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Autore: Yoko Hogawa    06/05/2009    1 recensioni
Non poté capire cosa passasse per la mente del pianista, né se tutto quello che aveva fin lì programmato di fare fosse la cosa giusta o sbagliata. Tentare non nuoce, dice la gente, ma quando il tentativo si preannuncia come un fallimento, provare può uccidere.
Col senno di poi, non era sicuro di aver mai visto sul volto del suonatore alcuna traccia di umana emozione.
Tanto meno la paura.
[Lievi spoiler sul quattordicesimo][Personaggi: Quattordicesimo, Mana Walker, Cross Marian, Testimone Ignoto]
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Allen Walker, Altro personaggio
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Spoiler!
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Notte 137, volume 14

Notte 137, volume 14.

Lvellie (pezzo di…) lo ammette a chiare lettere.

“Abbiamo un testimone” dice. E, subito dopo, una tavola mostra un letto a baldacchino a cui confluiscono centinaia di fili di dubbia origine, una mano raggrinzita con (presumibilmente) il tubicino di una flebo attaccato e l’onomatopea di un “bip” a fare compagnia a suddetta immagine visiva.

Bene. A questo punto, la ricetta è semplice.

Collegate quelle misere tre vignette al contesto (l’eredità del Quattordicesimo), prendete in considerazione che del passato di Allen non sappiamo nulla prima dell’incontro con Mana e mescolate il tutto con il mio cervello bacato che ama un personaggio solo dal nome, senza che nemmeno sia comparso (vedi il Quattordicesimo).

Infornate e aspettatevi di tutto.

 

Oneshot, nonostante io sia geneticamente impedita nello scriverle.

What If…”, perché quello che scriverò, nel manga non è successo nemmeno con tanta fantasia.

Spoiler. Lievi, ma tutti riguardanti la figura del Quattordicesimo. Almeno fino al discorso di Allen e Cross, dopo il Darkness 4.

 

Questo è un racconto di fantasia. I personaggi non mi appartengono ma sono © di Katsura Hoshino, così come l’opera da cui è stata tratta questa oneshot.

La trama, come il complotto orbitante intorno al personaggio di Allen Walker, è tutta una mia invenzione (sì, dovrei trovarmi un passatempo).

Si parlerà abbondantemente di religione/istituzioni religiose. Chiunque si senta offeso si fermi o, se proprio legge, non sostenga che non ho avvertito.

 

Solo per precisazione: le parti centrate e le parti con margine sinistro si svolgono in due situazioni temporali diverse. Quelle scritte normale sono le presenti, quelle centrate le passate.

Il p.o.v. è della persona, per ora senza nome, che si vede sul letto.

 

A chi leggerà, buona lettura.

***

 

Oltre Ogni Dubbio

 

 

Avanzò con passo stanco oltre la soglia di San Pietro, infilandosi di straforo da una porticina laterale al grande portone.

Fradicio, spaventato, tremante. Si era rifugiato a Roma dopo anni di timori e dubbi, di tensione e agitazione, di terrore.

Vedeva nemici dappertutto. Ogni persona, persino la gentile signora alla bancarella della frutta, per lui era un akuma.

Venivano ad ucciderlo. Lo braccavano, se lo sentiva, poteva sentirli sibilare nelle ombre anche se non li vedeva.

Fra le crepe delle pareti, sotto i letti, dietro gli angoli… ovunque, dovunque!

Non era al sicuro da nessuna parte. In nessun luogo, se c’erano delle persone.

Tutti cedono alle paure, tutti cedono alla disperazione. Tutti, perciò, potevano essere akuma.

Lui sapeva, sapeva troppo. Per questo lo volevano morto.

Aveva dato aiuto alle persone sbagliate. Per la sua bontà pagava un prezzo tropo alto, adesso.

Loro… lo avevano intrappolato. Sì.

Rinchiuso in un mondo fatto di incubi e paranoie.

Un universo scuro e silenzioso, in cui non riusciva a distinguere i contorni della realtà da quelli della follia.

… Ne sarebbe uscito pazzo.

Osservando da sotto il cappuccio l’enorme chiesa, percorse la navata con passo trascinato. Il suono di quei passi si espandeva nella chiesa vuota come se le mura stesse lo incoraggiassero a proseguire, facendo vibrare quel suono di un tono quasi sacrale.

Era ormai all’altare. Davanti alla croce, si inginocchiò a mani giunte.

<< Perdonami, perdonami… perdonami perché ho peccato, perdonami perché sto per peccare… >>

Qual’era il tradimento più grande?

Quale?

Quale fra tendere la mano alle tenebre, tradire un’amicizia, sacrificare un bambino ad una giustizia dubbia?

Quale, fra il condannare un innocente ad una vita piena di bugie e condannarlo una seconda volta alla croce dell’eresia?

Aveva peccato così tanto senza accorgersene? Aveva tradito così tanto, senza rendersene nemmeno conto?

Era ancora un figlio di Dio, lui?

Si alzò alla bene e meglio, facendo forza sulle sue gambe vecchie e stanche perché lo reggessero in piedi.

<< Perdonami per la mia codardia, Signore… >> sussurrò a bassa voce, continuando sempre a chiedere perdono.

A sperare, nel perdono.

Uscì da San Pietro, dirigendosi a passo malfermo verso la guardia svizzera di guardia alla piazza.

Pioveva. Diluviava. Il suo mantello non era abbastanza grosso, i suoi abiti non erano abbastanza caldi, la sua salute non era abbastanza forte.

Eppure, quell’ultima cosa, l’avrebbe fatta comunque.

Arrivato nelle vicinanze del militare, gli si attaccò al braccio con forza, lasciandosi cadere sui suoi arti ormai malati.

A rimanere in piedi, non ci sarebbe più riuscito.

<< Ehi, si sente bene? >> chiese la guardia svizzera, parlando in quell’italiano particolare che lui non capiva.

<< Lvellie… >> riuscì solamente a sussurrare, mentre il militare si chinava a sorreggerlo. << Lvellie… >> ripeté di nuovo, ma debolmente.

Doveva parlare con Malcom C. Lvellie. Aveva già sentito molte volte quel nome, da lui. Era una famiglia antica, e lui gli aveva rivelato che tutti i suoi esponenti ricoprivano posizioni privilegiate e di grande importanza, in Vaticano.

Davano fastidio, a lui. Interferivano con la “guerra dietro la guerra” diceva, mentre suonando il piano parlava a bassa voce di segreti che non avrebbe dovuto rivelare.

Segreti che lui aveva sentito.

<< Mi dispiace, non conosco nessuno di nome Lvellie. Ora chiamo qualcuno, lei sta male >> disse la guardia, soffiando dentro un fischietto: il fischio si disperse in lontananza nella notte vaticana.

Anche senza capire la lingua, sapeva quasi per certo che l’uomo non aveva intenzione di aiutarlo. Che fingeva di non conoscere il tanto famigerato ultimo esponente dei Lvellie.

<< Forgive me, my Lord… >> sussurrò nella sua lingua, rivelando l’unica cosa che gli avrebbe aperto ogni porta, assicurato su di sé gli occhi di ogni autorità, anche di Sua Santità in persona se necessario.

Non fu al ripetersi del nome “Lvellie”, che la guardia sgranò gli occhi.

Ma fu all’udire un altro nome, di gran lunga più sudicio ed innominabile, che l’uomo si ammutolì facendo tacere anche il fischietto che imperterrito teneva con due dita.

<< Deus sancti! >> esclamò il militare in latino, facendosi il segno della croce.

In un rantolo disperato, rotto dal freddo della pioggia che gli aveva penetrato le ossa, la parola della proibizione fu pronunciata sul suolo sacro della Casa di Dio per eccellenza.

Fourteenth.

Quattordicesimo.                                                                                                          

 

***

 

Nella stanza non c’erano molte cose.

Un sofà sulla destra, semplice e scomodo, dai braccioli in legno intarsiato, di colore bianco e lucente, e i cuscini di un normalissimo azzurro.

Un tavolo, a destra del divano, anch’esso dello stesso legno chiaro e lucido, con un’unica sedia ad accompagnarlo.

Un pianoforte, infine. Non uno professionale, di quelli a coda che molte volte aveva visto nei balletti dell’alta società londinese; sembrava piuttosto uno di quelli verticali, sottili, usati soprattutto per l’esercitazione. Ed era bianco. Come

quasi tutto, in quella stanza, comprese le pareti.

Odiava quella sua fissazione per il bianco. A certe persone, come lui ad esempio, troppe cose chiare tutte insieme davano fastidio agli occhi.

Con un sospiro sconsolato si accomodò meglio sul sofà, cercando una posizione piacente nonostante la durezza di quella sottospecie di cuscino su cui si era sistemato. Se quel sofà era stata una scelta di Mana, avrebbe dovuto lamentarsi sentitamente del suo pessimo fiuto per le cose belle.

Con un altro sospiro, rivolto a nessuno in particolare, voltò il capo alla sua destra, oltre il tavolo, in direzione dell’unica persona presente oltre a lui nella stanza.

I capelli rossi e corti coperti quasi interamente da un cappuccio nero, che ne lasciava intravedere solamente qualche ciuffo. Occhi azzurri dal disegno sottile, acuti e attenti, incastonati in un viso mascolino che ospitava un piccolo pizzetto sotto alle labbra, pallide e sottili a loro volta.

Indossava quella che aveva tutta l’aria di una divisa: completamente nera, i bordi in tessuto bianco, gli alamari e i bottoni in argento purissimo. Si vedeva da come risplendevano.

Al fianco, una pistola rinchiusa nella sua relativa custodia.

<< Marian >> chiamò, accavallando le gambe, facendo però attenzione che la giacca non si spiegazzasse. << Perché siamo qui? Io non stavo male alla cena della baronessa, anzi, c’erano molte persone interessanti e di buon gusto >> disse, con il tono diplomatico e lieto che meglio gli usciva fra tutti.

L’uomo, spostando lo sguardo dall’enorme parete a specchio a cui era appoggiato, lo guardò per un istante. << Pensi di essere l’unico ad avere qualcosa di meglio da fare? >> chiese di rimando, pacato nonostante il tono potesse essere quasi stizzito, ad un ascoltatore attento.

Sospirò di nuovo, tornando a fissare il pianoforte candido. Feriva gli occhi, quello stupido strumento.

Era sempre così, con Marian non si poteva mai parlare. Da quando era diventato esorcista, poi, la quantità e l’educazione dei suoi dialoghi erano andate calando drasticamente. Sospettava che avesse cominciato anche a fumare.

<< Come stai? >> chiese dunque, più per infastidirlo che per vero interesse.

L’altro girò il volto scocciato in direzione dell’unica porta presente e, senza nemmeno guardarlo, esordì in un: << non sono affari tuoi >> particolarmente seccato.

Visto? Era diventato un caprone incivile.

Non ebbe tempo di stuzzicarlo di nuovo: dalla stessa porta che l’esorcista aveva preso a guardare, due persone entrarono a passo lento, con due sorrisi cordiali bene in vista.

<< Alla buon’ora >> commentò il rosso con un ghigno irritato: << Mana, dì a quello scemo di tuo fratello che se sono in missione per l’Ordine c’è un motivo, e non posso di certo disertare per ogni suo capriccio! >> esclamò in direzione del primo dei due, che alzò le mani davanti al volto in segno di scusa.

<< Guarda che sono presente, potresti dirmelo direttamente >> commentò il secondo, con un sorrisetto sarcastico stampato sul volto diretto e dedicato tutto a Cross. La sua voce particolare aveva il potere di far vibrare le pareti della stanza e, in un qualche modo che non sapeva spiegare, sembrava che anche il pianoforte risuonasse magicamente alla sua presenza.

Lo affascinava, quella cosa. E al contempo lo intimidiva.

<< Mana, dì a tuo fratello che mi secca troppo parlargli direttamente e che, anzi, se lo facessi dovrei anche arrestarlo o come minimo tentare di ucciderlo >> rispose Marian, sbuffando alla successiva risatina di Mana.

<< Va bene, va bene… messaggio ricevuto, signor Esorcista >> commentò solamente l’altro, sedendosi al piano con fare fin troppo naturale, sfiorando il tasto del Do con il polpastrello del medio destro.

Quasi come se rispondesse a quel gesto, una nota di Do si levò impercettibilmente nell’aria.

<< Grazie per essere venuti, comunque >> prese poi a dire Mana, scostandosi una ciocca di capelli lunghi e mossi dal viso, facendola ricadere dietro la spalla. << Sarà stato difficile raggiungere i gate senza farvi vedere >> aggiunse, alternando lo sguardo fra lui e Cross.

<< Quando anche le ombre potrebbero stare lì a guardarti? >> chiese sarcastico lui, cambiando posizione sul divano e appoggiando entrambe le braccia allo schienale. << Macché, figurati. Una passeggiata >> ironizzò, scherzoso.

<< Mi dispiace >> intervenne il suonatore, prendendo lentamente a suonare una ninna nanna sulla tastiera candida del pianoforte. << Ho dovuto. Non credo che avremo molte occasioni per parlarci, d’ora in avanti >> aggiunse, suonando in modo talmente naturale e liscio, che stare ad ascoltarlo era un piacere.

Un piacere per chi non aveva idea di che potere avesse quella musica, ovviamente.

<< Allora muoviti a dire quello che devi dire >> intervenne di nuovo Marian, staccandosi definitivamente dal muro e osservando in direzione del pianoforte con le braccia incrociate al petto. << Sono un Esorcista, non posso starmene qui a chiacchierare con un Noah come se niente fosse >> disse poi, frugandosi con impazienza nelle tasche per tirarne fuori un portasigarette in argento.

Lo osservò. Altro che caprone, un aborigeno era più civilizzato di Marian.

<< Se proprio devi fumare, almeno chiedi ai presenti se potrebbe infastidire >> commentò in sua direzione, la solita voce da intellettuale ben educato.

<< Quando scenderai dal tuo alto status sociale, forse ti chiederò di cambiare stanza quando fumo >> fu la risposta secca di Cross, bofonchiata nel tentativo di accendersi la sigaretta.

Non poté fare a meno di roteare gli occhi, ritornando con gli stessi alla figura di Mana, che se la rideva silenziosamente.

La melodia continuava, al contempo. Chissà, in quel momento, cosa stava cambiando all’interno dell’Arca.

Portò lo sguardo alla finestra, fissando il cielo “esterno”, che in realtà era il cielo dell’Arca.

<< Voi siete sicuri che non ci scopriranno, se rimaniamo qui? >> chiese allora, diretto a tutti e a nessuno al contempo.

<< Il Conte non usa più l’Arca, da quando si è appostato ad Edo. E in ogni caso, questa stanza la conosciamo solo io, Mana e i presenti >> rispose il pianista, continuando indisturbato nonostante al contempo parlasse con loro.

<< Cazzo Noah, arriva al punto! >> esclamò di nuovo Cross: << non mi interessa se questa è la lavanderia o un ripostiglio per le scope. Non ho tempo, di trattenermi in chiacchiere! >>

<< Marian ha ragione, fratellino >> intervenne Mana, girandosi verso il fratello: << è il momento di renderli partecipi di quello che vuoi fare >> disse pacato, lo sguardo improvvisamente serio.

La melodia si fermò.

 

***

Il Vaticano navigava nello sfarzo.

Oro, velluti pregiati, sete, ceramiche, statue… sembrava di camminare a piedi nudi dentro un sogno.

La stanza in cui era stato portato era grande ed accogliente. Tappeti dall’inconfondibile trama orientale riempivano la maggior parte del marmo bianco del pavimento e la scrivania, sicuramente un modello artigianale a giudicare dagli intagli, era ciò che di più barocco avesse mai visto in vita sua.

Avevano ragione, gli altri. La Chiesa appariva fuori nello stesso modo in cui era dentro.

Imponente.

Ed era proprio in quell’imponenza che sperava di trovare riparo.

Non voleva morire come un akuma. Non voleva divenire il corpo deformato di una macchina di morte.

Lui non era così stupido da credere che un piano simile potesse funzionare. Lui non era così disperato da stare al gioco fino alla fine, rischiando la propria vita per proteggere un segreto in cui non credeva.

Nessuno di loro si era più fatto vivo, nessuno.

Nessuno.

Cominciava a pensare che fossero morti tutti… a cominciare da Mana.

Dopo qualche istante di silenzio, la porta dello studio in cui era stato sistemato si aprì di scatto, facendo entrare un ragazzino in divisa bordeaux. << Il Sovrintendente Lvellie! >> annunciò formale, spostandosi di lato e mettendosi sull’attenti.

Pochi secondi, e la figura di un uomo robusto ed inquietante gli comparve davanti in tutta la sua forza.

<< La ringrazio Link, può andare >> disse al ragazzo che, con un inchino, uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle.

Si guardarono.

Per un lungo momento, nascosto sotto la piega del cappuccio che ancora lo nascondeva, aveva ripensato a tutto quanto.

Aveva avuto l’idea di alzarsi, di dire che era un povero pazzo, di uscire e di continuare a vivere.

Ma poi aveva cambiato idea, di nuovo.

Di vivere scappando dalla sua stessa ombra no, non ne aveva più la forza.

<< Buonasera >> esordì Lvellie in un inglese quasi perfetto, incamminandosi a passi pesanti verso il divanetto che stava esattamente di fronte a quello su cui era stato adagiato dalle guardie svizzere.

L’uomo alzò lo gli occhi in sua direzione, oltre il cappuccio: << mi scuserà se non mi alzo, Sovrintendente >> esordì con voce provata e stanca, vecchia e stonata come quella di un carillon impolverato: << purtroppo, le mie vecchie gambe non hanno più intenzione di sorreggermi >> completò la frase, educato nonostante il tono provato.

Sedendosi, in un modo educato che lui ricordava come lieve sfumatura della sua giovinezza, il Sovrintendente alzò la mano in sua direzione: << non si preoccupi, la prego. Rimanga pure comodo >> esordì, sorridendo con falsa gentilezza.

L’uomo annuì semplicemente, rimanendo quasi rintanato sul morbido sofà in velluto bordeaux ed intarsi d’oro.

Lvellie emanava un’aura di falsità quasi superiore a tutte quelle che l’aristocrazia inglese gli aveva regalato durante la sua florida adolescenza. Paragonato alle baronesse impettite e ai signori infedeli dei salotti londinesi, il Sovrintendente dava la sensazione non solo di essere falso, ma anche affetto da una menzogna malvagia.

Aggrottò le sopracciglia, chiudendo gli occhi in un moto di colpevolezza.

A chi stava vendendo quel povero ragazzo? Per quale principio tradiva quelle persone che per tanto tempo aveva chiamato “amici”?

Era un codardo, lo sapeva. Non sarebbe mai stato perdonato.

Ma il perdono non sarebbe arrivato comunque, ormai.

E allora meglio la vita terrena, che la dannazione eterna dopo anni di terrore.

<< Mi è stato riferito che lei ha informazioni interessanti per la Santa Chiesa >> cominciò l’uomo, tendendosi verso il tavolinetto per afferrare la teiera in porcellana finissima: << tè? >> chiese, indicando con il viso il liquido bruno che scendeva lentamente nella tazzina.

Negò, sinceramente disgustato da tutta quella facciata di buone maniere. Già si aspettava una condanna per eresia, nel caso avesse infine deciso di non parlare. O, se proprio lo avesse fatto, probabilmente avrebbe vissuto dentro una cella.

“Meglio una cella, che il mondo esterno e le sue ombre” disse una voce dentro la sua testa, probabilmente la sua coscienza… sempre se ne aveva ancora una. Sempre se non era talmente sporca da essere completamente scomparsa, sotto quella sporcizia.

Prendendo fiato, cominciò.

<< Non sforzi la sua gentilezza, Sovrintendente; non è necessaria >> disse, nonostante parlasse quasi ansimando dalla stanchezza: << le dirò quello che vuole sapere, ma voglio qualcosa in cambio >> aggiunse, diretto.

Non era abituato a parlare così sinceramente, soprattutto con persone che non conosceva. Essendo stato un signorino dell’alta società, aveva imparato abilmente ad analizzare il suo interlocutore prima di far comparire qualsiasi appoggio che potesse dare, a quello stesso interlocutore, il potere di metterlo in difficoltà.

Adorava lottare verbalmente. Era una sfida interessante per saggiare le abilità dell’altro.

Ma Lvellie era diverso. Lui fingeva, sì, ma il suo sguardo metteva subito in chiaro che tipo di persona fosse.

E lui, sinceramente, non era di certo lì per parlare del più e del meno, oppure dell’andamento del mercato nella City londinese.

Stava tradendo le sue promesse, i suoi amici, il ragazzino che per primo gli aveva sorriso sinceramente in tutta una vita… non c’era bisogno di giocare al gatto con il topo, inseguendosi a vicenda con frecciatine e ironia.

Avrebbe parlato sinceramente.

<< Mi faccia le domande giuste, e io le risponderò come devo >> aggiunse dunque, serio.

Lvellie ghignò, sentendo sulle labbra il retrogusto della vittoria.

 

 

***

 

Quell’ultima frase di Mana lasciò sbigottito sia lui che Cross.

<< Di cosa sta parlando? >> chiese, spostando lo sguardo dai fratelli a Marian e viceversa. Qualunque cosa fosse, il fatto che l’esorcista fissasse Mana in quel modo poco pacifico non era di certo buon segno.

Cominciò a chiedersi se loro sapevano qualcosa.

E, di conseguenza, si chiese anche cosa centrasse lui in questo qualcosa.

Ovvero, per quale cavolo di motivo fosse in quella stanza in quel preciso istante.

Il pianista non si muoveva. Le mani avevano smesso di levitare velocemente sui tasti e nessuna melodia riempiva ora il silenzio della stanza.

Cross fissava Mana e Mana fissava Cross.

Nessuno dei due parlava, nessuno dei due esprimeva verbalmente quello che in realtà avveniva all’interno delle loro menti, fra i loro sguardi.

Marian aggrottò lo sopracciglia, colpito da chissà quale particolare visto negli occhi del fratello maggiore.

Scostò gli occhi sulla schiena del pianista, immobile e voltato verso la tastiera. Le sue mani la toccavano ancora, erano sempre in contatto con quei tasti, con quelle note. L’unica cosa che tutti loro potevano vedere, dalle loro reciproche posizioni, erano i suoi corti capelli neri e la pelle leggermente scura tipica dei Noah.

Dopo qualche secondo passato a guardare fisso un punto particolare della schiena del suonatore, finalmente l’esorcista prese parola: << Quattordicesimo >> disse << ti sta così bene addosso, quel nome, che adesso vorresti mordere la mano a chi te l’ha donato? >> chiese, prettamente incomprensibile.

Probabilmente, incomprensibile solamente per lui. Gli altri, Mana come il fratello, sembravano capire perfettamente quello a cui Marian si stava riferendo.

<< Scusatemi signori, non vi seguo più >> disse infatti lui, liberando le gambe e alzandosi diritto con la schiena, poggiando i gomiti sulle ginocchia e la testa sulle mani giunte.

Lo ignorarono.

<< E’ stata una mia scelta, Marian. Vi sto solo chiedendo se mi aiuterete >>

<< Ah! Una pensata di Mana non può essere di certo >> rispose a tono il rosso: << mi sorprende solo che ti stia a sentire. Secondo te perché viene chiamato “Conte del Millennio”, mh? Magari perché ad ucciderlo non ce l’hanno mai fatta? >> domandò retoricamente, fissando ad alternanza sia Mana che il pianista.

<< Oh, oh! Time out! >> esclamò dunque lui, alzandosi in piedi. Una certa agitazione stava cominciando a salirgli allo stomaco, soprattutto se aveva afferrato bene il significato che traspariva dalle parole di Marian. << Di cosa stiamo parlando ora, scusate? Di uccidere il Conte del Millennio? >> chiese, lasciando andare al diavolo per la prima volta da molto la sua proverbiale fermezza di spirito.

Erano tutti impazziti?

Al pronunciare quella frase, Mana abbassò lo sguardo.

Sì, facevano sul serio.

<< Dio, fate sul serio vuoi due? >> esclamò dunque, a dir poco sconcertato dalla piega che aveva preso il discorso. Mai e poi mai si era immaginato uno sviluppo simile, un motivo simile per quella chiamata repentina nel cuore della sua cena di gala a casa della baronessa.

<< Non è un’esclamazione appropriata, in questa sede >> commentò il Quattordicesimo.

<< Me ne frego >> rispose però Marian: << il signorino qui ha ragione. Voi siete completamente pazzi >> aggiunse. Si voltò poi verso la finestra, fissando il cielo bianco dell’Arca, riprendendo il discorso in un impeto di agitazione: << c’è già chi deve uccidere il Conte del Millennio, maledizione, e di sicuro non milita fra le sue fila! >>

<< Non sappiamo se la profezia sia vera o no >> rispose il suonatore.

<< Ci credo, non è ancora scaduto il millennio! >> ribatté prontamente Cross.

<< E pensi sul serio che il Conte starà ad aspettare l’avverarsi di una profezia che lo vede perdente, veritiera o falsa che sia? >> rispose a tono l’altro e sì, questa volta Marian dovette cedere la parola.

<< Si sta già mobilitando >> esordì Mana, riprendendo dopo un lungo silenzio ma senza avere ancora il coraggio di rialzare lo sguardo. << Akuma. A migliaia. Vuole conquistare non solo Edo, ma l’intero Giappone, e tu faresti meglio ad informare i tuoi Generali o chi di dovere, Marian, perché se non lo fermiamo farà strage dell’umanità in anticipo sui tempi >> pronunciò, non si sa in che modo, con voce calma e posata.

<< E sarebbe questo il vostro piano per prendere tempo? Tradirlo e attaccarlo dall’interno? >> ribatté Marian, agitato come non l’aveva mai visto. La sigaretta volteggiava insieme alle sue mani, rilasciando un lucore in procinto di spegnersi e i residui di un fumo acre e scuro.

Non riuscì più a stare zitto.

<< E cosa farai, quando morirai? Perché tu morirai, lo sai no? >> chiese al pianista, riprendendo quel po’ di autocontrollo e serietà che suo padre gli aveva insegnato a mantenere anche nei momenti bui.

E questo non solo era un momento buio, sentiva quasi di stare per schiantarsi di sua iniziativa contro un muro.

Approfittando del silenzio generale, continuò: << non è detto che non sia lui ad ucciderti. E se non ti uccide subito, sicuramente ti darà la caccia. Anzi, ti sguinzaglierà dietro gli altri Noah, che se non sbaglio tu chiami “fratelli” >> disse, senza ossequi per Mana, che quella storia la mandava giù come se fosse veleno.

<< Per una volta sono d’accordo con il damerino >> osservò Cross, trovando nell’angolo del tavolo un buon punto per spegnerci la sigaretta fumata solo a metà.

<< Gentilissimo, grazie Marian >> rispose lui ironico, evitando di guardarlo oltre.

La sua attenzione di concentrò su Mana e sulle spalle del Quattordicesimo, ancora muto dinnanzi alle loro questioni.

<< Lo… sappiamo >> esordì poi Mana, parlando probabilmente anche al posto del fratello. << Ma se nessuno farà nulla ci rimetterà l’umanità. Noi dobbiamo… andare avanti >> terminò, voltandosi verso il fratello.

Quello gli tese una mano, invitandolo con quel gesto a sedersi accanto a lui sullo sgabello davanti al piano. Mana accettò, abituato ormai a vedere quelle croci nere sulla fronte dell’altro, mettendoglisi accanto, in silenzio.

<< Me ne occuperò io. Voi non dovrete fare nulla, in tutto questo >> disse poi, trattenendo la mano del fratello nella sua, l’altra ancora posata sulla tastiera.

La domanda più logica fu proprio Cross, a sottoporla:

<< E allora noi due che ci facciamo qui? >>

 

***

L’odore forte del tè caldo gli fece chiudere gli occhi,  e si trovò a respirare quell’aroma come se fosse la prima volta.

Molte volte aveva sentito un odore simile, di frutti di bosco e mirtilli in quel sottofondo amarognolo, soprattutto quando godeva della presenza di amici e belle signore nelle sue più giovanili ore del tè.

<< E’ sicuro di non volerne una tazza? >> chiese Lvellie, per nulla stanco nonostante fossero quasi le due del mattino: << è un Blackcurrant, sarebbe un peccato sprecarlo >>.

<< No, la ringrazio Sovrintendente >> rispose lui: << preferisco l’Earl Grey, se proprio devo bere del tè >> aggiunse, impossibilitato per sua stessa natura a non stuzzicarlo almeno un po’.

Lvellie sorrise ironico, portandosi la tazzina alle labbra ed accavallando le gambe con innata classe. << Tipico degli inglesi >> commentò solamente, traendo dalla tazza una breve sorsata di liquido bruno.

Riappoggiando la porcellana sul tavolinetto, la sua espressione cambiò radicalmente.

Un leone in procinto di braccare la sua preda aveva, forse, uno sguardo meno accanito degli occhi con cui ora Lvellie lo fissava. Non c’era nessun altro nella stanza e, solo per un istante, quello sguardo gli mise inquietudine.

Quell’uomo doveva essere affamato di popolarità, oppure alla ricerca dell’occasione della sua vita.

Se era solamente un fanatico, lui avrebbe messo nei guai molta gente, quella notte.

<< Arriverò subito al punto >> cominciò, dissimulando un interrogatorio in piena regola per una chiacchierata pseudo-amichevole: << come fa a conoscere il nome “Quattordicesimo”? >> chiese, assottigliando gli occhi.

Deglutì. La vecchiaia, tra i pochi altri, aveva il pregio di portare con sé una pazienza quasi santa ed una calma ancora più anomala. << Lo conoscevo >> fu la semplice risposta, breve e concisa.

Lvellie ebbe un fremito, lui un brivido. Gli venne istintivo guardare, fuori dalla finestra, il cielo buio e senza stelle e sperare che orecchie indesiderate non ascoltassero quella conversazione.

<< E come faceva, di grazia? >> chiese dunque l’uomo, senza togliergli di dosso quegli occhi indagatori.

Se non fosse stato attento, sicuramente gli avrebbe sondato anche l’anima, con quello sguardo.

Deglutì inosservato, ritrovando solamente per abilità la voce posata di poco prima: << conosce l’espressione “Eredità del Quattordicesimo”, Sovrintendente? >> chiese, decidendo di fingere un gioco con l’altro, giusto per non far trasparire l’inquietudine che pian piano cominciava di nuovo a stringergli il cuore.

Lvellie si lasciò sfuggire un sorrisetto. << Sì, certamente. Chiunque indaghi sul caso la conosce >> mentì.

E lui se ne accorse. << “Chiunque” non comprende l’Ordine Oscuro, suppongo >> lanciò l’esca, preparandosi a raccogliere i frutti di quella sua indagine dell’ultimo minuto.

Già che lo tradiva, voleva almeno assicurarsi che la persona che stava svendendo al miglior offerente fosse, per lo meno, ancora viva.

Ma Lvellie era più furbo di quel che appariva: << vedo che lei è molto informato, sull’Ordine Oscuro >> disse, prendendo l’esca fra le mani senza tuttavia cadere vittima dell’amo. << Come mai, mi chiedo >> continuò, in attesa.

Avrebbe chiesto perdono dopo, quando sarebbe stato al sicuro in una qualche stanza del vaticano. Ma adesso no, adesso toccava a lui parlare, a lui mettere nei guai qualcuno…

<< Mi dica se l’Ordine ne è al corrente, e io le dirò il perché di una tale domanda >> rilanciò, consapevole che Lvellie avrebbe accettato di sicuro.

Stava conducendo il gioco per finta, e il Sovrintendente glielo lasciava fare. Ormai era suo.

Dalle mura del Vaticano non sarebbe più uscito.

<< No, nessuno di loro lo sa >>  rispose l’uomo, senza riuscire a trattenere un sorrisetto.

Ormai aveva la lama puntata alla gola, e il manico del coltello era tutto per Lvellie.

<< Cross… Marian >> confessò. Ecco, il gioco vero era appena iniziato. << Era esorcista, l’ultima volta che l’ho visto. Se non è morto, probabilmente è ancora uno dei portatori dell’eredità del Quattordicesimo >> rivelò, abbassando il capo in un moto di vergogna.

 

***

 

Cadde un silenzio sgomento, pesante come un macigno, pressante quanto il fumo.

Sia lui che Marian non riuscivano a dire nulla, nemmeno a pensare probabilmente, troppo indecisi se rimanere increduli o ribellarsi, in un qualche modo.

Il Quattordicesimo non diceva più nulla. Con la mano del fratello ancora saldamente nella sua, si limitava a guardarli con un leggero sorriso ad increspargli le labbra, sussurrando una qualche canzoncina, come se il fatto non fosse nemmeno suo.

Al suo fianco, Mana taceva. Probabilmente non aveva il coraggio di aggiungere nulla, dato che il suonatore aveva parlato per entrambi loro; la decisione doveva essere stata presa parecchio tempo prima, i fratelli come unici artefici.

Riprendendosi dallo stupore, fu Cross il primo a parlare.

<< La tua… Volontà? >> chiese, quasi come facesse fatica persino a respirare, o come se lo stupore gli chiudesse i polmoni e lo stomaco.

<< Esatto >> disse il pianista, senza scostare lo sguardo da Cross. << La facoltà di guidare quest’Arca, se così suona meglio >> ironizzò appena.

<< Certo, come se la tua morte suonasse bene, invece! >> sbottò lui, alzandosi dal divano e mandando cortesemente a farsi un giro la sua signorile compostezza.

Cristo, in ventisei anni non aveva mai sentito una cavolata così gigantesca.

A cosa stavano giocando, ai paladini del mondo? C’era una bella da salvare per voler sacrificare la sua vita in quel modo? Oppure era affetto da una sorta di mania ossessivo-compulsiva per i suicidi in grande stile?!

Roba da matti!

Il Quattordicesimo lo guardò, questa volta seriamente. << Devo farlo >> disse, guardandolo dritto negli occhi.

<< Per chi, di grazia? >> rispose lui, sinceramente deciso a sentire almeno una buona ragione uscire da quelle labbra.

<< Per il mondo >> fu la risposta.

<< Il mondo non ti ha chiesto di salvarlo! Nessuno te lo chiede! >> ribatté, insistendo.

Probabilmente il suonatore stava per ribattere, ma Mana lo interruppe. Alzò una mano fra loro, il respiro spezzato, e quando alzò lo sguardo, negli occhi si poteva leggere una sorta di profonda malinconia.

La stretta fra le loro mani divenne più salda. Era come se il suonatore cercasse di infondere forza al fratello, di passare a lui la stessa decisione che lui tanto mostrava, e che quasi sicuramente provava.

Non seppe mai dire se funzionò, o se Mana lo rimpianse.

Ma parlò comunque: << la decisione è già stata presa, e voi non centrate nulla con questa parte del piano. Non concernendovi, discutete inutilmente >> disse, trovando una forza che non sembrava nemmeno possedesse.

Lui non seppe più che rispondere. Si voltò dunque verso l’esorcista, che guardava la parete di fronte a sé come se dovesse farla esplodere solo con la forza del pensiero.

<< Marian, dì qualcosa, per favore. Questa situazione rasenta la follia >>.

Il rosso sorrise di scherno, piegando le labbra in una smorfia strana.

<< Oh no, signorino dell’alta società… >> cominciò poi, voltandosi in sua direzione. Il volto era attraversato da un lampo di rabbia, forse frustrazione, ma non riusciva bene a capire cosa fosse o cosa la causasse. << Tu non hai la minima idea di cosa sia la follia. Questo no… tutto questo non è follia. E’ solamente un’idea balorda. La follia vera arriva dopo >> disse, criptico.

Lo guardò senza capire. << Dopo? >> chiese, sconcertato: << dopo quando, Marian? C’è un “dopo” a seguire di questo… questo… >>

<< Suicidio >> completò il Quattordicesimo per lui. << Sì, mio caro amico. Ci sarà un “dopo” in cui voi sarete i protagonisti. I miei Ereditieri >> completò, lasciando la mano di Mana per alzarsi a sua volta.

Non poté capire cosa passasse per la mente del pianista, né se tutto quello che aveva fin lì programmato di fare fosse la cosa giusta o sbagliata. Tentare non nuoce, dice la gente, ma quando il tentativo si preannuncia come un fallimento, provare può uccidere.

Col senno di poi, non era sicuro di aver mai visto sul volto del suonatore alcuna traccia di umana emozione.

Tanto meno la paura.

 

***

 

Per tutto il racconto, Lvellie non scostò mai lo sguardo da lui. Non una volta.

Sondava i suoi occhi per sapere se mentiva, se inventava. Voleva scoprire ogni cosa, ogni segreto; bramava la verità ma il suo stesso lavoro lo spingeva a non credere mai a nulla.

Si lasciava sfuggire il vero dalle dita a causa di quelle abitudinarie formalità psicologiche.

Ma non questa volta.

Forse con fatica, forse lottando contro se stesso… si vedeva dallo sguardo, da quel leggerissimo ghigno quasi invisibile, che le informazioni che lui aveva appena fornito su quella riunione di tanti anni prima erano penetrate, a fondo, superando le barriere della logica e stuzzicando la curiosità del Sovrintendente.

Oppure, l’unica cosa che in realtà smossero fu solamente la sua superbia.

Doveva fruttare molto, essere meritevole di un’udienza dal Santo Padre per fornire informazioni preziose sul nemico.

Nascose una smorfia sotto le pieghe del cappuccio.

Gli uomini erano talmente concentrati su loro stessi, sul loro egoismo, che non riuscivano a vedere la guerra nascosta dietro quella guerra, il nucleo di tutto.

Il fatto che non fosse un dio buono che combatteva contro un dio malvagio. No. Non era bianco contro nero, luce contro ombra. No.

Non capivano…

Due fazioni che si proclamano servitici dello stesso, medesimo Dio, non lottano in una guerra fra déi.

Quella era una guerra solo degli uomini.

Solamente ora capiva le parole del Quattordicesimo, così come quelle di Marian. Troppo stolti sono gli esseri umani, per vedere l’essenza delle cose. Così come non è l’azione in sé a portare alla follia… ma le conseguenze di quella stessa azione.

Si è eroi in un minuto, ma si diventa folli col tempo.

Si diventa anche codardi, col tempo.

<< Così il Quattordicesimo ha lasciato a voi tre la sua eredità? >> disse Lvellie, interrompendo il filo dei suoi pensieri.

Sospirando piano, annuì con il capo. Non sarebbe bastato un cenno con la testa a soddisfare la curiosità, la fame di informazioni, che dilagava nelle vene del Sovrintendente. Così, cominciò a parlare.

Finì di vendersi.

<< Per poter muovere l’Arca è necessaria un’abilità speciale. Viene chiamata “Qualifica di Suonatore” e, fino ad allora, ne erano in possesso solamente il Quattordicesimo e il Conte del Millennio >> disse.

Gli occhi di Lvellie bruciavano d’impazienza ed il tè, ormai freddo, ancora giaceva all’interno della tazzina di porcellana finissima.

Sospirò di muovo. Coraggio, coraggio. Ancora poco e potrai finire i tuoi giorni crogiolandoti nella tua lussuosa codardia.

<< E’ una canzone, in poche parole >> continuò. << Una melodia che, suonata dal pianoforte all’interno dell’Arca, permette alla stessa di muoversi secondo il volere di chi suona >>.

Lvellie assottigliò gli occhi, pensando. << Anche Cross Marian lo sa? >> chiese l’ufficiale, composto nonostante dentro di lui bruciasse dalla voglia di sapere ancora di più.

<< Sì >> rispose lui.

<< Mh… >> mugugnò Lvellie, sorridendo sornione. << Prego, prosegua pure >> disse poi.

Per un attimo, si trattenne in un silenzio riservato. Alzando poi lo sguardo si soffermò bene sul viso del Sovrintendente, serio. Voleva mettere bene le cose in chiaro.

<< Parlerò, Sovrintendente, ma ad una condizione >> impose, sollevando il dito ossuto della mano destra. << Voglio protezione. Io… voglio morire al sicuro, in un letto, al riparo dagli akuma… e dal Conte del Millennio >> disse, senza potersi evitare alcune pause nella voce tremula.

Era questa la sua follia, la sua conseguenza. Era il suo terrore.

L’uomo rimase silenzioso per qualche istante, annuendo poi con un cenno alla sua richiesta. << D’accordo, avrà quello che vuole. Darò disposizioni perché lei sia ospitato in Vaticano. Ora prosegua >> ordinò.

Se possibile, si fece ancora più piccolo sul divanetto.

<< Una volta… che il Quattordicesimo morì… non so cosa promise a Mana Walker, o cosa sia venuto a sapere Marian. Il mio compito era diverso dai loro. Loro ricevettero qualcosa, qualcosa di concreto, della sua eredità. La canzone utile a guidare l’Arca fu spezzata, divisa fra Mana e Marian: Cross ebbe lo spartito, Walker il segreto del linguaggio con cui era scritto >> ansimò, probabilmente per il peso dei segreti che stava (infine) rivelando.

O forse… per lo sforzo che l’attesa (infinita…) di quel momento aveva comportato.

<< Il linguaggio? >> chiese sorpreso Lvellie, aggrottando appena le sopracciglia.

<< Sì. Lo spartito non era scritto con le note della scala musicale abituale >> disse, chiudendo gli occhi per ricordare meglio: << era un altro alfabeto, forse inventato, ma composto da simboli che non avevano nulla a che fare con nessun linguaggio che mi fosse capitato di vedere, anche solo per sbaglio >> rivelò, prendendo un respiro profondo a fine frase.

Lvellie sembrò assimilare il concetto, riflettendoci sopra al contempo. Come minimo ci avrebbe impiegato mesi, o anni, per cercare di collegare le informazioni appena ricevute con quelle in possesso della Chiesa.

<< Ha detto che il suo compito era diverso >> esordì poi, con l’aria di uno che ha trovato una falla che deve assolutamente sistemare. << Come, di preciso? >> domandò.

<< Io… dovevo prendermi cura di un bambino, per un certo periodo di tempo. Mi fu chiesto di abbandonare il mio status, il nome della mia famiglia, e aprire un orfanotrofio. Mi fu detto che sarebbe arrivato un bambino particolare, e che dovevo prendermene cura finchè non fosse venuto qualcuno a prenderlo. Solo questo >> disse, abbassando gli occhi.

Non era del tutto vero.

Lui quel bambino avrebbe dovuto nasconderlo.

Non permettergli di uscire, di giocare fuori con gli altri ragazzini, nemmeno di mangiare con loro. Doveva essere un fantasma; esserci ma non esserci, trasformarsi in un qualcosa di cui fosse percepibile la presenza ma che non fosse visibile.

Strizzò gli occhi, fermando le lacrime appena prima che sfuggissero al suo controllo.

Quel moccioso era… la sua maledizione.

<< Come si chiamava? >> chiese il Sovrintendente, ormai troppo orgoglioso di se stesso per prestare piena attenzione alla sue reazioni, o al modo in cui la sua voce tremasse.

<< Non aveva cognome. Come la maggior parte dei bambini abbandonati dalla nascita, d’altronde. Seppi solo il suo nome, solo quello… dunque non so, che fine abbia fatto oggi >> lo avvertì, per poi riprendere in un ultimo sforzo: << Allen. Si chiamava Allen >>.

 

 

***

 

Batté agitato il dito sulla scrivania di frassino, scheggiata negli angoli e macchiata di inchiostro in alcuni punti.

Nell’angolo destro, le due candele che usava come unica fonte di luce si stavano consumando rapidamente. La luce era fievole, lo sforzo per la vista notevole, eppure le sue iridi continuavano a scorrere sulle righe di inchiostro appuntate sul foglio che aveva davanti.

<< Provviste. Frutta e verdura, quelle marciscono subito. Carne. Almeno una volta a settimana. Sono, vediamo… circa dieci sterline… >> borbottò a bassa voce, facendo rapidamente scorrere alcune biglie di un pallottoliere vecchio e consunto davanti a lui.

<< Il pesce no, non possiamo permettercelo questa settimana. Magari la prossima. Poi stoffa, cotone poco lavorato, magari. Sì, decisamente… >> borbottò di nuovo, spostando altre biglie.

Osservò lo strumento, annotando sul foglio qualche cifra e facendo un paio di calcoli totali.

Alzò un sopracciglio. Ripeté i calcoli di nuovo.

<< Maledizione… >> sussurrò poi, stanco, appallottolando il foglio e lanciandolo da qualche parte nella stanza spoglia.

Troppi, troppi acquisti per troppi, troppo pochi fondi.

Non aveva rimasto niente. Niente.

Le sete, gli abiti, i gioielli. Il nome della casata. La dignità, l’onore. Lo status.

Aveva venduto tutto, per seguire le parole di un pazzo suicida.

Aveva dato fiducia… a chi? Magari ad un giullare che giocava con la sorte, vedendo illusioni agli stupidi.

E lui era uno stupido colossale.

Prima si crogiolava nella ricchezza e ora, anche se riconosciuto come buono e misericordioso da chi lo additava per strada, doveva pensare a sfamare diciannove bocche (più la sua) con una miseria a disposizione per comprar di che mangiare.

Sbuffò, esausto, portandosi le mani fra i capelli.

Per cosa stava facendo tutto quello? In quale modo si era fatto convincere?

Non se lo ricordava più.

Un rumore sordo alla porta lo fece sobbalzare, facendogli saltare un battito del cuore.

<< Sì? >> chiese, cercando di nascondere l’improvvisa agitazione che lo spavento aveva provocato in lui.

Dall’altra parte del legno scuro e un po’ rovinato, una voce anziana ma gentile arrivò alle sue orecchie: << Direttore? Posso entrare? >> chiese, educata.

Sospirò, riconoscendo il timbro. << Entri pure, Sorella Rosmarie >> disse poi, decisamente più calmo.

Era un idiota, ad avere sempre tutto quel terrore addosso. Un akuma non bussa, no?

Al piccolo “click” della serratura seguì il cigolio dei cardini, mostrando così il volto della donna.

Non era giovane, così come l’altra Sorella che la Chiesa aveva mandato come aiuto all’orfanotrofio. Il viso squadrato dai tratti severi non rivelava nulla del suo reale animo buono e misericordioso, quasi rilucente per quanto fosse candido. Indossava il vestito clericale, lungo e nero, con la cuffia nera e bianca che, per regola, copriva loro capo e collo tranne il viso. Un rosario bianco pendeva sul petto.

Tolse lo sguardo dalla croce, facendo finta di tornare ai conti.

<< Mi dispiace disturbarla a quest’ora >> disse lei, fermandosi a pochi passi dalla porta, ancora aperta sul corridoio buio del piano terra.

<< Non si preoccupi. Ormai ho finito >> ribatté lui, impilando i fogli e accantonandoli con un gesto floscio della mano. << C’è qualche problema? >> chiese poi, alzando gli occhi stanchi su quelli della suora.

Quella sorrise, gentilmente. << Dovrei chiederlo io a lei, Direttore >> disse.

A volte, si diceva, avrebbe tanto voluto sapere la fonte di quella gentilezza quale fosse.

Un sorriso di una qualsiasi delle due Sorelle che si prendevano cura di questi bambini, giorno dopo giorno, era capace di infondere una tranquillità insperata nel suo cuore.

Era quella la Fede?

Lui sospirò, chiudendo gli occhi e massaggiandoseli. << Il solito, Sorella. Il solito… >> rispose, consapevole che la donna avrebbe capito di quale “solito” stava parlando.

Era sempre questione di soldi, no?

Lei non rispose, così lui continuò: << a volte penso che avrei fatto meglio a chiuderlo, questo orfanotrofio. Magari mandare i bambini a Whitechapel, o a East End >> ipotizzò, come faceva tutte le volte che perdeva fiducia nelle sue (già scarse) capacità.

Sorella Rosemarie non disse nulla, limitandosi a sorridere. Dopo aver fatto passare qualche istante di silenzio, si avvicinò di un passo, senza quasi il minimo rumore.

<< Direttore, non importa se per una settimana non possiamo mangiare carne, o pesce, o rammendare i vestiti. Le condizioni di questo posto non sono fatiscenti, e lei si prende cura di noi come può. Anche i bambini lo sanno, e per questo le siamo tutti riconoscenti. Lei da un luogo da poter chiamare “casa” a piccole anime che altrimenti sarebbero per strada a morire di fame, o chissà dove altro in questa città sempre grigia… >> disse.

Parole di conforto e speranza che lui non meritava.

Tenendo la mano a coprire il volto, un ghigno strano gli deformò la bocca.

Già, “riconoscenza”.

Peccato che aveva la riconoscenza delle persone sbagliate, al momento.

Peccato che fosse un imbroglione, e che aiutasse quei bambini solo come scusa per nasconderne un’altra, di piccola anima senza dimora.

Lui non era un benefattore, no…

Lui era un bugiardo.

<< Sì… grazie Sorella, per le sue parole >> disse però, volendo almeno riconoscere lo sforzo della donna per non fargli perdere quella poca speranza a cui si teneva saldamente aggrappato.

Quella sorrise di nuovo, dolce. << Con permesso >> si congedò.

Ma, sulla porta, si fermò di nuovo.

<< Oh, Direttore… >> chiamò, attirando di nuovo l’attenzione dell’uomo: << il piccolino non dorme, questa notte. Potrebbe fargli visita lei? >> chiese cortesemente.

Lui annuì, il gesto lento del capo, come se fosse faticosamente ponderato.

Doveva solo fingere un altro po’…

 

***

 

Secondo piano, terzo corridoio, seconda porta a destra.

Fra arazzi e mezzobusti in marmo bianco, là, nelle profondità del Vaticano, la sua nuova prigione.

Poteva quasi sorridere, alla vista di quelle sete tanto rimpiante. Avrebbe quasi pianto, osservando il fuoco scoppiettare in un camino intagliato in marmo rosa, con una riproduzione fedelissima della Primavera di Botticelli a fare da degno spettatore a quella stanza, semplicemente reale.

Ricchezza. Tutto ciò che aveva lasciato e tutto ciò che voleva ritrovare.

Quale morte migliore, per un codardo?

<< Questa sarà la sua stanza >> esordì Lvellie, che così gentilmente (o così obbligatamente) lo aveva accompagnato fino alla sua nuova cella di velluto pregiato.

Lui non rispose, rimirando l’interno di quella camera. Il letto a baldacchino aveva l’aria del morbido abbraccio della lussuria, accompagnato da un guanciale di avarizia. Sopra di esso si stendeva il velo della codardia, della paura, della vergogna.

Sì… in quella stanza sarebbe stato benissimo.

Voltandosi lentamente, trattenendosi a stento sulle gambe rovinate dall’età e dallo stile di vita decisamente misero degli ultimi anni, rivolse un lieve sorriso al Sovrintendente, anche se somigliante più ad un ghigno stanco.

<< Grazie… >> disse semplicemente, dirigendosi verso il letto.

Si sarebbe steso lì, addormentandosi sicuro per la prima volta in tanti anni, sognando Mana e Marian magari, o forse anche il Quattordicesimo e la sua maledetta ninna nanna.

Aveva tutto il tempo, ora, per pentirsi. Poteva vergognarsi davvero, ora che non doveva più fuggire dalle sue ombre.

Ora che, scappando per l’ultima volta, aveva finalmente smesso di fuggire.

Lvellie rimase ritto sulla porta, quasi sull’attenti nonostante non lo fosse sul serio. E per chi mai, poi?

<< Spero si renda conto… >> aggiunse poi << …che dovrò prendere provvedimenti, alla luce della sua confessione >> aggiunse.

L’uomo si fermò, girando il capo quel tanto che bastava a guardarlo di sbieco. << Chi sono io per fermarla? >> disse poi, tornando a nascondere lo sguardo dalla vista dell’uomo.

L’altro non rispose. << Link >> esordì poi, rivolgendosi al ragazzino biondo che per tutto il tragitto li aveva accompagnati: << dirigiti dal Camerlengo e chiedi un colloquio con Sua Santità il prima possibile. Dovremo parlare dell’Ordine Oscuro. Riferisci che ho in mente di assegnare al Generale Marian una missione… speciale >> disse, dicendo a voce alta tali informazioni solamente per far sì che anche lui, ormai giunto al letto, le sentisse.

Alla parola “generale”, sobbalzò appena.

Era vivo, allora.

Aggrottò lo sopracciglia, chiudendo gli occhi.

Non era il caso di provare rimorso, o pentimento. Aveva preso quella decisione in considerazione del fatto che, oltre al Quattordicesimo, almeno Mana e Cross fossero vivi.

Non gli importava più di ferirli, o di infangarsi l’onore.

Lui non aveva più amici, e di sicuro non aveva nemmeno più un onore a cui fare riferimento o che doveva proteggere.

Marian sarebbe stato nei guai. E così anche Mana, se mai lo avessero trovato. Anche quel bambino… anche lui…

Si portò una mano magra e raggrinzita al volto, ascoltando di quelle voci solamente la breve risposta del ragazzo e i suoi veloci passi riecheggiare, allontanandosi.

<< Per il momento non darò disposizione per cercare il quarto membro, di cui lei non sembra ricordare il nome… >> aggiunse Lvellie, parlandogli sempre dalla porta.

Lo ricordava, il nome. Mana Walker. Ma perché avrebbe dovuto raccontare così tanto?

Era pur sempre un uomo e, anche se seppellito nel fango, aveva rimasto almeno una briciola d’onore insieme ad un frammento infinitesimale di fedeltà.

Aveva svenduto Cross, per Mana avrebbero faticato da soli.

Anche perché Mana… Mana aveva con sé…

<< Il bambino… lo lascerà stare? >> chiese, la voce ridotta ad un sussurro stanco e distrutto.

Un attimo di silenzio, il cuore che riempiva da solo l’inquietante assenza di una risposta.

<< Per ora >> sentenziò poi il Sovrintendente, facendolo sospirare. << Ora mi scusi, ma il lavoro mi attende. E lei si ricordi… >>

<< Lo so >> lo interruppe: << la mia vita appartiene al Vaticano, ora >> concluse.

Una vita senza valore poteva essere svenduta anche al Diavolo; la Chiesa era il minore dei mali.

Il sorriso sul volto di Lvellie poteva essere definito in un solo modo: profondamente soddisfatto da se stesso.

<< Passi una buona notte >> si congedò poi, chiudendosi la porta alle spalle.

<< Oh, di sicuro… >> sussurrò lui a sé stesso: << oltre ogni dubbio, Sovrintendente Lvellie >>.

Quella notte, seppur carica di incubi, sarebbe stata sicuramente la migliore della sua vita.

E, con essa, tutte quelle a venire.

Si stese sul letto, chiuse gli occhi, sospirò… e sorrise.

Dolcemente, quasi malinconicamente.

Sorrise al suo ultimo ricordo, prima dell’oblio…

 

***

 

Salendo le scale, in un concerto di scricchiolii sinistri, arrivò pacatamente all’ultima porta, quella del pianerottolo in alto, che dava sulla piccola mansarda.

Bussò. Attese.

Nessuna risposta, solo un singulto spaventato.

Tenendo la candela in mano, alta vicino al volto, sorrise appena.

<< Allen? >> chiamò, cercando nella voce il tono più dolce che avesse potuto possedere.

Attese, ascoltando.

Un altro singulto, un sospiro, poi qualche piccolo passo e la maniglia che si abbassava, facendo si che la porta si aprisse.

I suoi occhi grandi e limpidi, incastonati in un viso dai lineamenti dolcemente infantili, si illuminarono di una luce particolare quando lo vide. Fra i ciuffi di capelli castani che scendevano disordinati sulla la fronte, l’espressione crucciata di poco prima si sciolse in una palesemente rilassata.

Anche lui non poté far altro che dimenticare i problemi, in quell’istante.

Il bambino sorrise, spostandosi. << Direttore, io… io… >> balbettò il piccolo, lanciandosi subito in scuse infantili e piene di giustificazioni che, alle orecchie di un adulto qualsiasi, sarebbero parse insensate.

Ma non a lui.

Non a lui.

<< Come mai non riesci a dormire, Allen? >> chiese l’uomo, sedendosi sulla brandina cigolante del bambino ed invitandolo a tornare al suo posto, fra le coperte. Il pigiama che ricopriva il piccolo corpo magro era più grande di qualche taglia… probabilmente era uno di quelli donati dai volontari.

Il piccolo, richiudendo la porta, tornò fra le troppo leggere coperte. Qualche spiffero freddo ululava attraverso la finestra, sembrando in tutto e per tutto quello di un fantasma.

La fiammella della candela, ancora fra le sue mani, ondeggiò appena.

Dopo un attimo di confusione, o di soggezione, il bambino trovò il coraggio di dare una risposta.

<< Ho paura. Arriva l’uomo nero, se c’è il buio >> disse, chiudendo gli occhi come se dovesse comparire da un momento all’altro.

L’uomo sorrise malinconico, cercando però di sembrare solo piacevolmente divertito.

<< Allen, tranquillo. Non esiste l’uomo nero >> gli disse.

Mentì.

Avrebbe avuto tempo, quel piccolino, per stringere la mano all’Uomo Nero.

Anzi, avrebbe scoperto che non ne esiste solo uno e che a lui, a lui, non serve nascondersi sotto al letto, o nell’armadio, o nel buio.

Compariva dalle ombre, e nelle ombre scompariva.

Ma erano altre le ombre che lo avrebbero attratto. Ombre che un bambino, pervaso da quell’innocenza infantile, non poteva ancora covare.

Sono le ombre del cuore, che attirano l’uomo nero.

Il piccolo riaprì gli occhi, guardandolo come se tutte le sue speranze uscissero dalle labbra dell’uomo che aveva di fronte. << Davvero? >> chiese. << Davvero davvero? >> rincarò la dose.

Sospirò.

E, per la prima volta da tanto tempo, sorrise davvero.

Non sapeva quanto mancava, prima che Allen se ne andasse. Prima che il patto fosse rispettato.

Ma il sorriso di quel ambino innocente, che del mondo e di strane promesse non sapeva nulla, era l’unica cosa capace di fargli cambiare idea e pensare che sì, forse stava facendo la cosa giusta.

Forse valeva davvero la pena proteggerlo, quel piccolo, ingenuo sorriso.

Marchiato a fuoco nella sua mente, quel piccolino sarebbe stato il suo più bel ricordo.

Appoggiando la candela sul comodino, portò poi la mano libera alla testa del bambino.

<< Oltre ogni dubbio >>.

 

Scusami, Allen.

Ho mentito di nuovo.

 

 

~ Owari

   
 
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