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Autore: atlanta_94    30/09/2016    0 recensioni
Ma come la mettiamo con questa questione dell'identità? E se uno si sceglie una sua etichetta, un posto fisso nella tribuna della vita e poi, e poi improvvisamente non gli va più bene?
Come la mettiamo con questa cosa, questa questione dell'identità, di nuovo,?
O se gli va bene, ma insomma, non proprio così del tutto? E se uno si sentisse strappato, stracciato in mille pezzetti, appartenente a così tante categorie, così tante etichette, da poter presentare richiesta di averne una tutta sua?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E come la mettiamo con quella questione dell'identità? 
Si dice così, non è vero? Cresci, creati la tua identità, trova te stesso, creati, ancora.
Solo io sento un perentorio: trova un cartellino tra questi, uno che ti sembra adatto, appiccicatelo in fronte e arrivederci a tutti.,? Come a dire, dai, su, archiviamo questa questione di chi sei, questa crisi introspettiva da poeta maledetto, dedichiamoci il minor tempo possibile, troviamo una collocazione a questa sensazione di diversità, che tanto per tutti c'è una definizione e poi torniamo ad occuparci di cose importanti.
Che poi quali sarebbero queste cose importanti, boh, lo sanno solo loro. Ma Loro chi?
Va beh, forse stiamo divagando. Ma come la mettiamo con questa questione dell'identità? E se uno si sceglie una sua etichetta, un posto fisso nella tribuna della vita e poi, e poi improvvisamente non gli va più bene?
Come la mettiamo con questa cosa, questa questione dell'identità, di nuovo,? 
O se gli va bene, ma insomma, non proprio così del tutto? E se uno si sentisse strappato, stracciato in mille pezzetti, appartenente a così tante categorie, così tante etichette, da poter presentare richiesta di averne una tutta sua?
Va bene, vi faccio un esempio: se uno, qualcuno a caso, volesse per esempio fare lo scrittore, poi improvvisamente si rendesse conto di, cazzo guarda che bello il sole negli occhi, l'aria fresca sul viso, la pelle un po' tirata dall'abbronzatura, il cappello di paglia, l'odore della campagna, tornare a casa stanco morto la sera. Se a uno venisse voglia di rispondere a questa chiamata del sudore e della fatica, ma ha già in mano la penna? E quanto è sublime starsene lì, le porte chiuse, un disco che gira, sempre lo stesso, una musica che va diffondendosi, un foglio di carta, una penna, o magari un computer - chiedo perdono per la mancanza di romanticismo malinconico e nostalgico, ma ragazzi, ora i romanzi si scrivono sulle tastiere, lo sapevate? - una tazza di qualcosa di caldo e fumante - c'è sempre qualcosa di caldo e fumante, vicino al computer di uno scrittore - e quella cosa. Quella sensazione di lasciar fluire fuori i pensieri.
Mani delicate, pelle morbida e levigata. 
Non sono mica le mani di un contadino, di uno che lavora la madre terra tutti i giorni, no?
E quelle mani, sempre le stesse, incrostate di fatica, quelle mani, come starebbero su quella tastiera? Quanto mai fuori posto, non credete? 
E pensate un po', abbiamo parlato solo di due, DUE!, di quei pezzetti in cui mi sento strappato. Se per dire quel qualcuno, sempre casuale, volesse un giorno dedicarsi all'avventura, vedere il mondo, scappare di continuo, come ad avere alle calcagna Satana stesso, come farebbe?
Se volesse vedere il mare, poi di nuovo la bellezza straziante della neve, poi parlare un'altra lingua, ché quest'italiano ci ha un po' stancato, no?, poi prendere un aereo, saltare giù con solo un paracadute sulle spalle?
Beh, dove starebbe quel computer? Quelle penne, quel disco, sempre lo stesso, quella tazza di qualsiasi cosa basta che sia caldo e fumante? Ebbene?
Per mettere tutto questo va a finire che lo zaino si fa pesante. La schiena si incurva e con il paracadute non ci si lancia più.
E poi, come lasciare la terra, quella, sempre la stessa, come il disco quasi, per andare a vedere il mondo? L'unico mondo che ti deve interessare è quello che sta nel perimetro del tuo campo, dicono. Dicono loro. Ma Loro chi? 
Sembra noioso, ma ricordi, ricordi il sole negli occhi e la pelle abbronzata, le mani sporche e quella vita, così vera, così reale...ricordi com'era bello?
Eh, sì, quasi come ascoltare quella musica, stare accoccolati in poltrona, accarezzare un gatto - c'è sempre anche un gatto, accanto al computer, alla tazza e al disco preferito di uno scrittore - e lasciar fluire fuori tutto quanto. Liberatorio.
Come quella libertà di correre su e giù per il mondo e divertirsi un sacco. 
Insomma, non c'è soluzione a questo dilemma, ma magari la scienza ha qualcosa per noi, noi che ci stiamo interrogando. Come sarebbe bello capirne qualcosa, di scienza, non credete? 
Inventare anche, sarebbe bello, ho sempre pensato di avere delle idee interessanti, ma no, perché tirarle fuori quando è così semplicemente naturale alzarsi ogni giorno con il sole che sorge, lavorare la terra, scrivere un romanzo, vivere di notte - ché è la notte il momento degli artisti, lo sapevate? E' il momento di quelli che poi di certo non devono impastare le loro mani delicate nel terriccio freddamente scottante ogni giorno -, vederla anche quella notte, ogni volta stelle diverse, prospettive diverse, andarci anche su quella Luna così struggentemente pensierosa.
La vedo anche da qui la Luna, seduto nel mio niente. Anche lei mi chiede: "Ma come la mettiamo con quella questione dell'identità?". Io le dico di stare zitta, che proprio lei parla, che cambia sempre faccia, non sa decidersi, destinata com'è a vivere per sempre di luce riflessa. Le dico di tacere ché, nemmeno lei, nel cielo da così tanto tempo, ci ha ancora capito un cazzo. 
   
 
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