tu” la vocina di bambina, dolce e birichina, non sembra affatto contrariata come hanno dimostrato le parole. Bruciore completamente assente, apre gli occhi. Non vede più bianco. C’è il verde di un giardino aperto, il blu di un cielo estivo senza nubi, una casetta in lontananza, erba colta senza ciuffi fuori posto. Polonia tocca erba coi piedi, vera erba. Morbida e soffice sotto i suoi stivali. Si sente più leggero, più sollevato ed incantato. Non ricordava più com’era carezzevole l’erba d’estate. Ormai lo sa: è dentro la foto. Vede anche la famiglia che non conosce e che in qualche modo è collegata a lui.

“E’ incredibile…” sussurra la voce fine e malinconica di Prussia, appena notato dal ragazzo. Lo vede, di fianco a sé, poco più lontano. Il sole tocca la sua divisa scura e la fa brillare di giallo. Non c’è vento. I capelli sono calmi e semplicemente cadenti sulla sua testa. L’aquila mesta china sulla spalla rigida. Lo sguardo perso di fronte a sé, al verde più lontano e al blu impossibile da visitare. Polonia guarda anche lui con più attenzione. Una cicogna vola ben lontana e prudente da loro. Atterra sul nido scuro e si stende. Il manto bianco quasi nero per l’arroganza del sole. C’è l’infinito dei campi polacchi, senza colline né montagne. La terra piatta e fertile, il grano appena visibile lontano, nell’infinito del paradiso. Si sente piccolo, un puntino in mezzo al nulla. Si sente volare, si sente infelice. È a casa, veramente a casa. Prussia pare più nostalgico che meravigliato di questa sorpresa. Paiono tornati indietro, a quando erano vivi e questo riempie molto Polonia. Però ricorda Toris sulla sua spalla e ricorda anche il desiderio espresso ad alta voce. Ricorda la foto e la famiglia ritratta. Guarda Prussia, molto più calmo, ora girato verso di lui. Non sembra avere parole. Impugna la lancia, muove le dita su di essa come se, per una semplice sillaba in più, possa scagliarla contro quel mondo fatto di carta. Polonia ricorda anche che questa è solo illusione. O forse un ricordo lontano. Ma è anche curioso e giovane, allora lascia lì Prussia. In qualche modo si sente fuori luogo nella sua tranquillità.

C’è odore di buono dentro casa. Polonia si fa strada da sé, Toris già volato all’interno delle mura e fra gli oggetti familiari. Piano, curioso, nostalgico, lascia che i piedi guidino il suo corpo. C’è odore di qualcosa che ha già mangiato. Le narici si allargano, respira la carne tenera nell’aria e le spezie che gli pizzicano la punta del naso. L’odore non punge, carezza i polmoni. Dolce e familiare, sempre più suo, si fa ancora strada. Vede Toris prima di poggiare gli occhi sulla cucina confusa ed impiastricciata. Il falcone è immobile, gli artigli lisciano il legno della poltrona, vissuta e sudata di qualche anno. Non lo guarda, ma nemmeno lo ignora. Polonia sa che è entrato, sa che è sconosciuto a quel che sta vedendo. Il rapace rosso è fermo, gli occhi si muovono, brillano ancora di un nero d’ossidiana. Paiono due lame nella luce. Trafiggono altro, assolutamente non care al biondo. Puntano e calano le lame sulla donna.

La cucina profuma di carne e gelsomini. Polonia, timido, bambino, si avvicina. La donna canticchia ancora qualcosa che non comprende, o che forse non conosce. Ignara dello sconosciuto, serena, continua a tagliare. Polonia ingoia saliva e timidezza, le si avvicina. Come se potesse vederlo, come se potesse toccarlo, le si affianca. La guarda e arrossisce, come se non avesse mai visto una donna in vita sua. La treccia sottile potrebbe sfiorarlo, se avesse carne e spirito. Lunga, balla con la voce della bellissima. Polonia sente la fronte e il collo in fiamme, timidi come le guance. Ha gli zigomi alti, il naso piccolo e fine, gli occhi brillanti boccioli, le ciglia lunghe. Pare una cerbiatta o una sorprendente incarnazione. Polonia indietreggia di un passo, imbarazzato. Il canticchiare continua, il coltello posato e le fette di cetriolo cadono dentro un piatto fondo, bianco, senza decori. Pare sorridere solo con gli occhi. Polonia abbozza un sorriso tremule, ancora rosso, ancora col disagio sulle spalle. Si sente stupido ed innamorato.

“Dorota!” la voce affatto prepotente, ma rimbombante nella stanza, uccide il suo sorriso. Sbarra gli occhi, il rossore diventa bianco latte. Il cuore ha un sussulto, come ricevuto un pugno al petto. I piedi paralizzati al legno del pavimento. Scosso, sussulta. È entrato un uomo, che piano le si avvicina. Quella, Dorota, abbandona il piatto sulla tavola. Viene presa per i fianchi e quasi sollevata come una bambina. Lei, affatto incredula per la voce dura, né per i passi agguerriti, abbandona le braccia mingherline all’uomo. I baffi scuri paiono sollevarsi anch’essi col sorriso pacifico. Viene calata ancora e tocca col fianco la tavola. L’uomo, alto come un orso, posa le labbra su quelle piccine della bella. Polonia sente una crepa nel cuore, arrossito ancora per il turbamento e per la sua testa. Lo riconosce, vede la divisa verdognola da militare e l’aquila bianca coronata sulla spalla. È il marito, quello che nella foto era accanto a lei. Immagina che sia sposata e che abbia già avuto due parti. Si passa una mano sulla guancia, come ricevuto uno schiaffo. Il cuore batte forte, sconcertato e vergognoso. Si sente un ingenuo. Dorota si stacca e dolcemente lo spinge.

“Darek, smettila o mi arrabbio!”

“Non con me di certo!” e ride, i baffi arricciati e spettinati. I capelli scuri e rasati. Polonia sente un treno nel cuore. Batte forte come un tamburo, ancora incredulo. Si guarda i piedi, fa strisciare la punta dello stivale sul tallone dell’altro piede. Ha perso il rossore, ma non il rifiuto nemmeno pronunciato “Dov’è la piccola Klara?” chiede lui, Darek, che cerca con gli occhi un fagotto rosa e una neonata rossiccia come le sue guance. Sembra una caricatura buffa ed esagerata, irrequieto, in un corpo troppo grande e troppo ingombrante. Ferma gli occhi, gli s’illuminano di luce. Polonia segue lo sguardo, proprio dove Toris ha posato i suoi artigli “Ah, eccola, la mia bambina!” Polonia si scuote e si avvia alla poltrona.

Dorota ha disteso la piccina sulla schiena, col capo cautamente poggiato sul cuscino. Klara, la neonata, ha le palpebre pesanti e spesse come la carne che ora taglia la madre Dorota. Sembra stanca e affaticata, le sopracciglia incredibilmente sottili eppure contratte, la boccuccia stretta, il visino imperfetto corrucciato e quasi arrabbiato. Le rughine sotto agli occhi, il nasino schiacciato. È tenera, anche se severa. Sonnecchia, sotto una copertina rosa e un’altra bianca. Polonia si china e le si avvicina, come ha fatto con sua madre. Affatto toccata dalla presenza dello sconosciuto, continua a respira placidamente, le palpebre ancora abbassate, le sopracciglia arruffate e bionde. Polonia sente un dolce tepore, proprio in fondo al petto. Vorrebbe sorride, ma ora fa fatica. Se si movesse, anche solo uno stropiccio degli occhi, riderebbe, ammaliato.

“Già, ha solo due mesi e mi ha già fatto cadere le budella” sghignazza una voce roca e giovane, irosa e desiderosa di dare risa. Polonia, ancora accucciato vicino alla poltrona, ancora col tepore dolce al petto, volta il capo. I capelli tagliano l’aria attorno alla pelle. Qualcuno scende le scale, il passo veloce e spavaldo, ilare e quasi cattivo. Il polacco dimentica il calore al cuore e s’irrigidisce, quasi intimorito dell’adolescente assai più alto di lui. Ritorna in piedi, prova a guardarlo a non provare la sua solita fobia. Ci sono fin troppe persone che non conosce e che non conoscerà mai. E che non conosceranno mai lui. Si sente un peso di troppo, indesiderato in quel ricordo. Anche Toris osserva, alto sulla sua postazione. Vede i capelli talmente scuri che la luce, prendendosene gioco, gli trasforma in riflessi blu. Gli occhi inclinati come se arrabbiati, la fronte alta come quella di un re. Il falcone scuote il corpo, come se una zecca gli sia impigliato tra le piume. Il ragazzo si poggia sulla sedia e si sporge sui due sposi. È il figlio, nessun altro sarebbe tanto sfrontato “Allora, che si mangia?”

“Tymek, smettila di parlare male di tua sorella e siediti” parla Darek, ora veramente un orso, ora veramente minaccioso, con occhi diventati d’un tratto rossi. Polonia non si spaventa, in qualche modo è grato che il ragazzo non abbia parola facile. Il giovane sbuffa, alza la sedia alla sinistra del capotavola e ci cade sopra. Sbatte i gomiti sul legno lucido, la mascella ciondolante e quasi sconnessa al cranio. I riflessi blu scomparsi. Polonia si sente ancora di troppo. Poggia ancora gli occhi sulla piccola Klara, ancora dormiente, ancora corrucciata, ignorata ed ignorante delle parole del fratello maggiore. Più rincuorato, lancia uno sguardo al falcone. Toris non lo guarda. Il ragazzaccio, Tymek, getta gli occhi sopra di lui, sul padre ancora severo.

“Ho vent’anni, papà, e dico quel che voglio di quel mostriciattolo”

“Sì, ma io sono il tuo capitano in caserma e sei ancora un soldato semplice che deve ubbidire ai miei ordini, Lukasiewicz” Tymek sbuffa ancora, mormora qualcosa che Polonia non riesce a comprendere. Darek si sposta al capotavola, affianco al figlio ancora preso per aver nominato il suo grado nel suo lavoro. Il polacco comprende, anche se in parte. E’ stato soldato e ha portato l’esercito verso i tedeschi e i russi, ma non ricorda di aver mai avuto un padre e se mai l’abbia avuto non riesce ad immaginarsi nei panni del giovane “E siediti composto, questa è anche casa tua” umiliato, mormora ancora qualcosa fra sé e sé e si compone. Dorota sospira, forse abituata alla scenata, eppure sempre seccata dall’irruenza temporanea del marito.

“Ewa, dove sono i miei occhiali?” un mormorio di donna, incomprensibile. Un altro ha parlato, fuori dalla stanza, nel corridoio “Li avevo posati per fare la fotografia, ma non ricordo dove li ho poggiati” ancora un mormorio indistinto, sempre di donna, sempre indecifrabile. Senza un comando o un’attenzione particolare, i tre si voltano e gli occhi incrociano l’entrata della sala da pranzo e della cucina. Klara dorme ancora, ignara, forse un po’ più beata. Le copertine paiono respirare sul suo corpicino rossiccio, le sopracciglia distese “A-Aspetta, dove sono?” la voce più vicina, accanto alla porta, dei passi incerti e lenti. La voce femminile e provata dallo snervamento più vicina, quasi dentro la stanza.

“Wladymir Lukasiewicz, i tuoi occhiali sono sempre sul camino, al solito posto” la voce stanca, esausta più per l’incertezza dell’uomo che per la giornata passata ad occuparsi della casa. Entra qualcuno, la porta spalancata malamente. Un altro uomo, una copia molto più magra e bassa di Darek, vestito come ad un evento importante, formale e conciso, nonostante i baffi e i capelli ugualmente spettinati come quelli del fratello, anche se lunghi. I passi esitanti, gli occhi strizzati fra le palpebre, la vista annebbiata e gli spettatori calmi. Un lampo lo acceca: Darek ha lo stesso sguardo sfrontato del figlio e lancia al fratello minore, adulto ed impacciato, un ghigno divertito. Dorota, accortasi, arriccia dolcemente arrabbiata le sopracciglia. Arrivato al camino, con le mani tastanti le foto di famiglia, Wladymir sospira scoraggiato.

“Ewa, dove diavolo sono?” un boato spranga il silenzio e forse il divertimento del fratello maggiore. Polonia sobbalza, la porta sbattuta l’ha preso di sorpresa. La donna che prima ha urlato al marito quasi cieco ora appare e, con una pazienza sottile come un filo, si avvia al camino, dove il poveretto ancora tasta il vuoto sul ripiano di pietra. La donna, più anziana, con più rughe sul volto, con gli occhi stanchi e deboli, afferra il paio di lenti e li porge rudemente al marito, con iridi severe ed infuocate e la coda di cavallo rovinata. Wladymir li afferra, li indossa e il mondo pare molto meno sfocato. Pacato, sospira.

“Grazie, tesoro” Ewa, abituata e sgonfia d’ira, si volta e si siede, con molta più fatica di come gli occhi dimostrano. Sembra essere più anziana di quel che sembra. Darek ha spento il sorriso e, fiero, si siede a capotavola, volendo sovrastare il fratellino anche al di fuori della foto. Tymek, ancora scontento, mormora un saluto allo zio e alla zia. Dorota zampetta come un cagnolino nel lato della cucina e porta in tavola ciò che ha cucinato. Il pollo emana una scia di odore che s’innalza in tutta la stanza. Polonia inspira a pieni polmoni ancora una volta, la malinconia appena ritornata. La immagina una vera scia colorata di un sottile color carne invadere la stanza ed accostarsi sotto al suo naso, divertendosi a stuzzicarlo e a ricordargli di non poter più mangiare. Vede Prussia e la sua aquila, entrati dalla stessa porta in cui ora ci sono i membri della famiglia. Lo sguardo basso, mortificato. Vede subito il ragazzo e il suo falcone. Cammina e si ferma affianco a loro, senza guardare nessuno. Disgraziatamente non tocca gli occhi di nessuno, nemmeno dei frammenti di ricordi. Polonia vede le sue guance arrossate, come sfregiate, e lo sguardo abbattuto gettato sui componenti seduti. Il biondo arriccia un sopracciglio e fissa meglio Prussia. Non gli dice ancora nulla, né vuole mostrare nulla di sé. La lancia stretta ancora come se volesse spezzarla, la copertina abbandonata sulla sua spalla, dove prima c’era l’aquila. L’ha già vista volare sul camino e sbattere le ali con troppa insistenza. Gli occhi azzurri del volatile quasi accoltellano il comandante, come nel tentativo di sussurrargli qualcosa. E intanto la tavola chiacchiera.

“Ma dov’è tuo padre, Jan?” domanda Ewa, quasi offesa che il suocero sulla sedia a rotelle sia stato abbandonato fuori.

“Tranquilla, è in buone mani” Polonia guarda Prussia e sembra veramente spezzato e morto. Le palpebre scure, la pelle fin troppo bianca. Perplesso, affatto preoccupato, vorrebbe chiedergli cosa stia pensando. La porta si apre ancora. Lo stridio di un paio di ruote e del metallo irrompe, ma non agita alcun pensiero. Appare il vecchio felice e bambino che ha visto in foto, ancora col sorriso fin troppo aperto, ancora con una scintilla incredula splendente nelle iridi azzurrine. La sedia cammina facilmente, senza incappare in qualche ostacolo. I capelli grigi e corti, il naso fin troppo abbondante, ma con delle guance anch’esse tonde. I due uomini sospirano di sollievo, uno dei due per nulla titubante del compito dato al figlio.

“Ottimo lavoro, Feliks” un aggrovigliarsi di capelli biondicci entra nella stanza, spingendo l’anziano sulla sedia. Il bambino, incredibilmente forzuto, anche se bassino, pare non sentire il peso della sedia. Il bambino, con occhietti vispi, le sopracciglia calate e quasi arrabbiate, il naso e le guance lentigginosi. Il vecchio sembra la persona più felice del mondo. Gli zigomi alzati, la pelle tirata in un grande sorriso.

“Ah, bellissima sala da pranzo, ragazzi. Sono fiero di voi!” esclama, contento di vedere un ambiente che non viene mai collegato ai suoi ricordi. Wladymir, il più vicino, si alza e guida il padre al suo posto, accanto a lui. Il piccolo Feliks, corrucciato ed iroso, si siede accanto alla madre. Poggia le manine al grembo e lì sta fermo. Jan è stato scortato alla tavola, sente l’odore buono e pare leccarsi i baffi.

“Buon appetito!” tintinnio di posate e bicchieri, piatti salterini sulle teste dei membri della famiglia, un chiacchierio di voci che non vuole ascoltare. Polonia si sente malinconico e triste. Guarda e vede qualcosa di diverso. Vede i campi gialli e le spighe al vento. Vede una tavola abbandonata in un sogno bruciato nel sangue. Vede e sente i baci e l’abbraccio di Lituania su di sé, stretto alle sue costole per nulla spaccate o spezzate dalla collera di Russia. Vede troppo, sente troppo. Scuote la testa, non volendo più ricordare. Volta ancora il capo verso Prussia, sempre rigido, sempre addolorato. Vede la tavola familiare, ma vede qualcosa che Polonia non riesce a leggere.

“Stai bene?” chiede, sussurra, più impensierito di quel che sembra. Gli occhi del prussiano paiono tizzoni spenti di lanterne abbandonate. Arriccia il nasino, rende pesanti le labbra. Senza nemmeno desiderarlo, anche i suoi occhi si spengono e seguono l’esempio dell’uomo di fronte a lui. Prussia sembra più curvo, più pietoso. Non sa cosa pensi, ma non lo preoccupa troppo. Prussia è Prussia, non c’è niente da aggiungere né da impensierirsi. I Germani non sanno cosa sia il dolore dell’anima. Questo è un pensiero diventato suo centinaia di anni fa, per questo non si angoscia. Infatti, il patetico uomo alza la schiena e sbatte le palpebre.

“Sì, tutto bene” a Polonia cade l’occhio sull’aquila nera, inquietante e terribile coi suoi aguzzi occhi azzurri. Fendono l’aria e osservano con rispetto il ricordo di un pranzo in famiglia. Sembra un fantasma accucciato nel buio. Toris sembra fare lo stesso, guarda un punto indefinito del tavolo, dove il cibo viene passato, dove le patate vengono gettate da una parte all’altra dei piatti, come i pomodori e i cetrioli. Sembra tutto delizioso. Polonia deglutisce, ha l’acquolina in bocca. Sente gorgogliare nello stomaco un groppo di saliva dolce, saporita quasi quanto il pollo e il pensiero di un dolce in arrivo su quella tavola. Ha fame, dopo tanto tempo sente la fame “Secondo te perché siamo qui?” la voce di Prussia era un mormorio serio e basso, troppo basso per uno come lui. Polonia nemmeno sfiora l’idea di risponderli, troppo impegnato a passare la lingua sul palato addolcito. Nemmeno lo sente, quasi immagina di aver udito male.

“Feliks, è da tutto il giorno che fai quello sguardo. Non è divertente, smettila” rimprovera il bambino la voce della madre, adocchiando un altro sguardo irato di Feliks su di lei. Su chiunque. Tira su il naso, il piccolo Feliks, i capelli biondicci caduti sulle palpebre, le lentiggini stelle ed astri sopra ad un cielo rosato. Raggiungono persino la fronte coperta e cadono all’ingiù, sotto gli zigomi e con fatica cercano di colonizzare fino alle labbra. Ewa s’irrita, indignata dal figlio “Insomma, cos’hai?” pretende di sapere, alzando la voce. I ciuffi scompigliati, le lentiggini furibonde come il proprio padroncino. Gli occhietti incrinati.

“Voglio una sorellina” nessuno apre bocca, nessuno pare aver udito. O forse hanno già udito altre volte. Dorota e Darek sorridono divertiti, Darek più aperto e gaio. Feliks è ancora fiero del suo desiderio, espresso chiaramente anche l’altro giorno. E il giorno prima. E anche quello prima ancora. E’ quasi un mese che va avanti con questa storia e anche Wladymir, povero padre, comincia ad annoiarsi dell’espressione continuamente furioso del suo unico figlio. Unico e ugualmente pesante. Tymek sghignazza una risata e lancia una gomitata al cugino.

“Sei l’unico idiota al mondo che vorrebbe una sorellina. Ti cedo la mia: è bruttina, come piace a te”

Tymoteusz!” sbotta il padre, più irritato che rabbioso, ancora concentrato sul piatto sotto i suoi occhi. Ha anche la fame di un orso. Il ragazzo sbuffa ancora, divertito dalla reazione del padre. Il ragazzino si massaggia la spalla colpita, arrabbiato, veramente arrabbiato. Guarda il cugino come se fosse uno scarafaggio apparso pochi minuti prima sulla tavola, a banchettare con la carne fumante.

“Almeno non sarà un babbeo come te… e sarà dolce come Klara e come la zia Dorota” mormora il piccolo, ricominciando a minacciare i due genitori con gli occhi infuocati. Tymek, affatto offeso, scuote la testa, come non credendo alla stupidità del proprio cuginetto. Feliks, superbo, continua ad insistere con gli occhi, non implorando nemmeno. Come pretendendo di avere ciò che desidera. Ewa sa che il figlio la guarda, ma continua ad ignorarlo, il metodo migliore che conosce per non essere alla mercè di un secondo piccolo uomo. Il padre, aggiustatosi gli occhiali sopra al naso, lo ignora anche lui. È un metodo che conosce anche lui “E dovrà chiamarsi Magda!”

“No, se nascerà una bambina in questa casa avrà il nome di tua nonna, Tekla” corregge severamente Ewa, non sfiorando nemmeno l’idea di avere un membro in più in quella casa. Già nei primi di maggio nacque Klara e per lei questa nascita fu più che sufficiente, nonostante non fosse sua. Ma l’allegria di una persona non corrisponde spesso a quella di un’altra. Feliks, indignato, capriccioso, inizia a scalciare, come un cavallo a cui hanno marcato la pelle col fuoco.

“No, sarà Magda! Tekla è un nome da vecchia!”

“Chi è Tekla?” aggiunge l’ignorato Jan, dall’altro capo della tavola, sentito un nome a lui sconosciuto, ma che altri gliel’hanno ripetuto almeno venti volte. Ewa rotea gli occhi, prova a non arrabbiarsi e con fatica ci riesce. Jan fissa ancora la nuora, volendo una spiegazione. Wladymir, capendo la difficoltà di parlare in questo momento della moglie, decide di aiutarla.

“Era mia madre, papà. Era tua moglie” l’anziano sbatte le palpebre, non ricordando affatto. Alza gli occhi e il capo al cielo e pare pensarci veramente tanto. Dopo poco, con uno sguardo ben diverso, ma nemmeno serioso, tenta di rispondere.

“Avevo una moglie?” Wladymir, povero figlio, si arrende. Anche Darek, ora per niente ridente, annuisce fra sé e sé, affatto dimentico della malattia del padre. Il vecchio, dimenticatosi della sua domanda e perfino della risposta, continua a mangiare, credendo di essere ignorato e di non avere più nessuno vicino a lui.

“Allora?” pretende ancora una risposta il bambino, protendendosi sulla tavola, quasi come se desiderasse scavalcarla ed afferrare il padre per la testa per leggergli nella mente. La camicia per pura fortuna non sfiora il piatto pieno. Wladymir, per nulla desideroso di discutere di qualcosa del genere col figlioletto, sospira, cercando una soluzione. Non la trova. Conosce Feliks anche meglio della moglie: non si arrenderà prima di aver avuto quello che desidera. Lo squillo di un telefono ferma le posate e i piatti rimangono fermi ai loro posti. Wladymir si alza, evitando lo sguardo del figlio. Il telefono squilla ancora, sibila tra le mura. Polonia si sente teso, i telefoni, se insistenti, non portano nulla di buono. Feliks è ancora furibondo, le braccia conserte, i piedi scalcianti. La cornetta viene alzata e poggiata all’orecchio, evitando gli occhiali. Ewa ferma la mano che tagliava il pollo. Polonia man a mano si avvicina e abbandona la piccola Klara e Prussia, congelato nei suoi pensieri.

“Sì, pronto? Ah, direttore!” ora anche il bambino ferma i piedi, interessato. Polonia sente un brivido d’incertezza passare tra le sedie e sotto il tavolo. Solo Jan continua a mangiare, importandosene ben poco di quel che stia accadendo. Mormorii lunghi, senza pause, senza dare fiato alla gola. Polonia è affianco a Wladymir e si meraviglia di se stesso per averlo visto simile al fratello Darek. Lo guarda e vede tratti e zigomi che il maggiore non ha e nemmeno sono somiglianti. Wladymir è concentrato sulla telefonata e piano annuisce più volte. Polonia vede la giacca stirata e confortevole. Batte le palpebre, ancora mormorii indistinguibili e fin troppo veloci. Un pensiero veloce lo fa ragionare. Volta gli occhi e piano anche il collo. Guarda Darek, vede la divisa militare, il colore un ammasso di verdognolo, diverso da quello della sua divisa. È scomposto, disordinato ed indisciplinato, Darek. Ancora una volta si meraviglia di averli paragonati “Certamente, partirò fra pochi minuti. Arrivederci” abbassa la cornetta, sospira, affatto triste. Pare più consolato “Scusatemi, ma devo ritornare all’università” Darek ingoia il boccone, deglutisce forte, il pomo di Adamo possente.

“Torni a Varsavia?” chiede Dorota, interessata dall’inizio della telefonata. È curiosa come una bambina. Polonia la trova molto dolce. Ewa e Feliks sembrano contrariati, per motivi veramente differenti. Darek e Jan hanno ancora nei pensieri i piatti che stanno trascurando. Tymek è stranamente silenzioso ed interessato.

“Sì, qualcuno ha fatto un pasticcio con gli esami di letteratura e di polacco e…” sospiro, decisamente poco straziante. Pare quasi contento “…devo tornare a sistemare io il problema, ovviamente, essendo io stesso professore” soggiunge quest’ultimo, notando il ghigno antipatico del fratello maggiore. Darek è felice, come se avesse vinto qualcosa d’importante. Polonia inclina la testa, interessato. L’occhio cade dietro le spalle di Wladymir. Vede qualcosa che ha ignorato di questa casa. Non legge bene, i caratteri troppo minuti, l’occhio poco allenato alla lettura, ma sembra un certificato. Nero su bianco, ghirigori attorcigliati agli spigoli del foglio, formali e disturbanti per il biondo. Lingue e Letteratura Polacca, legge. È certo che sia la laurea di Wladymir. Si sente orgoglioso, senza sapere veramente il perché.

“Certo, te ne vai via anche il sabato…”

“Ewa!” esclama il marito. Polonia sobbalza ed arricchisce le sopracciglia per la sorpresa e anche per gli occhi mortificati dell’uomo. Polonia ritorna suscettibile. Ha tralasciato qualcosa leggendo la laurea orgogliosamente appesa all’uscio di casa. Non riesce a realizzare cosa sia accaduto. È difficile per lui comprendere. Non prova nemmeno a posare gli occhi su Toris o su Prussia, nemmeno sull’aquila nera. Mordicchia l’interno della guancia e poco più sotto l’interno del labbro. Il silenzio più lo disturba che lo inquieta. Ewa si scioglie dalla sua paralisi e sospira. Una vera d’irritazione spacca il suo viso fin troppo anziano per la sua età. Pulsa e si quieta facilmente, questo nervo scoperto.

“Va’, prendi il treno” risponde al silenzio, forse il vero destinatario delle sue parole. Un germoglio di curiosità cresce nel cervello di Polonia. Una reazione del genere lo interessa. I denti, liberi dalla volontà del ragazzo, escono fuori dalle labbra. Il canino mordicchia la pelle pallida, senza sapore. Inclina la testa, fa ballonzolare il proprio corpo, come un bimbo che ha appena visto qualcosa di nuovo ed interessante. Wladymir fa morire lo sguardo di sconcerto e ne fa suo uno più mortificato. Veloce, indolore, si avvicina alla guancia della moglie e le lascia un bacio, come se dicessero addio che arrivederci. Lo sguardo ancora lontano dal suo, irritato e colpito all’orgoglio. Ewa non gli dirà mai nulla.

“Tornerò prima di sera, lo prometto” lei non risponde e Wladymir non aspettava una risposta. Veloce, ora per nulla contento e sollevato, si avvia all’uscio. Polonia dietro di lui, pochi passi li separano. Polonia si è abituato ad essere un fantasma e ora guarda paziente ogni cosa che gli viene mostrata. Smesso di angosciare il labbro, vede la mano dell’uomo afferrare la maniglia ed aprirla. Polonia si scuote, non sorpreso ma perplesso: il paesaggio del paradiso, l’infinito della pianura, scomparso. Solo luce, solo bianco di carta che ricorda di aver sempre visto in questi anni. Il ricordo si sta sbriciolando. La cucina, la più lontana, sta diventando carta e perde colore. Polonia è sinceramente dispiaciuto di non poter rivedere più loro e la loro famiglia, ormai diventata importante per lui.

“Papà, allora me la darai una sorellina?” Wladymir, paziente, ancora pallido per il perdono non concesso della moglie, si volta al figlio e sospira.

“Ne parleremo un altro giorno, Feliks” non dice altro, la luce lo investe e lo divora, rendendolo bianco e cartaceo. Invisibile e scomparso. Polonia lo aveva visto investito di luce e sorpassare la porta. Il legno sbarrato, perso anch’esso il colore, mangiato anche il pavimento della luce. Si volta indietro e anche il resto è quasi del tutto scomparso. I famigliari, i restanti sono già spariti. Polonia vede il legno sotto ai suoi piedi perdere il colore, linea e sottigliezza. Lo spavento, l’imprevisto lo coglie. Un tuffo al cuore. Un terrore viscido lo paralizza. Gli occhi sbarrati. Questo non era mai accaduto. Tutto è bianco, tutto è tornato come prima. Ma non sente più nulla sotto ai piedi. Non c’è più carta. Il vuoto e la luce lo avvolgono. Vorrebbe urlare, liberare i denti, ma non ci riesce. Non fa in tempo. Non vede aiuti. Non vede Prussia, né Toris. È solo e le vertigini della caduta fanno spalancare la bocca, senza far uscire nemmeno un suono di terrore.

E cade. Cade come inghiottito. Cade come albero abbattuto. Cade come corpo morto e non vede altro ora che oscurità serpentina. Lo avvolge come coperta. Come abbraccio. Come acqua che lo soffoca e gli impedisce di emergere.

 

 

 

 

 

 

Tymek a quattordici anni decise di diventare soldato e di servire il paese. A quindici anni lo ha comunicato a suo padre, a servizio del paese lui stesso. Non gli piaceva la scuola e trovare già lavoro non gli andava. Ma gli piace la guerra, il sangue e la divisa di suo padre quando, tornato dalla caserma, gli si gettava con le braccia propense per salutare il suo bambino. Non ha mai visto la guerra, né conosce l’odore del sangue su di una divisa con lo stemma dell’aquila bianca. Darek già lo sapeva all’epoca e aveva rifiutato. A quindici anni e mezzo Tymek divenne indisciplinato, distruttivo, irrequieto. Anche sua moglie, la dolce Dorota, stava per disperarsi lei stesso. Per preoccupazione e vendetta, Darek accettò. Tymek a sedici anni entrò in caserma per diventare soldato. Darek era sergente maggiore all’epoca e operava tra le nuove reclute più giovani. Darek già lo sapeva che avrebbe dovuto formarlo lui stesso, Tymek no, ma l’idea non lo spaventava, giovane e testardo.

Il primo giorno suo padre, il suo superiore, gli diede un pugno nello stomaco. Il terzo giorno gli fece fare venti flessioni per un esercizio sbagliato. Il settimo giorno lo fece correre tre volte intorno alla caserma. Lui solo. Darek già si voleva vendicare ed avere ragione su di un figlio ribelle. Voleva mostrargli i veri doveri e compiti di un soldato. Tymek non comprese nulla e non rifiutò la scommessa fatta con suo padre. A diciassette anni Tymek cambiò squadra e Darek non fu più il suo sergente ed istruttore. Darek si preoccupava già, il figlio continuava a provare l’ebbrezza di qualcosa che non esisteva. A diciotto anni superò il secondo anno di caserma e divenne soldato semplice. Tymek era emozionato, Darek nervoso. Tymek non voleva andarsene, pensando alle dormite sul banco della scuola e alle corse per fuggire dal maestro che lo desiderava in classe, mentre lui si desiderava al fiume a pescare pesciolini.

A diciannove anni Tymek aveva abbandonato l’idea di una nuova lezione del padre e di ritornare fra i banchi e gli scolari. A vent’anni Tymek riuscì a creare un nuovo sé stesso, diverso e disciplinato rispetto al suo precedente e reale. In caserma era Lukasiewisz, a casa era Tymek. Ora ha quasi ventun’anni e la Germania obbliga il suo paese a combattere per difendersi. Non lo desiderava e non lo voleva inizialmente Tymek, quasi spaventato. Ma è giovane e i giovani vogliono l’ebbrezza di vivere. Di sentire e vedere qualcosa di nuovo. Di vivere ed essere eroi. Sarebbe tornato a casa a guerra conclusa e vinta. Sarebbe stato un modello e avrebbero scritto il suo nome, di un soldato giovane e in canna che è riuscito a sopravvivere e a far temere la sua presenza di fronte ai tedeschi. Tymek vorrebbe avere un prestigio del genere ed è emozionato dall’idea di diventare eroe della nazione. Non ha ancora visto il sangue e nemmeno una trincea, ma vorrebbe essere fra il fango e i cadaveri, proprio ora.

Bydgoszcz, la città dove lui e i suoi compagni di squadra sono stati inviati, è piccola e pacifica, ignorante ancora della guerra, alle porte della regione. Bydgoszcz dev’essere evasa completamente o ci sarà un bagno di sangue. Tymek non si lamenta, è un soldato e un soldato ubbidisce agli ordini. Un soldato non ha pensiero se non quello del suo superiore. Avanza tra le stradine, ordinato, obbediente, ligio. Ora c’è Lukasiewisz, il soldato che ora è chiamato per ricevere ordini dal suo capitano. Anche il suo capitano si chiama Lukasiewisz, il suo capitano un tempo è stato il suo sergente ed istruttore.

Le case hanno muri bianchi di mattone. Le strade strette. I cittadini dentro le case, come in un piccolo paese. In un piccolo paese a quest’ora non ci dovrebbe essere anima viva. I civili sono tutti dentro le quattro mura delle loro casette. Qualcuno è sveglio, qualcuno gira gli angoli del vicinato, incuriosito dai soldati e dai loro chiacchierii sommessi. Qualche donna, non ancora troppo vecchia per ricordare la vecchia guerra, osserva dalle porte aperte, sedute alle sedie del piccolo tavolo, insufficiente per lei, per suo marito e per i suoi numerosi figli. Ci sono troppi bambini in città come queste. Qualche uomo non dorme ancora e ha deciso di afferrare anch’egli una sedia e di osservare le uniformi e le armi strette alle mani. Anche Lukasiewisz ora ha il suo fucile e per l’eccitazione si sta dimenticando perfino il nome datogli in caserma.

Le tende del momentaneo accampamento sono poggiate su lunghe stecche di legno, come in un campeggio per giganti. Altri soldati, più soldati. Riconosce alcuni della sua squadra che sono cresciuti con lui. Non li saluta. Un soldato, quando ha un ordine, non può salutare. Terza tenda a destra, gli ha detto il suo caposquadra. Con la schiena dritta e lo sguardo affatto entusiasta, Lukasiewisz entra, la tenda già spalancata. Riconosce suo padre, sulla scrivania prestata alla biblioteca di Bydgoszcz e la sedia, prestata anch’essa a qualche casa. C’è il capitano Lukasiewicz, il soldato semplice Lukasiewisz e un altro soldato che a Tymek pare di aver già visto nella sua vecchia squadra, qualche anno fa. Ha di sicuro la sua età. La tenda è aperta in avanti e dietro le sue spalle. Dietro alla scrivania, col capitano chino e piegato, vede pezzi di buio e di foresta.

“Signore, soldato semplice Lukasiewisz a rapporto, signore!” esclama, come gli hanno sempre insegnato fin dai primi giorni in caserma, quand’era ragazzino e pensava solo a non andare a scuola. La schiena di ferro, le braccia lunghe ai lati del corpo, lo sguardo fisso, il fucile, scarico, dietro la schiena. È perfetto, suo figlio Tymek, dannatamente perfetto.

“Bene, che resti solo il soldato Lukasiewisz” dice, col tono grave, affatto tipico dell’uomo, nemmeno quando era istruttore di suo figlio. Nemmeno quando era insoddisfatto di sé stesso. Il soldato esclama il saluto e, col passo né lento né veloce, lascia la tenda. Rimane spalancata, eppure pare che un’oscurità sia calata su di loro. Buio alle spalle, sulla scrivania e sulle mani rigide di Darek. Il soldato, giovane quanto Tymek, li lascia e cala il freddo. Tymek vede dietro le spalle del padre, con lo sguardo fisso di fronte a sé. Le lucciole fuori, nella foresta, paiono stelle e le foglie degli alberi pezzi di cielo scuro.

“Riposo, soldato, questa volta voglio mio figlio” Tymek ricorda il suo primo anno di servizio, quando suo padre era suo superiore e lo insultava come si insulta una bestia o un russo. Conosce questa formula e sa che il padre l’ha chiamato per parlare con Tymek e non con il soldato semplice Lukasiewisz. Ora Tymek è sciolto, scomposto, interessato dall’aria fredda di questa tenda. Non sente però la tensione e il cuore angosciato di Darek. Ignorante di tutto ciò, scioglie le spalle, il fucile cadente sulle sue costole. I soldati pullulano come insetti dietro di lui.

“Dimmi, papà” mormora, non urla. È Tymek e Tymek con fatica accetta di urlare o di essergli urlato contro. Darek lo sa meglio del suo stesso figlio e questa considerazione lo fa penare ancor di più. Si sente soffocare, respira a fatica, come se la tenda quasi del tutto chiusa abbia sbarrato anche l’aria. Si alza dalla scrivania e cammina lento, pesante, cauto, come se non volesse svegliare un mostro sotto ai suoi piedi. Con fatica mantiene l’agitazione. Intanto boccheggia come uno che sta per finire l’aria e non vuole morire. Tymek, diventato irrequieto ed impaziente, decide di aprire bocca “Papà, che sta succedendo?” i passi si fermano. Darek, con le spalle al figlio e con lo sguardo alla notte, sospira.

“E’ accaduta una sparatoria in questa cittadina” il turbamento di Tymek si congela, ma non si scrolla via dai piedi. Questi si muovono, imbizzarriti “E’ accaduto nelle strade periferiche ad ovest e a nord-ovest. Qualche civile è ferito, qualcuno è morto” dice, con voce dura, ma col corpo in ansia. Darek è in caserma da più di vent’anni e da vent’anni ha imparato a tenere la voce ferma e il corpo rigido. E ora si chiede perché gli tremino così tanto le mani da doversele stropicciare nei guanti. Tymek non vede ancora nulla. Un misto di emozione e disgusto lo pugnalano alla bocca dello stomaco. L’odio verso lo schieramento nemico lo avvolge e gli fa comprendere ogni cosa, nonostante la confusione. Si chiede come sia stato possibile una cosa del genere con loro, soldati, nella cittadina.

“Cosa? Com’è successo?” chiede, frettoloso, impaziente come sempre. Darek sospira ancora, la gola inizia ad inclinarsi e ad appesantirsi.

“Sono stati i tedeschi, Tymek…”

“Certo che sono stati loro!” esclama, senza esagerare, l’indignato ragazzo. Immagina delle uniformi tedesche, senza volto, saltellanti come marionette legate a dei fili. Le immagina dietro i muri della città, coi fucili e le granate nella cintura. Nello stomaco bolle ira e voglia di vendetta “Dove credi che si siano nascosti? Li cacceremo a calci in culo, come abbiamo fatto sempre. Papà, quante squadre di ricerca faremo? Devono essere ancora qui…”

“Zitto!” si volta, si spalanca di fronte a sé la faccia iraconda del padre, che di solito la ricorda spensierata e scherzosa. Suda, tentenna. Tymek si placa e ritorna ad essere soldato. Ricaccia il desiderio di essere eroe e di ammazzare tedeschi. Il fucile ancora immobile alle sue spalle. L’occhio confuso ed inquieto contro il rabbioso e il tremante di Darek. Suo padre ha qualcosa che non va, qualcosa che ancora non comprende. Avuto ciò che ha urlato, Darek ritorna dritto e fermo. Il sudore scorre ancora sulle sue tempie, le rende umide ed appiccicose. Non fa caldo, non fa affatto caldo nel buio della tenda “Non hai capito nulla”

“Cosa devo capire?” ritorna l’arroganza, gorgoglia ancora come un calderone di una strega. L’impazienza del figlio lo fa arrabbiare, oltre che terrorizzare. Non avrebbe mai voluto che suo figlio diventasse soldato. Darek non è mai stato in guerra, ma immagina molto e sa che essere nell’esercito decreta anche una tua possibile morte. Darek non avrebbe mai voluto vedere suo figlio nelle vesti di soldato semplice, a diciotto anni. Un ragazzo non deve vedere ciò che ha visto lui in quelle settimane. Darek ha visto la morte, Darek ha parlato con un suo collega e, voltato, ha visto il suo naso esplodere e il cranio aprirsi di rosso come quello di una bambola di porcellana. Il sangue del suo collega è stato sputato su di lui e con fatica era riuscito a toglierselo dalla faccia e dai capelli. Sospira ancora, meno certo di quel che era e dimostrava coi cadetti e i suoi subalterni.

“Sono stati i civili, Tymoteusz. Sono stati loro” le guance di Tymek si sono riempite d’aria e di aria pesante di quella tenda soffocante. Le guance si sono svuotate come quelle di un rospo e hanno sputato una risata debole e disgraziata. La battuta non lo fa ridere, suo padre non fa ridere e nemmeno ora ha fatto ridere. Ma ride ugualmente, pronto a prendersi gioco di Darek anche durante una guerra, anche mentre suda e trema come un cane che sta per essere bastonato a morte.

“Sì, come no, papà, e io sono tedesco e mi chiamo Fritz” e continua a ridere, divertito dalla faccia paonazza del padre, non solo per essere stato offeso dal suo ragazzo “Raccontamene un’altra e poi ne riparliamo”

“Sono serio, Tymoteusz” la gola arrossata per le risa si placano, ma il sorriso rimane. Con l’anima divertita, Tymek guarda suo padre, divertito ancora come un bambino, sentita una battuta volgare e simpatica. Gli occhi scuri del padre sembrano inghiottirlo, le sopracciglia ammassate sulle ciglia come nel volerle spezzare. I baffi sono lisci, adatti ad un severo capitano. Tymek guarda negli occhi Darek e il sorriso muore. Sente la tenda ghiacciata, così come l’ha sentita fino ad ora suo padre. Ha freddo, un soffio gelato l’ha toccato proprio ai piedi della spina dorsale. Si sente come in pericolo, sbattuto tra due fucili nemici.

“M-Ma tu ci credi veramente?” Darek, suo padre, non lo guarda negli occhi, fisso lo sguardo dietro di lui, come un vero militare. Tymek inizia a sudare, a far battere colpi infami al suo cuore e alla sua schiena “E’ tutto falso, papà! Perché dei polacchi dovrebbero ammazzare altri polacchi?” suo padre non lo guarda, eppure sente le giunture della sua divisa scricchiolare come pezzi di noci fra delle dita forzute. È nervoso ancora, Darek, e solo ora suo figlio se ne rende conto. Solo ora che anche lui fatica a respirare.

“No, Tymoteusz, dei civili hanno trucidato dei bambini” afferma con un occhio più stanco dell’altro, con un piedi più irrequieto del destro, fermo e posato. La voce sembrava indecisa, non pareva nemmeno la sua. L’ha sorpassato, come se dovesse impartirgli nuovi ordini. Tymek si volta, un garbuglio di sangue bollente gli riscalda i polmoni e lo fa urlare. Si volta, non essendo il soldato semplice Lukasiewisz.

“E perché dovrebbero farlo?”

“Perché hanno sangue tedesco in corpo, figliolo!” Tymek apre la bocca, ma gli si blocca la voce nella trachea. Rimane con i denti spalancati e le labbra schiuse. Avrebbe voluto ribattere e dire qualcosa, ma quel che ha detto suo padre lo ha paralizzato. Riflette e un barlume di comprensione ed orrore mortifica la sua spina dorsale. Ha freddo, d’un tratto sente freddo nelle sue ossa. Non trema, ma in sé Tymek trema. Guarda negli occhi il padre e non viene ricambiato. I baffi scuri più sciupati, la fronte veramente fradicia, la divisa informale, i capelli rasati e corti. Inizia di nuovo a camminare, avanti ed indietro, come per mantenere la calma. Ha qualcosa di spaventosamente umano Darek, ora Tymek se ne accorge.

“N-Non c’è altra soluzione” balbetta, Darek, e mai ha balbettato con suo figlio. Nemmeno con uno sconosciuto, nemmeno con Dorota. Darek non balbetta mai e non ha mai avuto quello sguardo amareggiato e drammatico che ha ora. Suo padre non ha mai avuto uno sguardo afflitto e nemmeno una schiena così curva. Un lieve tremore e una goccia di sudore imperlano la tempia del ragazzo. La gola secca, la lingua carta stagnata.

“C-Che vorresti fare?” nemmeno lui balbetta mai, ma la gola è secca e l’aria in quella tenda aperta è disgraziatamente pesante. È terrorizzato da una risposta del padre, che tarda, che non arriva mai. Un barlume, un scintillio nella notte fa scattare i suoi piedi e il suo collo. Il scintillio del ferro di un fucile simile al suo lo attira. Un soldato della sua squadra, che riconosce a fatica nel buio, lo attira. E un altro che non conosce. Ed un paio ancora che gli pare di averli già visti. Guarda la luce che lo ha attratto. Rimane sbigottito e perplesso. I fucili sono carichi, una cartuccia carica premuta al di sotto del ferro freddo. Tymek osserva ancora e lentamente sbarra gli occhi. Ricorda le parole del padre e una rivelazione lo colpisce. Nasce qualcos’altro di più caldo e soffocante dentro di lui. Fa uscire fuori i denti, come un’animale rabbioso “Ma sei impazzito?! Vuoi fare un massacro di cittadini polacchi?!”

“Sono tedeschi, Tymek”

“Ti sei fottuto il cervello!” ha alzato troppo la voce, irosa, indignata. Quelli stessi soldati che ha visto coi fucili carichi si voltano impacciati e curiosi. I loro sguardi, muti e coperti dal manto nero della notte, li osservano, sentita l’esclamazione indignitosa per un capitano di tutto rispetto come Darek Lukasiewisz “Ma allora non siamo qui per la ritirata! Tu vuoi ammazzarli tutti!” qualche altro sguardo giovane si volta, chi in piedi, chi seduto. Quasi nessuno sa il cognome del soldato semplice, né che sia il figlio del capitano Lukasiewisz. Per questo rimangono ammutoliti, impietriti dall’angoscia dello stesso capitano, di fronte ad un soldato che l’ha offeso e non l’ha rispettato.

“Perché la nazione è spacciata, Tymek!” silenzio. Nemmeno fuori dalla tenda nessuno fiata. Con sguardi più grigi, più sottomessi ed ubbidienti, i soldati tornano a camminare, a svolgere quel che avrebbero dovuto fare minuti fa. Nessuno parla più, nessuno chiacchiera più. Darek ha urlato tanto da farsi sentire per tutto il perimetro di tende e ufficiali. Guarda suo figlio e crede di aver sbagliato tutto. Non avrebbe dovuto fare soldato dell’esercito un ribelle come lui. Questo, con la rabbia che scorre nelle vene giovani e cariche, lo guarda accigliato e deluso. Anche Darek è deluso di sé stesso, per questo rimane muto, aspettando la risposta dal ragazzo. La mano di Tymek afferra la bretella spessa agganciata al suo fucile. Lo tasta coi polpastrelli, come nel riflettere e intanto continua ad osservarlo. Abbassa di nuovo la mano, riflettuto a sufficienza.

“Mi rifiuto” Darek in parte se l’aspettava, ma è ugualmente indignato del proprio ragazzo. Lo sguardo angosciato si spacca e ridiventa duro, com’è sempre stato fin da quando era suo sergente maggiore. Occhi negli occhi, nessuno dei due rinuncia ad abbassare lo sguardo. Occhi negli occhi, padre come figlio, figlio come padre. Entrambi ragionevoli, entrambi testardi.

“Fai silenzio ed ubbidisci, idiota!”

“Nossignore, mi rifiuto!”

“Allora vattene!” un pezzetto d’ira di Tymek si eclissa, svanisce e diventa ghiaccio e freddo. Guarda ancora negli occhi il padre, come si guarda ora il proprio istruttore nel ricevere un ordine assurdo “Sarai nel corpo della ritirata, te ne ritorni a Varsavia insieme alla tua squadra” la voce era rigida, ma il corpo più sciolto. Come liberato di un peso, come avendo fatto una decisione difficile. Guarda gli occhi sbarrati e sdegnati del figlio e sa che non accetterà mai un ordine del genere. Nemmeno al costo di morire. Tymek è testardo e farebbe di tutto per avere l’onore che ora ha lui. Le spalle, le spalle di Darek si sciolgono, colpite e spezzate. Ha pensato ad una decisione orribile che suo figlio potrebbe prendere. Tymek non è ancora uomo e continua a vendicarsi come un bambino. In un attimo, si pente di aver pronunciato tali parole. I piedi di suo figlio si voltano verso l’altro lato della tenda, verso la foresta e l’oscurità.

“No, me ne vado. Ve lo faccio vedere io dove sono i tedeschi che dobbiamo ammazzare” e continua a camminare, come se dovesse andare proprio ora in trincea. Come se dovesse andare proprio ora a morire. Darek è un padre e un padre vorrebbe spirare prima di suo figlio. Si pente veramente tanto di aver aperto bocca e di aver parlato a Tymek come ad un soldato indisciplinato. Non andrà a Varsavia, anche solo per vendetta lui non tornerà a casa. Ritorna nel buio della tenda, ancora più coperto e pesante di quel che si aspettasse. Sente il fiato spezzargli non appena afferra la spalla del suo ragazzo. Pensa che ha solo vent’anni e a vent’anni si vive ancora. A vent’anni, in un addestramento fuori città, ha incontrato sua moglie, Dorota, un po’ più piccola di lui. A venticinque si sono parlati per la prima volta. A ventisei l’ha vista nella chiesetta vicino alla sua caserma fasciata di bianco. Darek non può permettere che suo figlio non viva tutto questo.

“Tymek! Tymoteusz!” solo ora gli occhi del ragazzo si sono voltati sui suoi, terrorizzati e pentiti “Promettimi almeno… promettimi che torni a casa” nemmeno una scia di luce bagna l’occhio curvo del figlio. Ora ha vero terrore “Tymoteusz, sei un uomo ora, puoi capire” tenta di non soffocare nel suo terrore, non ci riesce. Respira con affanno, gli occhi piegati in scongiura, ma ugualmente severi “Promettimi che se succede qualcosa, qualunque cosa… proteggi tua madre e tua sorella” non si scompone, né cambia la curva dell’occhio di suo figlio. Non vede Tymek, il suo ragazzo, non vede nemmeno il soldato semplice Lukasiewisz che rifiuta un ordine. Un soldato semplice, anche se negando e non accettando un comando, non si butta a cercare tedeschi nell’oscurità delle foreste.

“Siamo ritornati un vita dopo più di duecento anni e la Germania non può farci cadere a terra dopo nemmeno venti anni di respiro” la spalla viene strattonata in avanti, la mano di Darek saltata. Incredulo, terrorizzato, Darek vede suo figlio scappare di fronte a sé, nei campi secchi di grano, verso la nera foresta che nemmeno ora ricorda il nome. Vorrebbe corrergli dietro, ma anche se lo acciufferebbe e lo rimetterebbe al suo posto, Tymek non ritornerebbe più a Varsavia. Non ritornerebbe più da sua madre, né dalla sua neonata sorellina. Darek pensa a Dorota e a Klara e non può credere a quel che stia succedendo. Urla il nome del figlio, gli urla di tornare indietro e di non fare pazzie. Quello non lo ascolta, già entrato nel buio fra gli alberi.

Il caricatore pieno fra le dita, il fucile nell’altra mano, la bretella tagliata dell’arma. Carica il suo fucile, fa schioccare il caricatore all’interno del metallo. Una cascata di adrenalina e forza corre nei polpacci ed elettrizza le dita intrecciate nel suo fucile. È la sua occasione, quella che ha aspettato per quasi cinque anni di caserma. Affatto silenzioso, affatto cauto, salta le radici degli alberi e continua a cercare. È certo che sia tutto falso, che nessun polacco potrebbe mai uccidere un polacco. Non potrebbe mai essere vero. Suo padre è stato ingannato, così come altri soldati e capitani dell’esercito.

Un cespuglio appuntito non lo afferra per un pelo, nemmeno riesce a graffiare la divisa nuova. Il metallo fra le sue dita sembra incandescente, il grilletto pare gridargli di toccarlo, di premerlo, di sparare. Non ha ancora sparato a nessuno, nemmeno ad un tedesco. Il pensiero di uccidere un uomo è forte. Lo elettrizza, lo eccita, lo bagna di sconforto. Ma pensa alla guerra che hanno dichiarato a loro, ai soldati polacchi che hanno ucciso. Allora il pensiero di peccato, di impurità lo abbandona. Dio lo perdonerà perché ha voluto difendere la patria, perché sarà l’eroe della sua nazione. Sarà ricordato come un combattente e chiunque si ricorderà di lui, di Tymek Lukasiewisz, colui che ha fermato il genocidio di Bydgoszcz e ha portato il responsabile di una possibile strage alla corte marziale.

Alt!” una fucilata, un tuono sembra abbattersi sul cuore giovane di Tymek. Ferma la corsa, l’adrenalina nei polpacci si sgonfia e si annulla. Le dita elettrizzate si paralizzano. Il grilletto muto, il fucile incandescente fra le dita del ragazzo. Rimane immobile lì, nel buio, con gli occhi sbarrati. Il cuore ricomincia ad urlargli nel petto. La foresta si muove, i cespugli e le ombre si avviano a pochi passi da lui. Con freddezza e calma, le figure lo circondano. Sente il sudore sulla fronte diventare ghiaccio e il battito bombardargli gola. A malapena riesce a contarli. A malapena comprende che quelle divise non siano affatto simili a quelle polacche. Le armi che non riconosce puntate su di lui. Tutti e quattro fermi come lupi che puntano alla preda, meno uno, col cuore in gola, che sussulta appena gli si avvicina. Alza le braccia, istintivo. Non vuole che gli sparino.

Non sa il tedesco, a scuola non l’ha mai voluto imparare, nemmeno conosce i saluti. Non sa bene cosa gli stia urlando la voce dietro di sé. Sa solo che il suo cuore sta per scoppiargli in gola, che è incredulo di essere stato già preso dal nemico, che non voleva essere catturato per una stupidità del genere. Alla sua destra, un’ombra con la canna puntata su di sé gli fa un segno. Getta l’arma, capisce. Tentenna, non sa bene cosa fare. Guarda per un attimo il suo fucile, che ora scoppietta d’incredulità. Davvero non può credere che tutto questo gli stia succedendo. Anche le sue mani tremano, anche il suo corpo è rigido come quello delle ombre. Il suo fucile viene gettato a terra, sotto le radici di un alto albero. Ritorna con le mani alzate, le ossa sussultanti.

Urla ancora, quell’ombra dietro di lui. Non capisce ancora, rigido, intrappolata l’anima nella cassa toracica. Come in una gabbia, questa si quieta e resta a tremare fra le sbarre, non aspettandosi nemmeno lei di essere finita in quello stato. Ancora alla sua destra, affianco a lui, quell’ombra gli fa un altro segnale. Voltati lentamente, capisce. E lentamente si volta. L’istinto, molto più potente degli anni di addestramento avuti in caserma urla di dolore: non potrà più avere il suo fucile. Non potrà più difendersi. Sono come immaginava, i tedeschi: senza volto, senza un’espressione. Alla sua destra, poco lontano da lui, solo uno di quelle ombre trema. L’occhio di Tymek, desideroso di non pensare a tutto questo, si blocca su di lui. Vede gli occhi azzurrini, piegati come in una supplica. Le mani di questo soldato tedesco sembrano tremare e non smettere mai. È terrorizzato. Tymek lo osserva meglio e vedere qualcuno molto più impacciato di lui lo conforta. Il buio non maschera le guance tonde, gli zigomi morbidi, le sopracciglia cadute, il mento sbarbato. È molto più giovane di lui. Tymek è sorpreso di vedere un ragazzino lì, fra questi soldati. E ha l’aria di uno che farebbe qualsiasi cosa meno che stare qui, in questa foresta tetra, lontano da casa sua.

L’occhio del ragazzo, veloce, nota qualcosa. Vede l’arma del giovane soldato tedesco, l’osserva con più tenacia. Ha un fucile quasi più ridicolo del suo, con più legno che ferro. Un filo di speranza e sorpresa accende di luce il cuore di Tymek: il caricatore è assente, forse scarico e poi buttato via. L’occhio scatta veloce verso le altre ombre. Stessi fucili, stesse cariche assenti. Gli puntano delle armi scariche. Lo stanno facendo stare fermo solo con la paura. Non potrebbero mai sparargli. I muscoli rigidi si sciolgono, vicino a lui il ragazzo tedesco deglutisce sonoramente. Tymek l’ha notato solo per un attimo: lo osservano, cercano di capire chi sia e perché si trovi qui, in mezzo alla foresta di notte. Non hanno idea di chi sia. Tymek comprende tanto e la superbia ritorna a bruciare nelle sue vene. Una delle ombre, strisciando accanto a lui, osserva meglio la sua uniforme e sussulta: l’aquila bianca svetta sulla spalla, orgogliosa e luminosa “Polnisch!” Tymek scatta, i muscoli accesi di un fuoco indomabile e scappa.

I soldati non iniziano ancora ad inseguirlo, ma lo faranno a breve, lo immagina già. Immagina che non abbia percorso gran parte della foresta, quindi potrebbe farsi inseguire fino all’accampamento di tende a Bydgoszcz e ad avere dei fucili e uomini per catturare questi tedeschi. E magari spararne qualcuno. Tutti meno che il più giovane, però. Non crede di potergli fare del male. Non crede che abbia deciso lui di finire in questo posto, lontano dai suoi genitori e dai suoi fratelli. Ma gli altri moriranno. Se non qui, almeno nella prigione di Varsavia e lì resteranno fino alla morte. Perché loro, polacchi, vinceranno contro questo invasore e lo riporteranno a casa a colpi di fucile.

Più veloce, ancora più veloce dell’entrata in quella gabbia scura, Tymek salta e schiva rocce ed alberi. Ce la farà, vorrà vedere la faccia incredula di suo padre quando vedrà quanto abbia avuto ragione. Vorrà vedere le facce dei suoi compagni e degli ufficiali non appena vedranno il soldato semplice Lukasiewisz inseguito da tedeschi. Dagli stessi che hanno fatto credere della sparatoria di Bydgoszcz. Vedrà le loro facce. Oh, saranno furibondi per la disubbidienza agli ordini, ma poi sarà perdonato. Ha comunque salvato la città, il soldato semplice Lukasiewisz. Sarà perdonato per l’eroica impresa compiuta.

La foresta si sbriciola di fronte ai suoi occhi. Il campo di grano secco e raggrinzito lo accoglie. Al di là del campo grigio, le tende dell’accampamento. Tymek già sente le grida di orgoglio della sua squadra e lo sguardo fiero del suo caposquadra. Quanto sarà applaudito!

Sente prima il colpo dietro la schiena, allo stomaco. Sente metallo scavare nella carne e bucarlo. Tymek ritorna alla realtà, Tymek sente una scarica di dolore nella sua carne. Sente fluire liquido appiccicoso e tiepido sul fianco e sulla divisa nuova. Non immagina il suo volto, ma spalanca gli occhi. L’impatto era forte, catastrofico. L’ha spezzato. Si sente spezzato. Ora il dolore. Quel punto brucia. Sente la sacca che è il suo stomaco lamentarsi e gorgogliare. Tymek non ricorda cos’abbia mangiato, ma ora pare risalire lungo la gola. Non sente più nemmeno il rancio che ha mangiato quella sera e nemmeno il sapore disgustoso della gavetta della mattina. Sente liquido, sente ferro, sente i denti impiastricciati di sangue e non di saliva. Non ha più saliva. Le guance piene, ha trattenuto fino ad ora il disgusto che gli è salito fino ed oltre la gola. I piedi fermi, bloccati come cemento sul campo grigio e sterile di grano. Sputa un garbuglio di sangue, bile e saliva. La sfera di schifo s’infrange e si scaraventa sul terreno. È rossa e nera, questa chiazza. Tymek non vede più, non riesce a vedere altro che quel rosso e quel nero che ha macchiato il campo di grano e che ora esce dalla sua bocca, macchiando la divisa nuova.

Le ginocchia non lo reggono più, cade, il volto sconvolto, scoperto di una parte. Sente spari, non per lui. Sono troppo lontani per essere per lui, troppi solo per un soldato semplice. Sufficiente per una fucilazione di massa. Tymek ricorda suo padre e la sua angoscia. Ricorda i fucili carichi dei suoi compagni di squadra. Ricorda i loro piani e il loro terrore. Sente un’altra fucilata nell’aria, lontano, dove Bydgoszcz mostra casette bianche e muretti di pietra. Tymek comprende e l’angoscia del padre è anche la sua. Lo stomaco caccia altro sangue e rimasugli di rancio. Si sente svuotare della vita.

L’occhio sconcertato viene abbagliato da una debole luce. Una stella, piccola eppure abbagliante, viene attaccata ad un fucile. Tymek lo guarda e riconosce il calcio raschiato dalle sue unghie, quando in caserma aspettava il suo turno per provare a sparare. Guarda più in alto, guarda occhi che prima erano terrorizzati e ora quasi decisi. Il calcio del fucile, del suo fucile, gli viene sbattuto sulla guancia. Tymek, esausto, strappata parte di anima, sente solo l’orecchio diventare sordo e l’occhio chiudersi con uno scatto. Se deve morire, lo farà con occhi chiusi. Sente la vita mancargli e i muscoli irrigidirsi. Sta morendo, morirà senza aver fatto nulla per il suo paese. Tymek non si muove più. Una delle quattro ombre, più scura delle altre, si avvicina al giovane soldato, col fucile nemico in mano, l’unico carico. Lo afferra per la spalla e lo trascina via. Sarà giovane, sarà soldato, sarà stato un nemico, ma ha comunque ucciso per la prima volta.

Polonia guarda il corpo di Tymek rimanere abbandonato nel grigio delle spighe morte. Occhi più sbarrati di quelli di Prussia, si volta verso di lui. Ad entrambi manca il fiato, ad entrambi manca colore alle guance. Polonia lo guarda negli occhi appannati. Gli fa un cenno, i denti scoperti e la saliva bollente. Gli nega leggermente con la testa, non può essere accaduto per davvero. Polonia, pesante, eppure disperato, corre. Prussia lo segue, i due volatili fidi compagni dietro di loro. La divisa di Polonia quasi lo intralcia, la mantella incastrata nella coperta bianca che ha ancora sulle spalle. Si sente soffocare dal caldo e dal dolore. Un pugno di affanno stringe il suo cuore e lo soffoca. Bydgoszcz la conosce come se fosse un pezzo del suo corpo, un dito dei suoi piedi, un pezzo di carne del suo fianco.

La città puzza di metallo e di fumo. Si getta in un vicolo, dove è certo di aver sentito le fucilate e le mitragliate. È buio e fa freddo, anche con la coperta sulle spalle ha freddo. Calpesta qualcosa di morbido e caldo, qualcosa di umido e disgustoso. Guarda in basso, temendo. Il corpo, l’istinto, il terrore lo fanno sobbalzare e lo fanno indietreggiare. Non è certo di cosa sia, ma di sicuro è sangue e carne quella. Ha paura, ha tanta paura, ma alza ugualmente lo sguardo. La piazza di Bydgoszcz, piccola, pacifica e bianca, è macchiata e sporca. Avanza nel pantano, nei corpi ammucchiati sui muretti delle case. Guarda i vestiti: civili. Avanza ancora, un gorgoglio di nausea irrigidisce il suo corpo. Raggiunge il centro di Bydgoszcz, il suo cuore. E qui Polonia sente il suo cuore in quel pantano. Ai suoi piedi scorre sangue, i suoi stivali si macchiano di rosso. Guarda il corpo di un signore, più in alto, quasi schiacciato sul muro sporco della casa, con occhi sbarrati dal terrore e dall’incredulità. Quello è un soldato semplice. C’è un silenzio assordante, che si ripercuote malamente nella sua coscienza. E il sangue scorre come fiume sotto i suoi piedi.

“Tymek…” Polonia, bianco come la morte, guarda ai suoi piedi, dove un mucchio di carne e divise polacche ha creato una pila molto più consistente. Dove le stelle baciano il sangue sulle tempie e suoi visi della gente maltrattata. Polonia vede per un attimo alla finestra di un piano alto una donna, che prima osservava alla finestra i soldati marciare sulla piazzetta. Il corpo abbandonato lì, la testa e i capelli sudici di nero e rosso cadenti all’ingiù, sul muretto che poco prima era bianco ed immacolato. Le braccia a penzoloni, quasi staccate dalle spalle, dondolano ancora al ritmo dell’assordante angoscia del biondo. Delle gocce scure abbandonano il capo e s’infrangono in una pozza di sotto, della stessa consistenza e colore. Polonia guarda ai suoi piedi. Qualcuno respira, qualcuno si trascina. Un mucchio di carne rossiccia pare guardarlo, pare provare a riconoscerlo. Entrambi si riconoscono, entrambi in modo diverso.

“Tymek, sei tu…?” la voce strascicata, che con fatica esce dalla gola e tocca le labbra. Polonia ha nausea, Polonia ha paura. Si porta la mano alla bocca. Non riesce a rispondere, non riesce a dire nulla. Sente la saliva acre ed acerba. Sente di star per vomitare. Darek non riesce a guardarlo. Un occhio è morto, sgorgante da una pallottola mal centrata, l’altra palpebra è serrata e ugualmente inutile. Polonia riconosce Darek, il padre di Tymek, e Darek non riconosce suo figlio Tymek “Tymek, aiuto…” Polonia, sussultante, con la gola bloccata dalla nausea, lo guarda ancora. Gli occhi appannati scorgono comunque. Vedono una saccoccia scura ed umida, con la corda spessa avvinghiata alla bocca del sacco. Il ragazzo segue con gli occhi il cordone della saccoccia e ne vende altri raggruppati. Tutti sotto la pancia dell’uomo. Polonia si porta una seconda mano alla boccia, la nausea crescente. Darek tenta ancora di avvicinargli. Polonia indietreggia, la gola piena di orrore “Sparami, Tymek”. 

Il corpo gorgoglia e sputa sangue, la saccoccia e le corde dell’intestino paiono fare ugual cosa. Polonia comprende, sentendosi colpevole e toccato. Con gli occhi appannati e le mani serrate alla bocca, nega con tremore con la testa. Pare più fare scatti che negare. La puzza di ferro e di mitragliate gli sta asfissiando le narici “Tymek, ti prego, sparami. Te ne prego, figliolo!” Polonia geme e non si muove. Un rantolo di orrore gli abbandona le labbra e lo fa sussultare. La carcassa viva di Darek, capito di non poter essere soddisfatto nel suo ultimo desiderio, si accascia in terra. Trema e piange quasi più del ragazzo di fronte a sé.

Polonia guarda ancora. Guarda i corpi dei civili polacchi e tedeschi. Guarda le carcasse e le divise con stemmi dell’aquila bianca. Guarda la donna abbandonata e quasi cadente dalla finestra della sua casa. Con fatica e terrore guarda Darek e la nausea non si calma affatto. Guarda lontano, dove una sediolina è stata abbandonata sull’uscio di casa. Vede una bambola, coi capelli ricci e biondi, e il vestitino e la pelle bruciati dal fuoco. La bambolina l’osserva, accasciata al legno spezzato, e per Polonia è come guardare una bambina che l’osserva piangente in mezzo al sangue e al fumo. Prussia l’ha seguito, se n’era dimenticato. Gli ha gettato una mano guantata agli occhi e una ancorata alla lancia. Polonia non vede nulla, ma ormai ha visto fin troppo. Un gemito trapassa il collo del ragazzo e pezzi di rimpianto gli trafiggono il cuore.

Prussia vede il corpo di Darek, che intanto ha smesso di lamentarsi. Ritorna il bianco, ritorna la carta immacolata. Prussia stringe forte a sé Polonia, continua a parargli la vista con la mano. Non vede l’aquila nera gettata sulla sua spalla, ma è certo che il suo sguardo sia veleno su di sé.

 

 

 

 

 

 

Il foglio gli si parò davanti con una delicatezza tale da sembrare un piatto di dolci. Come se avesse fin poco significato un pezzo di carta abbandonato su di una scrivania vuota di scartoffie o libri. Per un attimo Prussia pensò che questa stanza fosse terribilmente più ghiacciata di quel che credesse. Eppure fuori faceva così caldo…

Il suo capo, maledetta canaglia con quello sguardo da serpente, gli ha gettato davanti un foglio. Come se fosse insignificante inchiostro stampato su di una carta altrettanto insignificante. Prussia per un attimo pensò che questa stanza fosse terribilmente più accaldata di quel che pensasse. Eppure fuori pioveva come se fosse autunno…

Gli si era gettato di fronte agli occhi una penna, una stilografica nera e lucida, insignificante, simile a tante altre stilografiche che esitano al mondo. Gli si era portata di fronte agli occhi come se avesse chissà quale valore esotico. Eppure di stilografiche come questa ne aveva viste perfino in casa di Russia, quando dovette firmare insieme a lui l’accordo per avere Polonia. Peccato che sia morto…

Per avviare queste procedure è necessario il consenso della Nazione.

Il foglio gli si era avvicinato ancora di più dal suo capo e, oddio come lo odiava, con un cipiglio fin troppo insistente. Come se quel foglio dovesse essere firmato assolutamente, come se avesse idee ben diverse da quelle con cui ha trattato con lui. Questo foglio è un pezzo di carta come tanti altri. Ne ha visti ben troppi, di questa maledetta carta stampata. Perfino da Russia ne ha viste un bel po’, in giro per la sua casa, che pareva più un gigantesco castello. Peccato che debba ancora aspettare la sua morte…

Aveva preso la penna in mano, come se avesse qualche materiale prezioso fra le dita. Aveva avvicinato ancora un po’ il foglio e aveva osservato lo spazio bianco dove avrebbe dovuto firmare. Aveva osservato quello scorcio bianco come se dovesse scegliere la sua vita o quella di West. Come se dovesse dipendere la vita del suo stesso fratello. Lui non sa niente, non deve sapere niente. Lui è la Germania e ogni cittadino tedesco che respira ed esulta il proprio orgoglio per la patria. Lui… non l’ha ancora capito. Un giorno, forse, lo capirà. Ma prima deve firmare questo foglio. Prima deve dimostrare al mondo che West è la Nazione migliore di questo mondo.

Senza il consenso della Nazione non potremo procedere con le procedure razziale, essenziali per il miglioramento morale e civile del paese.

West è il migliore e lo sarà ancora di più. Non sarà più in pericolo, non dovrà più essere schiavo di altre Nazioni più deboli di lui.

Porta la stilografica allo scorcio bianco. Firma con la stessa rigidità di West e la sua stessa forza. Firma e il foglio lo abbandona sulla scrivania, mentre il suo capo poggia gli occhi severi su di lui e passa il dito sotto i baffi folti.

 

 


Deutschland.

 

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: L0g1c1ta