2 Novembre 2010.
Nell’ambulatorio dell’ospedale.
«Wuuuuhmm!
Wuuhmmm!» esclamò
Katie, correndo con le braccia aperte.
«In guaddia!»
esclamò Mark,
puntandole addosso una pistola invisibile.
Rivolsi un sorriso di scuse
agli altri pazienti fermi in sala d’aspetto, ma presto degli
altri bambini si
unirono alla battaglia immaginaria dei miei figli. Ero terrorizzata dal
fatto
che qualcuno potesse notare che Katie e Mark fossero troppo svegli per
i loro
tre e due anni, dimostrandone anche meno di quanti ne avessero. Non
avevamo
moltissimi contatti con il mondo esterno proprio per questo motivo, e
di solito
erano molto timidi con le altre persone. Ma in questo caso erano in
ospedale,
dove il nonno li portava spesso, quindi ben presto si erano sentiti
liberissimi.
Juliet succhiò con
più forza
al mio seno, facendomi appena socchiudere gli occhi.
Edward le accarezzò la
testa. «Stasera proviamo con la prima pappina, che ne
dici?».
«Oh, la prima pappina. Ho
solo ricordi felici delle prime pappine, tanto che mi viene voglia di
continuare ad allattarle per una vita» scherzai.
Sorrise, sicuramente
ripensando a come, in entrambi i casi, la pappa ci fosse finita dritta
in
faccia.
Juliet tirò ancora, poi
si
staccò e vagì, e fui costretta a cambiare seno.
«E io che pensavo di potermelo
risparmiare per Anne, questo» scherzai ancora, sollevando gli
occhi al cielo.
Edward la stava cullando sul
suo petto. Le avevamo messo un pagliaccetto rosso e bianco, coordinato
a quello
della sorella, degli stessi colori ma opposti. Avevano tutte e due gli
occhi
verdi e i capelli ramati, e la pelle pallidissima. Due principessine.
«Kate, Mark! Non
allontanatevi oltre il corridoio» li richiamò
Edward. I due bambini annuirono,
ricominciando a giocare.
Accarezzai la guancia di
Juliet che sorrise e fece un versetto, allungando un pugno nella mia
direzione.
«Ti ho promesso che ti
trasformo fra un paio di mesi, vero? Un paio, lo giuro»
mormorò al mio orecchio
Edward, la voce bassa.
Sussultai, irrigidendomi.
«E
questa da dove ti è venuta?» domandai divertita.
Abbassò lo sguardo sul
mio
seno. «Sono stanco di dividerti con gli altri… e
di usare i preservativi»
aggiunse a voce ancora più bassa.
«Edward!»
esclamai,
ridacchiando nervosamente, rossa in volto.
«Edward, Bella»
chiamò
l’assistente di Carlisle, uscendo dalla stanza. Mi ricomposi,
sollevando la
manica del vestito e rimettendo a posto il lenzuolino e Juliet nel
passeggino.
Radunammo la ciurma e impiegammo cinque minuti solo per entrare nello
studio.
«Così
papà l’ha afferrata e io
l’ho morsa forte forte e abbiamo vinto! Rose ha preso solo
una lince e Emmett
un orso, ma la nostra gazzella valeva per due! Vero papà?
Vero?» domandò Kate,
raccontando contenta al nonno l’ultima battuta di caccia.
Carlisle sorrise, spostando
lo stetoscopio sulla schiena di Anne. «Sei stata davvero
brava». La piccola si
mosse, una mano in bocca e una che tentava maldestramente di afferrare
lo
strumento. I suoi occhi verdi vagarono nella stanza.
«Aaa-aaaa» gorgogliò.
Feci un ampio sorriso.
«Quello è il suo modo di dire “mamma”.
Vero amore, vero?» la vezzeggiai.
«Non potrebbe essere il
suo
modo di dire “papà”?» mi
sfidò Edward, cullando e calmando Juliet, rossa in
volto e bagnata di lacrime, dopo aver ricevuto il suo vaccino del
quinto mese.
«No, perché lo
dice
guardando me» ribattei, facendogli la linguaccia.
«Mammi! ‘Osso
anche io?»
domandò Mark, che mi stava attaccato a un piede.
Aggrottai la fronte,
seguendo il suo sguardo verso le mani del nonno, dove stava una piccola
siringa. Allontanai immediatamente gli occhi, respirando piano.
«Mmm, amore,
magari un’altra volta, eh?» domandai, deglutendo
più volte.
Carlisle rise, afferrando il
bambino ai miei piedi. Lo fece sedere sulle ginocchia e gli mise la
siringa fra
le mani. «Mi puoi aiutare. Lo facciamo insieme,
così».
Liberai la gamba della
bambina dalla tutina, impedendomi di tremare. Mi voltai di lato e
serrai gli
occhi, aspettandomi di sentire il suo pianto disperato, intanto che
Carlisle
spiegava ogni passaggio che compiva a Mark.
«Fatto».
«Fatto?»
domandai sorpresa,
aprendo gli occhi. Mi voltai verso la bambina che sorrideva saltellando
sul
posto ed emettendo versetti. «Ma, ma…».
«Si vede che Anne ha
preso
da me» mormorò al mio orecchio Edward, ridendo.
5 Febbraio 2011. Un giorno
di neve a casa Cullen.
«Brr, brr, brr. Ci sono
due
bambini congelati qui» esclamai velocemente, entrando nel
soggiorno. A dir la
verità, sotto lo strato di cappotti cappelli coperte e
sciarpe quasi non si
vedevano, i bambini. Rose mi prese Anne dalle braccia, e Esme Mark.
«Abbiamo vinto! Eravamo
una
valanga, ragazzo!» tuonò Emmett, dando il cinque a
Mark.
Edward si chiuse la porta
alle spalle, entrando con Kate e Juliet e Alice e Jasper. Avevamo
deciso di far
divertire i bambini sugli slittini, quella mattina, visto che per una
settimana
intera c’era stata un’abbondante nevicata e la neve
era ormai compatta e
solida.
«Mamma, mi sistemi il
fiocco?» mi domandò Kate, correndo da me con il
suo vestitino verde di raso. Mi
chinai con un sorriso, sistemandole il vestito e baciandole poi la
fronte.
«Mammi! Mi ‘ude
il naso» si
lagnò Mark, indicandosi il nasino con una smorfia.
Afferrai un fazzolettino
dalla tasca. «Soffia forte forte. Più forte. Più
foooorte. Così, bravo»
risi, appallottolandolo e gettandolo nel fuoco. «Prude
ancora?».
Fece no con la
testa,
sorridendo e correndo via.
Juliet, sotto
l’attenzione
di Alice, provò inutilmente a sollevarsi sulle gambe prima
di gemere,
frustrata. «Aspetta, amore, così» feci,
sollevandola e portandola accanto al
tavolino da tè, dove si appoggiò con entrambe le
mani per sollevarsi ed
emettere un verso felice che somigliava a «‘Ammi».
«Bella» mi
richiamò Esme.
«Anne sta frignando, credo che abbia fame. La vuoi
allattare?».
Mi mossi sui piedi, a
disagio. «Emm, veramente… potresti darle una
pappina. Da un paio di settimane
non vogliono tirare e non mi sta più venendo il
latte» mormorai a bassa voce,
imbarazzata. Abbassai gli occhi, scossa da un brivido.
«Oh, certo.
Capisco».
Annuii, guardandola
allontanarsi. Edward si avvicinò, sfregandomi il braccio,
silenzioso. Infilai
il capo sul suo petto e stetti così ferma per sei secondi,
prima che Mark, poi
Juliet, poi Kate, poi Anne, reclamassero ancora la mia attenzione.
Sorrisi, repressi
uno sbadiglio e mi dedicai a loro.
«Sapete cosa sta per
arrivare?» fece Rose, guadagnandosi l’attenzione di
tutti i bambini.
«Così
rovinerai la sorpresa»
ribatté Jasper compassato, sollevando appena gli occhi dalla
rivista che stava
leggendo.
Gli scoccò
un’occhiata
avvelenata. «Zitto tu».
«Cosa?»
domandarono i
bambini. «Daaaai zia, dicci cosa!». Carlisle e
Esme, in sala, sorrisero,
guardandosi fra di loro. Edward continuò ad intrecciare i
capelli di Kate.
Incredibile quanto fosse diventato bravo.
Rose riprese a parlare.
«Sta
per arrivare…».
Presi un paio di respiri
più
superficiali. Si avvertì il suono delle tazzine che
tremavano contro il vassoio
di metallo, tintinnando. Tutti, nessuno escluso, si voltarono a
guardarmi.
Erano le mie mani, stavano tremando. Battei le palpebre, inebetita.
Alice si sollevò dai suo
posto sui cuscini, prendendomi il vassoio dalla mani prima che cadesse.
«La
cioccolata!» esclamò, voltandosi verso i miei
figli.
Ci furono delle urla di
gioia e dei versetti, e ognuno abbandonò la sua
attività per circondarla.
Deglutii, e mi tirai a
sedere sul divano, accanto a Edward. Il cuore cominciò a
battermi man mano più
piano e la stanza smise di girare. Mi accarezzava lentamente la schiena
con la
mano, senza parlare.
Per l’ora di pranzo fummo
bloccati a casa Cullen, perché aveva ripreso a nevicare e
non volevamo
rischiare di far ammalare i bambini, e tutti volevano rimanere con
loro, e Esme
aveva già preparato il pranzo…
«Vola la pappa nella
boccuccia, ahhh» feci, avvicinando il cucchiaio alla bocca di
Juliet. Lo prese
fra le labbra, fece una smorfia e ne sputacchiò un
po’. Poi la riaprì.
«’aaapppa».
«Mamma, nella mia pasta
non
c’è il formaggio» protestò
Kate, indicandola.
Mi sporsi ad osservarla, e
poi presi un formaggino dalla borsa per le gemelle e glielo misi nel
brodino.
«Così va bene?». Annuì,
concentrata sulla sua pastina.
Riuscii a mettere in bocca
un altro cucchiaio di pappa a Juliet che «Mammi» mi
chiamò Mark, tirandomi una
gamba dei pantaloni.
«Cosa
c’è tesoro?». Tese le
braccia nella mia direzione per farsi prendere in braccio.
«Finisci di mangiare
prima».
«Finito»
ribatté,
allungandosi di più.
«Vuoi che lo prenda io,
cara? Non hai nemmeno sfiorato il tuo pranzo» mi fece notare
Esme, che intanto
stava facendo mangiare Anne. «Devi essere sfinita».
Mi voltai appena verso il
mio piatto di pasta. Sarebbe con molta probabilità rimasto
intonso. Sorrisi
appena, chinandomi a raccogliere il mio ometto e mettendomelo sulle
gambe.
Chiuse gli occhi e posò la testa contro il mio petto.
«Va tutto bene, Esme. Non
sono stanca» mormorai, imboccando ancora Juliet.
Mark si addormentò dopo
poco
sulle mie gambe. Mi feci passare Anne, che intanto aveva reclamato la
mia
attenzione, da Esme, e la cullai come meglio potevo sulla spalla,
mentre lei
faceva mangiare Juliet. I ragazzi si spostarono nell’altra
stanza, in modo che
ci fosse abbastanza silenzio perché i bambini dormissero, e
rimase solo Edward,
che leggeva una favola a Kate sul divano per farla addormentare.
Sentii per un attimo le
palpebre abbassarsi, mentre cantavo la ninnananna per i bambini.
Nessuno aveva
detto “mamma” “mammi” o
“ammi” nell’ultimo quarto
d’ora, il che poteva dire
solo…
«Si sono
addormentati»
sussurrò Edward «vado a mettere Juliet e Kate
nella stanza di sopra».
Annuii, reprimendo uno
sbadiglio. Avevano convertito la stanza di Edward a stanza dei bambini,
e
spesso rimanevano lì a fare dei sonnellini. «Ti
raggiungo subito» mormorai,
sollevando Mark e Anne in modo da essere in grado di portarli entrambi.
Il
bambino si strinse con le braccia attorno al mio collo. Vicino allo
stipite
della porta del soggiorno mi sbilanciai all’indietro,
ondeggiando. La vista si
sdoppiò.
«Dalli a me,
Bella» disse la
voce bassa di mio suocero.
Arrendevole lasciai che li
prendesse
dalle mie braccia, senza neppure riuscire a distinguere nettamente i
contorni
del suo viso. Mi appoggiai con la spalla allo stipite della porta.
«Non andare
veloce, quando lo fa Edward si svegliano… Devo…
solo sedermi un attimo».
Non sentii la sua risposta.
Quando la stanza riprese contorni definiti non c’era
più. Lentamente,
incespicai verso la poltrona imbottita accanto al fuoco su cui
probabilmente
era rimasto seduto, e ci crollai.
Edward
Osservai mia moglie,
rannicchiata sulla poltrona comoda. Le misi addosso una coperta,
accarezzandole
i capelli. Era esausta, pallida, con le occhiaie. Si stava dedicando
anima e
corpo ai suoi figli, senza mai tirarsi indietro, anche quando era allo
stremo
delle forze. Le accarezzai le labbra. Sempre dolce, gentile, con un
sorriso
sulle labbra e disposta ad andare avanti, ancora e ancora, senza mai
lamentarsi.
«No, non mi va di
parlarne
qui» feci, scuotendo il capo verso mio padre. Anche senza
leggere i suoi
pensieri mi bastava guardare i suoi occhi per capire cosa gli passasse
per la
mente.
«Vieni nel mio
studio».
Annuii, sollevandomi sui
talloni e seguendolo. Aspettai che si chiudesse la porta alle spalle
prima di
mormorare pianissimo «Dovrebbe essere circa alla quinta
settimana. Quattro più
cinque. Si è rotto il preservativo» feci,
sollevando finalmente gli occhi nei
suoi.
«Capisco»
ribatté
comprensivo.
Sospirai, prendendomi il
capo fra le mani e voltandomi a dargli la schiena. «Dovevo
trasformarla fra
appena due settimane. Abbiamo quattro figli, ed hai visto anche tu
com’è uscita
dall’ultima gravidanza… io…»
annaspai.
Posò la mano sulla mia
spalla. «Non lo potevate prevedere. E Bella è
cambiata, Edward. Credo che
abbia imparato che può farcela». Mi
voltai, un’espressione angosciata sul
viso. Fece una smorfia. «Ne siete sicuri? Ha fatto
un test?».
Scossi il capo. «Non ne
abbiamo ancora parlato, ma non ce n’è bisogno. Hai
visto anche tu. La settimana
passata stavo falciando l’erba e appena ha sentito la puzza
è corsa a vomitare.
Non mangia decentemente da allora, le gira la testa e… ha
già smesso di
crescere. Le unghie, i capelli. L’ho osservata
attentamente».
Mio padre mi sorrise
condiscendente. «Dovete parlarne, Edward. Magari la
prenderà meglio di quanto
credi».
Sospirai, scuotendo il capo.
Sentii i passi veloci e affrettati di mia moglie sul parquet e poi la
porta del
bagno sbattere. «Vado da lei» deglutii, correndo
veloce come un vampiro.
Bussai. Sentii il suo tossicchiare dietro la porta. «Sono
io».
«Entra, Edward»
biascicò,
tirandosi a sedere a fatica. Si pulì la bocca con un pezzo
di carta igienica,
poi lo buttò nella tazza, facendo scorrere
l’acqua. Abbassò la tavoletta del
water, sedendocisi sopra. Mi osservava, inespressiva, aspettando che
dicessi o
facessi qualcosa.
Mi avvicinai cautamente,
facendola sorridere. «E così…
eh?».
Il sorriso si fece più
ampio. Prese la mia mano e se la portò al ventre.
«E così, eh…»
mormorò, prima
di scoppiare a piangere.
La abbracciai, sentendo i
suoi piccoli singhiozzi scuotermi. «Mi dispiace
tesoro… Sarei dovuto stare più
attento, avrei dovuto…».
Scosse il capo, senza far
smettere di scendere le lacrime. «C’ero
anch’io quella notte, no? Ti posso
assicurare che ero contenta», scherzò debolmente,
tirando su col naso.
Le accarezzai la guancia,
portandole via il bagnato. La scrutai negli occhi gonfi.
«Vuoi fare un test?»
domandai incerto, non sapendo bene cosa dire.
Rise, un suono un po’
isterico e nasale, gettando il capo all’indietro.
«Credimi, Edward, dopo tre
gravidanze so come ci si sente».
Abbassò lo sguardo sulla
mia
mano, che non avevo mai allontanato da dove l’aveva messa,
sul suo grembo. «Ce
la faremo. Non so come» la voce
s’incrinò «ma ce la faremo»
mormorò con un sorriso
forzato.
La baciai.
Si tirò indietro.
«Che
schifo, Edward. Fammi almeno lavare i denti prima».
Risi. «Non mi importa, ti
voglio solo baciare».
Arrossì, provando a
divincolarsi inutilmente. Alla fine si arrese.
«Edward?».
«Cosa?».
Si avvicinò al mio
orecchio,
stupendomi ancora una volta. «I bambini dormono… E
questo vuol dire… che
possiamo anche non usare più i
preservativi…».
Non me lo feci ripetere due
volte.
3 Giugno 2011. Un giorno
come un altro e un altro ancora… Ancora.
«Dove sono le
gemelle?».
«Ho fame! Mamma, ho fame,
ho
fame!».
Sospirai, chinandomi a
porgere a Kate il panino che stavo mangiando. Me ne sarei fatto un
altro,
magari prima di andare a dormire… «Tieni tesoro.
Prendi questo, ma mettiti a
tavola a mangiare».
La bambina annuì,
arrampicandosi sulla sedia prima di dedicarsi al mio - suo - panino.
«Bella»
gridò ancora Edward,
per farsi sentire anche dalla cucina. Stava riparando la lavastoviglie.
«Ho
detto: dove sono le bambine?».
«In camera a dormire.
Tranquillo. Con me ci sono solo Kate e Mark…».
Ansimai, voltandomi verso la
sedia accanto alla mia. «Mark?!» strillai in un
verso strozzato.
Passarono pochi istanti
pieni di panico. «Mark! Mark, dove sei? Mark?»
urlai, lasciando che il panico
mi assalisse sempre più velocemente. Era un bambino buono,
mi rispondeva sempre
appena lo chiamavo.
«Cosa succede?»
esclamò
Edward entrando velocemente nella stanza.
«Il bambino, Edward! Non
c’è! È scomparso!».
Ma mio marito non aveva
l’espressione che mi sarei aspettato. Sembrava perplesso.
«Mamma» mi
chiamò la voce di
mio figlio, ma quando mi voltai lui non c’era.
«Mark? Mark?».
«Mamma!» mi
richiamò ancora,
e improvvisamente comparve davanti ai miei occhi, dov’era
sempre stato. Seduto
sulla sedia.
Avevamo appena scoperto un
nuovo strano dono dei miei figli: Mark poteva diventare invisibile.
«Stai bene?».
«Mh-mh».
«Sicura?».
«Benone. Passami un
pannolino per favore». C’era stata una certa
agitazione e un po’ di nausea dopo
tutto quel trambusto. Com’era ovvio non avevo voluto farmi un
altro panino.
Carlisle era un po’ preoccupato, continuava ad insistere che
non stavo
prendendo abbastanza peso, che mi stavo stancando un po’
troppo. I bambini
erano tanti e piccoli ed era difficile prendersi cura di tutti al cento
per
cento. Eppure continuavo a farlo. Con tutti, però, anche
quelli che non erano
ancora nati. Quindi se Carlisle mi diceva di mangiare lo facevo. Se mi
diceva
di dormire anche. Solo, lo facevo a modo mio, e per quanto Kate, Mark,
Anne e Juliet
me lo permettessero.
Quindi non avevo mentito a
Edward. Mi sentivo bene, come al solito. Come se stessi percorrendo una
lenta
ed estenuante maratona dell’amore.
Mi fece allontanare,
sistemandosi davanti al fasciatoio. «Lascia fare a
me».
Non protestai, infilai il
pigiamino a Anne e andai a rimboccare le coperte a Mark e a Kate. Il
mio ometto
stava dormendo, ma la più grande non ne voleva proprio
ancora sapere.
«Mamma, raccontami una
storia».
Le sorrisi, senza smettere
di cullare la piccola Anne. Aveva quasi un anno, ma ne dimostrava un
po’ meno.
«Devo mettere a dormire la tua sorellina».
S’imbronciò.
«Non la puoi
raccontare anche a lei?».
Sospirai, appoggiandomi al
muro contro cui era sistemato il letto. «Facciamo
così. Perché non racconti tu
una storia a me a ed Anne, eh? Cosa ne pensi?».
Mi guardò, come se ci
stesse
riflettendo. «E va bene…»
sospirò infine, perdendosi in un mondo fatto di fate,
castelli, principi e principesse.
Mi lamentai, agitando
leggermente il capo.
«Shh, torna a
dormire».
Nonostante fossi
disorientata provai a fare uno sforzo di memoria. Se non sbagliavo, mia
figlia
mi stava giusto raccontando una storia… Mi lasciai andare
fra le braccia di
Edward. «Sono pesante» scherzai.
Senza accendere la luce
entrò nella nostra stanza e mi sistemò sul letto.
Aprii gli occhi.
«Ti avevo detto di
dormire».
Scrollai le spalle.
«Anche
tu mi sembri stanco» mormorai, accarezzandogli il viso. Aveva
le occhiaie e
sapevo perché. «Da quanto non vai a
caccia?».
Mi sorrise, baciandomi il
palmo della mano e lasciandomi una scia di baci che andava per tutto il
braccio. «Da quanto non mangi decentemente, non fai qualcosa
per te stessa, non
dormi più di quattro ore di fila…?».
«Posso cominciare da
adesso»
scherzai, divincolandomi e voltandomi dall’altro lato.
«Ah, non fare la
furba» mi
rispose a tono, bloccandomi i polsi e riprendendo a baciarmi. Scese sul
seno e
sulla pancia, accarezzandomi il piccolo pancione. Ero ancora al quinto
mese.
Dovevo fare il più possibile prima che la gravidanza mi
impedisse di badare ai
bambini.
«Dai, smettila, mi fai il
solletico» risi, contorcendomi sul letto.
Sollevò la bocca,
fissandomi
con un sorriso. Era diventato più dolce,
più… malizioso.
Glielo restituii. «Certo
che… Mark, eh?
L’invisibilità?» borbottai incerta. Non
riuscivo ancora ad
assorbire la notizia. «E se gli dovesse capitare in
pubblico?».
Mio marito continuò a
baciarmi dolcemente tutto il corpo. «Ce ne preoccuperemo
l’anno prossimo,
appena ci trasferiremo».
«Già»
sospirai, guardando
con malinconia le pareti della mia stanza. Mi mancava di già.
Mi sfilò la maglietta.
Continuò a baciarmi. «Andrà bene,
vedrai». Ero così dolce, delicato…
«Già»
borbottai ancora.
Baci, baci, baci. Teneri,
gentili… Tanto che, esausta, mi addormentai.