Libri > Shadowhunters
Segui la storia  |       
Autore: cristal_93    02/10/2016    4 recensioni
[Alcuni di questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di di Cassandra Clare. La storia è ambientata tra il terzo e il quarto libro di The Mortal Instruments. *Spoiler * da Cronache di Magnus Bane e Le Origini. La protagonista e, più avanti, anche altri personaggi, appartengono a me in qualità di Original Characters; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro]
A Brooklyn, dimora di una delle più grandi concentrazioni di Nascosti del mondo, presto farà la sua comparsa una ragazza proveniente dal lontano Oriente. Il suo nome è Yumi, ed è una strega, figlia di un demone e di un umana, ma è diversa da tutti i suoi simili, e nasconde un grande segreto. Ha viaggiato in lungo e in largo per molto tempo prima di raggiungere la Grande Mela, dove vive l'unica persona in grado di aiutarla. Ma la meta, pur essendo così vicina, in realtà è ancora molto lontana. E Yumi si ritroverà a combattere una dura battaglia, sia contro sè stessa, in cui dovrà scegliere se rivelare il proprio segreto o andare contro i propri principi morali e contro il proprio passato.
Genere: Avventura, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Catarina Loss, Magnus Bane, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
1807, nei pressi di Edo, attuale Tokyo

Era un tardo pomeriggio invernale. Aveva iniziato a nevicare nelle prime ore pomeridiane e non aveva ancora smesso. Il giardino era ormai completamente nascosto sotto una coltre di neve come se fosse stato avvolto da una spessa coperta bianca.
Sora sedeva sugli scalini di pietra che collegavano il giardino all’engawa, e sebbene fosse inverno, invece di essere chiusa dagli shoshi la veranda era aperta come in estate, lasciando la casa esposta come se fosse un'unica entità con il giardino. Sora non se ne curava e lasciava che il vento gli soffiasse nei lunghi capelli rossi.

Gli piaceva il freddo, infatti indossava un semplice kimono di  leggero cotone verde, senza alcun juban sotto; i piedi scalzi poggiavano sui gradini di pietra sotto il limite del tetto spiovente. Sora stava attento a non bagnarsi i piedi, così non avrebbe dovuto sorbirsi la ramanzina della moglie: ogni volta che  entrava in casa con i piedi bagnati, lei lo costringeva ad asciugare ogni singola chiazza umida lasciata sul pavimento di legno.

Forse la donna pensava che così il marito ci avrebbe pensato due volte prima di riprovarci di nuovo, ma purtroppo era un’abitudine a cui Sora non era ancora riuscito a rinunciare, e anche se amava tanto la moglie,
ancora non era diventato capace di sopprimere certe inclinazioni della sua vita passata; per questo accettava le punizioni senza discutere, anche se in seguito si sforzava con tutto sé stesso di farsi piacere quegli stupidi arnesi di legno che ancora gli facevano sanguinare i piedi e che avrebbe volentieri buttato giù da un dirupo ogni volta che li indossava.

Nonostante tutta la sua buona fede, però, i sandali finivano immancabilmente per essere dimenticati da qualche parte in casa, il più delle volte sotto qualche mobile. La moglie però riusciva lo stesso ritrovare i sandali, e allora li prendeva e li rimetteva al loro posto come se nulla fosse, lasciando che fosse il marito a scegliere  se rimetterli o meno; anche se gli faceva rimettere tutto a posto quando sporcava per casa con i piedi inzaccherati, in cuor suo la donna si sentiva in colpa a costringerlo a fargli perdere questo vizio, perché sapeva che non era così che lui preferiva.

Quella di andare in giro scalzo, infatti, non era, come sarebbe sembrato da fuori, un brutto vizio, era molto di più: camminare a piedi scalzi sulla nuda terra faceva sentire Sora in comunione con il mondo; percepire la freschezza dell’erba al mattino, camminare sul letto fangoso di un fiume… tutto ciò gli regalava una meravigliosa senso di libertà. E non sopportava quegli affari di legno che imprigionavano i suoi piedi e lo rendevano sordo a certe sensazioni.

Anche la moglie aveva provato quella sensazione, ma solo il radicato rispetto per i costumi tradizionali le avevano impedito di gettare i sandali nel fuoco e seguire l’inclinazione del marito. Ciononostante, era stata molto felice di averla provata, come ogni volta che lui condivideva il suo mondo con lei; anche se alla fine gli toccava farsi perdonare, niente appagava più Sora dello vedere lo splendido sorriso di sua moglie, per cui avrebbe distrutto la casa e l’avrebbe ricostruita con le sue stesse mani, sasso dopo sasso, a partire dalle fondamenta.

Se però lui si sforzava in tutti i modi di mettere un freno alla propria natura per non dare disagi alla moglie, qualcun altro, invece, non se ne preoccupava minimamente e non si fermava troppo a pensare alle conseguenze. Come in quel momento: il motivo del sorriso di Sora e della sua presenza, nonostante il freddo, su quella veranda, resa umida dai fiocchi di neve che il vento depositava sul legno, non era lo spettacolo della natura che compiva il suo corso: era la piccola figura che c’era in mezzo.

Una bambina di sette anni, vestita solo di uno juban di lana che le arrivava alle ginocchia e le lasciava le gambe nude, saltellava scalza tra i cumuli di neve , inzuppandosi completamente i vestiti e i capelli ma ridendo gioiosa, dimentica del freddo o della lavata di capo che le avrebbe dato la madre prima di metterla in una tinozza di acqua calda e sfregarla fino a farla diventare più simile ad un panda rosso che ad una bambina.

Per amore della moglie, anche Sora cercava di disciplinare quel piccolo terremoto della figlia, ma il più delle volte (o meglio, sempre) finiva per lasciarla libera di seguire le proprie inclinazioni . Mai si sarebbe permesso di chiuderla nella sua stanza per punirla: sapeva che, impedendole di seguire il suo cuore, l’avrebbe solo bloccata, danneggiata irreparabilmente, e crescendo in quel modo non solo non sarebbe mai stata felice, ma sicuramente lo avrebbe odiato e non gli avrebbe mai dato la sua fiducia.

Sora voleva che crescesse felice, che trovasse il proprio posto nel mondo, che si costruisse da sola il percorso che avrebbe intrapreso nella vita invece di percorrere una strada decisa da altri per lei. Avrebbe sempre vegliato su di lei, naturalmente, ma senza essere invadente. La paura però in lui era molta, era una presenza costante nella sua vita che lo accompagnava ogni giorno di pari passo con la gioia che le sue ragazze gli regalavano, una gioia che purtroppo, per quanto potente, non riusciva mai a eclissare completamente l’angoscia che opprimeva il cuore di Sora.

C’era qualcosa di molto più grande e oscuro nel destino della sua bambina, qualcosa che nemmeno sacrificando anima e corpo temeva che sarebbe mai riuscito a eliminare dalla sua vita: il timore che il suo mondo tornasse a bussare alla sua porta e gli portasse via tutto ciò che aveva, tutto ciò che era la sua unica e sola ragione di continuare a vivere o anche solo di esistere, e senza cui sarebbe stato dannato e avrebbe perso sé stesso… di nuovo.

Sora non era un essere umano: era un Nekomata, un demone gatto di classe media appartenente alla razza degli Eidolon, i demoni mutaforma. I demoni, di natura, non hanno un’anima, motivo per cui non sono in grado di provare sentimenti.

Anche Sora era stato così, e se ci ripensava adesso, a distanza di anni, gli sembrava come se la sua vita di prima fosse stata solo un sogno, un lungo e bruttissimo sogno. All’inizio era stato un demone come tutti gli altri, senza un vero nome se non quello della propria razza d’origine. Essendo un demone medio era dotato d’intelligenza quasi umana, ed era in grado di capire il loro linguaggio.
Era giunto nel mondo terrestre sotto le spoglie di un bel giovane uomo, identico in tutto e per tutto ad un essere umano tranne che per gli occhi, dalla pupilla allungata come quella dei gatti, e dalle orecchie a punta.

Non sarebbe certo stato un problema però mascherare queste piccole differenze con un incantesimo: avrebbe celato la sua identità ai  mondani ( tranne che a quei pochi eletti dotati della Vista), agli altri Nascosti e agli Shadowhunters, quei maledetti cacciatori figli dell’arcangelo Raziel che avevano votato la loro vita allo sterminio dei demoni finché anche l’ultimo di loro non fosse ritornato nella dimensione Vuoto e là fosse rimasto confinato per sempre.

I poteri di Sora gli permettevano di assumere la sua vera forma se avesse voluto, ma anche con quelle sembianze era stato certo che non avrebbe avuto difficoltà. Non aveva scelto lui dove finire, una volta attraversato il varco tra le due dimensioni, ma ora non poteva fare a meno di chiedersi se non fosse stato destino, per lui, finire proprio su quelle montagne, in quel bosco sperduto fuori dai confini della capitale Edo.

Chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro: mai avrebbe smesso di ricordare ogni singolo minuto di quei fatidici giorni che avevano cambiato per sempre il corso della sua esistenza.


 
Era stato veramente un idiota. Lui e il suo stupido orgoglio: il fatto di avere forma umana non lo rendeva immune alla luce del sole. E invece, stufo di restare confinato in antri umidi e bui perché era piena estate, era uscito dalla grotta in cui aveva passato la notte… e aveva finito per bruciare quasi completamente.

Agonizzando, si era trascinato di nuovo nella grotta, dove aveva cercato di recuperare le forze, ma si era esposto troppo, e le ferite erano troppo gravi perché potessero guarire immediatamente. Impegnato a cercare di curarsi, aveva concentrato tutte le sue energie sul rimargino delle ferite, anche se così facendo aveva smesso di tenere attivo l’incantesimo di occultamento. In fondo però non c’era motivo di preoccuparsi: era in un bosco sperduto e lontano dalla civiltà umana, quante possibilità c’erano che qualcuno si avventurasse da quelle parti e lo scoprisse?

Più alte di quanto avesse pensato, a quanto pare: il secondo giorno di agonia, mentre cercava di restare lucido ignorando il dolore e al tempo stesso di lenire il bruciore, una figura si affacciò dall’entrata della caverna. Lui però non ci fece caso finché non gli si avvicinò e si chinò su di lui.

La prima cosa che il demone percepì fu un dolce profumo di gelsomino che attirò la sua attenzione tanto da portarlo a sollevarsi per odorarlo da vicino, ma le ferite gli mozzarono il fiato. Invece di cadere di peso sul suolo, però, venne delicatamente sostenuto da due braccia che lo sorressero gentilmente, e solo allora riuscì a vedere in volto il suo salvatore: era una bellissima ragazza orientale, dall’incarnato pallido come la luna, lunghi capelli neri come l’ebano che incorniciavano il viso minuto a forma di cuore, e due splendenti occhi dello stesso colore delle foglie degli alberi , che lo guardavano angosciati.


« Ogenki desu ka [
come stai] ???  » gli chiese, disperata.

Lui strinse gli occhi, ma lei insistette:


« Cosa ti è successo? ».

Pur non essendo completamente in sé, Sora si sentì confuso: perché quell’umana si stava preoccupando per lui? Perché non scappava di fronte alle sue orecchie a punta o ai suoi occhi da gatto? Lui era un demone, perché non lo lasciava al suo destino ? O forse… non aveva capito di trovarsi di fronte ad un mostro. E come avrebbe potuto capirlo, lei, una semplice mondana? Cercò di risponderle, ma non fu in grado di emettere alcun suono. Lei gli passò una mano sulla guancia, ma sotto il fastidio provocato dal contatto con le scottature, al demone piacque il tocco delicato di quella mano piccola e morbida. Fece appena in tempo a stupirsi di sé stesso che lei lo adagiò per terra e corse via.

Il demone fece una smorfia: era stato vicino credere che quell’umana avesse avuto compassione di lui, e invece era scappata, com’era ovvio aspettarsi. Se non fosse stato conciato così male, avrebbe addirittura riso della propria ingenuità. Fu però costretto a ricredersi ben presto: lei tornò qualche ora dopo con una bacinella d’acqua, delle bende e dei sacchetti di stoffa. Imbevette un panno e glielo passò sulle scottature, anche se lui avrebbe preferito scostarla e mandarla via, ma non riuscì a reagire in nessun modo se non con dei gemiti di dolore ogni volta che il panno gli toccò la pelle viva.

Non riuscì a fare niente nemmeno quando quella ragazza lo spogliò senza troppe cerimonie e proseguì il suo lavoro, completamente incurante del corpo nudo di lui, che desiderò avere le forze per poterla uccidere con un’intensità paragonabile solo alla potenza con cui il sole gli aveva bruciato la pelle. Di nuovo, però, non fu in grado di esprimere alcuno dei propri pensieri, e non ebbe altra scelta che arrendersi.


« Gomennasai [
mi dispiace]. Lo so che fa male, ma credimi, sto solo cercando di aiutarti. Permettimi di salvarti, onegai [per favore] » lo supplicò la ragazza.

Lui rise sprezzante dentro di sé: che senso aveva quella domanda se tanto stava facendo di testa sua e l’avrebbe fatto anche se lui fosse stato in grado di reagire?


« Ho portato con me delle erbe che fanno al caso tuo » aggiunse la giovane, ed estrasse delle foglie di aloe da uno dei sacchetti, prese un coltello e prima le privò della parte spinosa, ne incise il centro e spremette il contenuto gelatinoso sulle bruciature, che sfrigolarono quando furono toccate dalla sostanza e diedero segni di miglioramento. La ragazza si stupì dell’immediata efficacia delle sue cure, ma non si lasciò distrarre e medicò tutto il corpo del demone, per poi bendarlo subito dopo.

« Ecco fatto, ora devi solo riposare, e vedrai che presto starai meglio » disse sospirando soddisfatta.

Lui non produsse altra reazione se non uno sguardo vacuo e perplesso a cui lei rispose con un sorriso.


« Tornerò domani a vedere come stai e ti porterò qualcosa da mangiare, va bene? ».

Lui non rispose, e interpretando il suo silenzio come un assenso, lei se ne andò, ma prima gli accarezzò la guancia, si alzò e uscì, con i suoi lunghi capelli che frusciarono alle sue spalle lasciando dietro di sé una scia profumata. Il demone rimase stordito a fissare il punto in cui la donna sparì per un tempo interminabile, allungandosi per cercare ancora quel profumo di gelsomino, ma il dolore lo riportò alla realtà, e si ridestò. Cosa accidenti gli era preso, come aveva potuto farsi incantare così da un’umana?

Sospirò pesantemente e rimase a fissare il soffitto della grotta per tutta la notte, meditando di scovare quell’umana, non appena si fosse ripreso, e ucciderla con le sue stesse mani per averlo umiliato in quel modo. Ben presto però i suoi pensieri presero tutt’altra direzione, e invece che a come uccidere quella donna si soffermarono su dettagli decisamente più insignificant: il modo delicato e gentile con cui lei lo aveva toccato, il suo profumo meraviglioso, quegli occhi che non avevano avuto alcuna paura di lui, la morbidezza della sua mano. Il demone credette di impazzire e finì per agitarsi continuamente da una parte all’altra del suolo per ore; quando poi, il giorno dopo, la ragazza si ripresentò, lui balzò a gattoni e le soffiò contro. Per lo spavento lei fece cadere il cesto che aveva in mano, ma non scappò via. Alzò invece le mani tenendole in bella vista e si avvicinò lentamente.


« Va tutto bene… ti prego, stai calmo » cercò di rassicurarlo, senza mai distogliere lo sguardo dal demone. Lui arretrò , trascinandosi via da lei.

« Non ti farò del male… fidati di me… » continuò a dire la ragazza. Lui strisciò fino a sbattere contro la parete della grotta, e lì lei finalmente riuscì a raggiungerlo.

« Sono qui per aiutarti… non ti farò del male » continuò a ripetere per calmarlo, inginocchiandosi davanti a lui e abbassandosi fino ad essere all’altezza del suo viso.

Si guardarono negli occhi, l’umana e il demone, la foresta dello sguardo di lei nel cielo di quello di lui, per un tempo incredibilmente lungo, finché lei non cercò a tentoni dietro di sé fino a trovare il cestino caduto, da cui prese una coperta che mise sulle spalle dell'uomo. Lui guardò la stoffa che lo copriva , poi l’umana, e senza pensare allungò la mano e le sfiorò il volto.
Lei rimase sorpresa, ma poi gli premette la mano sulla propria guancia e sorrise. Quel sorriso provocò al demone una dolorosa fitta al petto, diversa da qualsiasi altra cosa avesse mai provato in vita sua, più dolorosa persino della luce del sole che gli aveva bruciato la pelle, e allontanò la mano come se si fosse scottato, ritraendosi ancor di più dalla ragazza.

Lei lo guardò confusa, poi però alzò le spalle e gli porse il cestino: dentro cui c’erano delle verdure e della frutta fresca. Lui alternò lo sguardo dal cestino alla giovane senza muovere altri muscoli se non quelli oculari. Lei allora gli mise in mano un pomodoro, ma lui continuò a guardarlo senza fare nient’altro, al che la fanciulla, sospirando, gli spiegò pazientemente che non era avvelenato e che avrebbe potuto mangiarlo senza problemi. Per renderlo più sicuro prese lei stessa il pomodoro e ci diede un morso. Vedendo che però lui non sembrava intenzionato a imitarla, credendo che fosse disgustato all’idea di mangiare qualcosa morso da qualcun altro, gliene mise in mano un altro. Stavolta lui lo guardò con più interesse, poi però lo posò per terra.


« Non hai fame? » chiese la ragazza.

Lui la guardò e scosse la testa, e anche se lei ne fu piuttosto sorpresa, non insistette oltre e rimise il pomodoro nel cestino.


« Come vanno le tue ferite? » .

Lui voltò la testa per non guardarla. Lei però non si lasciò intimorire e gli si avvicinò, spostò la coperta e mise allo scoperto le bende, ignorando deliberatamente i tentavi di lui di impedirle di togliergli anche quelle. Gliele tolse e scoprì che le ferite si erano completamente cicatrizzate, come se fossero state vecchie di giorni. Solo a quel punto la donna sembrò accorgersi delle orecchie a punta e degli occhi dalla pupilla verticale del suo protetto.


« Are? [ma cosa]... » disse sfregandosi gli occhi, ma quando li riaprì e vide che non era cambiato niente, abbassò le mani e guardò l’altro.

« Tu… tu non sei umano, vero? ».

Lui fece una smorfia e scosse la testa, sorridendo. Già si pregustava il gusto della paura che quell’umana avrebbe sicuramente provato nello scoprire la verità… e invece non andò così. Dopo un attimo di perplessità, lei gli si avvicinò.


« Ce l’hai… un nome? » gli chiese, proprio l’ultima reazione che si sarebbe aspettato da lei.

Non sembrava nemmeno spaventata o agitata, solo… intimorita, ma era un sentimento ben lontano dal terrore che il demone si era aspettato di percepire da lei. Tuttavia si rifiutò di nuovo di rispondere, anche se più perché non aveva una vera risposta a quella domanda che per la diffidenza personale. La ragazza lo scrutò, guardando le sue orecchie a punta, i lunghi capelli rossi, e infine i suoi occhi, su cui si soffermò più a lungo. Alla fine gli chiese:


« Ti dispiacerebbe se ti chiamassi… Sora?».

Lui la guardò confuso.


« Non mi piace l’idea di rivolgerti a te senza poterti chiamare con un nome » si affrettò a spiegare lei.

Il viso di lui, malgrado tutto, si illuminò, e di nuovo una strana fitta gli attraversò il petto mozzandogli il fiato e piegangolo in due dal dolore. La ragazza fu pronta a sorreggerlo, e quando il demone si calmò e alzò lo sguardo, si ritrovò a pochi centimetri da quello di lei, così tanto che riuscì a percepirne il respiro sulla pelle; stavolta però non provò alcun istinto di ritrarsi disgustato o di spingerla via. Lei non mollò la presa sulle sue braccia e cercò di sorridergli. A vederla di nuovo sorridere, lui provò di nuovo una fitta tremenda, seguita però anche da uno strano calore che, invece, gli provocò una sensazione molto piacevole. E fu quel calore a muovere le sue labbra e portarlo a pronunciare le prime parole da quando quella ragazza lo aveva trovato:


« Puoi farlo ».

Lei lo guardò confusa.


« Come dici? ».

Lui sorrise e disse:


« Puoi chiamarmi Sora, se ti fa piacere ».

Si stupì da solo delle proprie parole, ma era come se una forza sconosciuta gli avesse fatto uscire quelle parole dalla bocca senza che lui avesse potuto fare niente per fermarle. La giovane sbattè le palpebre, poi sorrise e gli prese la mano.


« Io sono Karin: Hajimemashite [piacere di conoscerti]… Sora ».
 


Si erano rivisti spesso, dopo quel giorno, ed era sempre stata Karin a venire da Sora. Qualche volta, appena ripresosi abbastanza da poter uscire nel cuore della notte, lui si era avventurato nel bosco per scoprire dove vivesse quella ragazza, ma ogni volta era stato sorpreso dall’arrivo dell’alba prima che avesse potuto anche solo individuare la sua presenza. Con il passare dei giorni Sora si fece via via più irrequieto, attendendo con impazienza l’arrivo di Karin come se ne andasse della sua salvezza, e quando lei finalmente appariva, la stretta al petto e quel calore ormai familiari tornavano puntualmente a far visita al demone. Lei gli portò spesso da mangiare, ma ben presto capì che lui non nutriva il minimo interesse per il cibo degli umani.

Iniziò presto a fargli molte domande, più su di lui che sul motivo per il quale si trovasse in quella grotta e in quelle condizioni, cosa da cui all’inizio Sora rimase molto infastidito, tanto che arrivò a ritrarsi da Karin e a guardarla con profondo astio soffiandole contro, al che lei allora si era scusata ed era andata via.

Solo che Sora si era sentito male a vederla allontanarsi così triste, ma più di questo era stato il pensiero di essere lui la causa della sua tristezza a fargli male, e allora aveva cercato di correrle dietro, ma in pieno giorno aveva rischiato di nuovo di morire bruciato svariate volte. Ogni volta, però, Karin era accorsa sentendo le sue urla, e ogni volta si era presa cura di lui senza abbandonarlo.
E Sora ogni volta si era tormentato alla follia a cercare di capire, senza riuscirci, le ragioni del suo comportamento: perché tornava sempre indietro ad aiutarlo nonostante lui la facesse soffrire?

Ci era voluto un po' perché Karin riuscisse a prevalere sulla diffidenza di Sora, ma qualcosa la imparò da sola guardando il demone: aveva capito, ad esempio, il motivo delle scottature sulla sua pelle, ed era stato quasi un sollievo venirlo a sapere, perché significava che non c’era nessun animale pericoloso nelle vicinanze che attentava continuamente alla vita del demone.

Questo però significava anche che lui non avrebbe mai potuto seguirla fuori alla luce del sole, o sarebbe andato incontro a morte sicura. Ciononostante, questo non l’aveva scoraggiata dal venirlo a incontrare ogni giorno, e per i primi tempi smise di fare domande per evitare che lui si arrabbiasse e commettesse qualche azione sconsiderata, limitandosi a controllare lo stato delle sue ferite per poi andare via subito dopo. Era stato lui a riprendere a parlare per primo, dopo molti giorni , e poco a poco erano riusciti a lasciarsi andare e a sostenere delle vere conversazioni degne di questo nome.

Sora scoprì presto che Karin era una persona molto curiosa, e provava uno strano senso di soddisfazione misto a perplessità quando la vedeva pendere letteralmente della sue labbra mentre le parlava del Mondo Invisibile. La cosa strana poi era che, malgrado si fosse sempre sforzato di pescare gli aspetti più crudi e macabri del suo mondo, lei non aveva mai smesso di guardarlo adorante, e non aveva mai ceduto il posto alla paura nemmeno una volta.
Il suo sguardo luminoso aveva reso Sora molto orgoglioso di sé, e allora era andato avanti ancora e ancora, solo per il gusto di vederla così felice e adorante. Aveva più volte cercato di convincere sé stesso che lo faceva solo perché le emozioni positive di quella ragazza erano un banchetto prelibato per lui, ma aveva smesso di crederci molto presto.

Qualche volta lei arrivò a fargli una sorpresa nel cuore della notte, in modo da potergli dare la possibilità di uscire da quella grotta senza rischi e trascinarlo in  una passeggiata nel bosco sotto la luce della luna, portandosi dietro una lanterna. Sora però si era accorto presto che, nonostante ciò, lei non riusciva a vedere molto bene al buio; lui però ci riusciva eccome, e infatti le aveva permesso di appoggiarsi e farsi guidare, così come lui si affidava a lei quando lo curava durante il giorno. Karin aveva accettato con piacere, stringendo la sua mano e mettendo la propria vita nelle sue mani senza esitazioni.

Con il passare del tempo,  Sora cominciò ad accusare qualcosa che non riusciva a spiegarsi, un malessere che non aveva niente di fisico, era più… interiore. Una sensazione di vuoto all’altezza dello sterno, che talvolta gli faceva così male da mozzargli il respiro e lo portava a graffiarsi il petto come una furia pur di attenuarlo in qualche maniera, senza
però nessun risultato. Ben presto aveva capito che si manifestava ogniqualvolta che Karin era coinvolta, sia che lei fosse lì di persona sia che lui la stesse semplicemente pensando, e allora iniziò a temere di essersi lasciato coinvolgere troppo da quell’umana e che questa lo avesse in influenzato irreparabilmente.

Provò allora ad allontanarla in tutti i modi, insultandola, dicendole cose orribili e cacciandola via ogni volta che la vedeva arrivare, ma la sofferenza provata nel vederla rattristarsi contribuì solo ad accrescere il suo dolore. Più soffriva, più diventò intrattabile, finché un giorno non arrivò addirittura a fare del male fisico a Karin colpendola con uno schiaffo.

Solo dopo averla vista a terra Sora sembrò rendersi conto di ciò che aveva appena fatto, e rimase a guardarla pietrificato. Lo sguardo che gli rivolse Karin … sarebbe rimasto impresso a fuoco nella sua memoria. Non era stato uno sguardo ferito, o sofferente, o spaventato, solo deluso. Rimase a fissarlo per un tempo lunghissimo , poi si alzò lentamente, molto lentamente, quasi per sfida, lo guardò un’ultima volta e corsa via.

Sora allora si accasciò al suolo cadendo in ginocchio, fissando con sguardo vacuo il pavimento finché non sentì un dolore allucinante, più forte di qualunque altro avesse mai provato fino a quel momento, straziargli il petto. Crollò a terra e si prese il petto tra le mani, urlando con tutto il fiato che aveva in gola. Rimase disteso sul pavimento della grotta per un tempo infinitamente lungo, e proprio quando iniziava a pensare di trascinarsi fuori per farsi bruciare definitivamente dal sole, un grido squarciò il silenzio e gli gelò il sangue, perché avrebbe riconosciuto quella voce tra mille: era la voce di Karin.

Non perse tempo a riflettere, e senza pensare si gettò addosso la coperta per proteggersi al meglio e uscì alla piena luce del giorno, mettendosi a correre come un forsennato, ignorando il dolore che il sole, malgrado la debole protezione di stoffa che lo copriva, gli infliggeva bruciandogli la pelle. Ma non si fermò, non perse neanche un secondo a porsi domande: voleva trovare Karin, voleva salvarla, nient’altro aveva avuto importanza in quel momento. Non gli importava neanche di morire: prima di consegnare quel guscio di carne alle fiamme che l’avrebbero trasformato in cenere avrebbe salvato Karin , a qualunque costo; dopo avrebbe accolto con gioia la sofferenza del fuoco e sarebbe tornato nel Vuoto senza obiettare… ma non prima di aver salvato quella ragazza umana.

Lei, che era rimasta sempre al suo fianco nonostante lui avesse cercato di allontanarla e si era presa cura di lui pur sapendo di essere di fronte ad un essere malvagio e pur sapendo di rischiare la vita ogni secondo che passavano insieme; lei, che con il suo coraggio, il suo sorriso e le sue cure amorevoli aveva portato un raggio di luce nel mondo buio in cui aveva sempre brancolato; lei, che con la sua purezza e gentilezza aveva fatto scoprire a lui, un essere maledetto, vuoto, anaffettivo…l’amore.
Sì, era proprio questa la risposta a tutte le domande di Sora, quella su cui aveva rimuginato per giorni e giorni e che lo avevano portato ad un passo dalla pazzia: si era follemente innamorato di Karin come non credeva fosse possibile, come mai avrebbe creduto sarebbe stato possibile per un demone.

L’amava, non avrebbe più potuto vivere senza di lei, e se lei fosse morta… non aveva voluto nemmeno pensarci. Perché non sarebbe morta, no: a costo di ridursi ad uno scheletro con brandelli fumanti di carne sulle ossa prima di riuscire a raggiungerla, l’avrebbe salvata. E glielo avrebbe detto. Le avrebbe detto cosa provava per lei, prima di lasciarla per sempre. Non l’avrebbe fatta soffrire ulteriormente: appena l’avesse salvata, sarebbe uscito per sempre dalla sua vita.

Prese a chiamarla a gran voce, fiutando l’aria alla disperata ricerca del suo odore, e quando finalmente la trovò, raddoppiò i suoi sforzi, per quanto il suo corpo glielo permise. Alla fine riuscì a raggiungerla, ma la gioia fu subito soffocata da una rabbia devastante: Karin era a terra, illesa ma terrorizzata, e davanti a lei c’era un imponente orso bruno piuttosto adirato.

Questi raspò il terreno e le si lanciò contro, ma non arrivò nemmeno a sfiorare la delicata pelle del collo di Karin: in meno di un secondo fu sbalzato via e sbattuto contro un albero. Alzò il muso e si ritrovò sovrastato da Sora, ma il demone era irriconoscibile: l'icore gli colava dalle ustioni su tutto il corpo, il capo era quasi completamente calvo con pochi capelli bruciacchiati, il volto infossato e arrossato, le orecchie allungate e appuntite più del normale, e gli occhi… le pupille erano completamente dilatate. Gli crebbero gli artigli, dalla bocca spuntatono affilati e sporgenti denti da gatto, che Sora tenne serrati e attraverso cui ringhiò verso l’animale. Niente del suo aspetto avrebbe potuto far pensare a quel giovane che solo pochi minuti era sembrato un essere umano malaticcio e bisognoso di cure, mentre lì, davanti a quella bestia, era solo quello che era veramente: un mostro.

Karin lo guardò allibita, ma non mosse un muscolo, né cercò di chiamarlo. L’orso si rialzò, ringhiò verso Sora e lo attaccò. Sora si acquattò e con un balzo si portò alle sue spalle: non appena l’orso si voltò, gli saltò addosso sbattendolo contro il suolo e gli affondò le zanne nel collo, stritolandolo senza pietà, mentre il povero animale si dibattè come un ossesso, artigliando alla cieca il suo avversario. Lui non mollò la presa , strinse ancora e ancora, sempre più. Il sangue colò a fiotti dalla ferita, ma Sora non si fermò nemmeno quando arrivò a spezzargli le ossa e l’orso smise di lottare: preso da una furia cieca, il demone lo scaraventò di nuovo contro un albero e si accanì su di lui artigliandolo senza riuscire a smettere.


« Sora, BASTA! ».

L’urlo di Karin gli attraversò la mente e lo bloccò, fermandolo dal proseguire oltre con quella carneficina, ma fu niente rispetto a quando sentì le braccia della ragazza cingerlo da dietro e abbracciarlo forte. Come in trance, si voltò nell’abbraccio fino a essere completamente di fronte a lei. Era più alto di qualche centimetro, per questo dovette abbassare lo sguardo, ma quando lo fece si sentì morire: Karin piangeva, e tremava tutta.


« Basta… smettila, ti prego… » lo supplicò tra le lacrime.

Lui la guardò come se non credesse ai propri occhi, come se lei fosse morta e ora stesse guardando un fantasma. Allungò la mano, ancora munita di artigli e sporca di sangue, e gliela passò sulla guancia, sporcandogliela di rosso.


« Ka… rin… » mormorò, prima che un fiotto di icore gli colasse dalle labbra e lo facesse collassare tra le braccia della giovane.

« NO! » urlò lei in preda alla disperazione.

Lo sollevò con sforzo e lo trascinò all’ombra di un albero, al riparo dalla luce del sole, dove lo sdraiò, gli tolse la coperta ormai inservibile e gli prese il viso tra le mani.


« Sora… Sora, guardami. Guardami, apri gli occhi, per favore! ».

A fatica, il demone obbedì, con un immenso sollievo da parte della ragazza che non aveva nulla a che fare con le sue pupille tornate alla normalità ma solo con la gioia di vederlo aprire gli occhi e guardarla.

« Karin… » mormorò flebilmente.

« Sono qui, sono qui! » ripetè con ansia prendendogli la mano tra le proprie.

Il demone produsse un debole sorriso.


« Stai… bene? ».

« Io sì, ma tu… tu… » disse, ricominciando a piangere. « Tu… perché l’hai fatto? Perché sei uscito, perché mi sei corso dietro rischiando di morire?! » .

Le lacrime le scivolarono lungo le guance e bagnarono la mano di Sora.


« Io… » rispose debolmente lui. « Io… non potevo lasciarti andare via… così… ».

Karin smise di piangere e sbattè le palpebre, poi però scosse la testa.


« Certo, immagino che volessi farla finita e uccidermi una volta per tutte… almeno così saresti stato pienamente certo che io non ti-»

« NO! » urlò Sora, ma tossì e sputò icore.

Karin cercò di alzarsi per andare a cercare aiuto, ma lui non la lasciò.


« No… non andare via, ti prego… » la supplicò.

Lei lo guardò tristemente, come chi ha sofferto così tanto che ormai ha perso ogni speranza di poter essere felice e non si aspetta  che altra sofferenza.


« Perché? Pensavo fosse quello che volevi » disse senza espressione, ma sentendosi arrabbiata e confusa: per quale motivo Sora si era ridotto in quello stato se fino a poco prima l’aveva insultata e le aveva intimato di non farsi più vedere? Perché, poi, l’aveva fatto? Non sarebbe semplicemente bastato lasciare che l’orso la uccidesse?

« No… io… ho mentito ».

Le parole di Sora la lasciarono senza fiato, tanto da farla risedere a terra e riprendergli la mano.


« Cosa… cosa vuoi dire? » sussurrò.

Passarono alcuni attimi di silenzio prima che Sora si decidesse a riaprire bocca:


« Ti ho… mentito. L'ho fatto perchè tu… tu... sei un essere umano e io un demone… un mostro… quello che ho fatto », e indicò con un cenno del capo i resti dell’orso « avrei potuto farlo anche a te, in qualunque momento… e se fosse successo, io… non me lo sarei perdonato… ».

Karin gli strinse la mano così forte che avrebbe potuto spezzargliela.


« Perché dici questo?... » disse con un filo di voce, di nuovo sull’orlo delle lacrime.

Sora chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e poi la guardò di nuovo, e Karin notò una luce nuova nel suo sguardo, qualcosa che non aveva mai visto prima in lui.


« Perché… mi sono innamorato di te ».

Il silenzio scese come una cappa sul bosco, non si sentì più nemmeno il frusciare delle foglie o i versi degli animali, era come se il tempo fosse stato congelato. E così anche Karin, che spalancò gli occhi e lasciò la presa sulla mano di Sora, rimanendo rigida come una statua.


« Non posso dire… di averti amata dal primo istante in cui ti ho vista: noi non... i demoni non provano sentimenti, noi…ce ne nutriamo e basta. Ma tu… con le tue cure amorevoli, la tua gentilezza, la tua… innocenza… hai fatto nascere qualcosa, in me. Mi hai fatto provare … una sensazione che pensavo non sarei stato in grado di sentire. E… forse però sarebbe presuntuoso dire che posso capire cosa sia… perché in realtà non lo comprendo ancora del tutto ».

Si interruppe per un colpo di tosse che gli fece sputare altro icore, ma riprese a parlare subito:


« Non posso dire di poterlo comprendere perché non l’ho mai provato prima, e… mi sono sempre chiesto perché voi umani sprechiate la vostra vita rincorrendo una cosa simile. Però… so solo che quando sono con te… quando ti vedo ridere, o mi sorridi, o mi guardi divertita, o mi prendi la mano… io sento come se tutto il resto perdesse importanza. Che non vorrei essere in nessun altro luogo  se non dove sei tu; che vorrei… starti vicino in ogni momento della giornata; che… quando non ci sei, io mi sento tormentato e ti cerco dappertutto; che quando ti vedo sento come… se mi fosse stato tolto un peso dal cuore. E… ogni volta vorrei stringerti a me, respirare il tuo profumo, passare le mani tra i tuoi capelli, e… non lasciarti andare più via. E’… amore, questo? ».

Le lacrime avevano ricominciarono a scendere dalle gote di Karin già da quando Sora le aveva rivelato di amarla, ed erano andate aumentando sempre più mano a mano che aveva continuato a parlare. Tuttavia la ragazza rispose con un debole cenno del capo, e Sora fece una smorfia.


« Devo essermi nutrito troppo di te… mi sono esposto troppo, ti ho permesso di entrarmi dentro. E ora… non posso più fare a meno di te… e questo non va bene… ».

« Perché no, Sora? » disse la ragazza, riuscendo finalmente a spiccar parola.

« Noi ci nutriamo dei vostri sentimenti e delle vostre emozioni, ma al tempo stesso le temiamo perché portano solo alla rovina. Tu… mi hai salvato, ma… mi hai anche rovinato. Io, un demone di classe media, mi sono fatto mettere in trappola da un’umana… ».

Karin strinse forte la mano di Sora.


« E ora mi odi, per questo? Vorresti uccidermi? ».

« Non posso » rispose Sora. « Ormai io… sono come un drogato; e tu sei la mia droga. Continuerai a distruggermi , ma allo stesso tempo mi salverai, non potrò più fare a meno di te. E se tu morissi… ne morirei anch’io. Io ti amo, Karin… ma … non posso sopportare tutto questo, tu… non te lo meriti ».

Inaspettatamente, la ragazza assottigliò lo sguardo.


« Non hai nessun diritto di decidere per me ».

Lo disse con una nota strana dura nella voce, qualcosa che Sora trovò piuttosto fuori posto, in lei. Provò a chiedere spiegazioni, ma lei lo mise a tacere con un gesto della mano.


« Anataga hakuchi [sei un idiota], Sora! Perché non me l’hai detto prima? Perché non hai risolto la questione fin da subito invece di portare avanti quella sceneggiata? Non m’importa se ho sofferto io… ma così facendo hai sofferto anche tu! E ti sei comportato come
un codardo! ».

L’ultima parola la urlò, e per Sora fu come ricevere uno schiaffo in faccia. Ma non rimase impassibile.


« Non potevo dirtelo… non ne avrei avuto il diritto… ».

« E perché no? » disse lei, guardandolo con un’espressione così gelida che Sora si sentì intimorito.

Strinse le mani, e le prima parole che gli salirono alla gola sarebbero dovute essere una domanda,  posta per rimandare ancora il tormento che da giorni gli serrava il petto, quelle parole che non aveva ancora la forza di pronunciare. Poi però si ricordò del modo in cui lei lo aveva chiamato, e capì che era perfettamente inutile cercare di scappare.


« Che speranze potevo avere… che tu mi amassi? » disse infine, sospirando pesantemente.

Karin sciolse la sua espressione fredda, ma Sora non le diede tempo di ribattere.


« Io sono un essere pericoloso. E tu… meriti di più. Meriti qualcuno con cui poter camminare alla luce del sole. Qualcuno con cui tu non debba mai nasconderti da niente e nessuno. Qualcuno che possa regalarti una vita normale… che sia degno di ricevere e ricambiare il tuo amore ».

Karin non rispose, rimase a guardarlo senza dire una parola, ma il cuore iniziò a batterle sempre più freneticamente nel petto. Sora distolse lo sguardo e chiuse gli occhi: tutto sommato si sentiva sollevato nell’averlo detto. Aveva ragione lei, avrebbe dovuto pensarci prima… e forse così avrebbe risparmiato sofferenze a entrambi.


« Non m’importa ».

A quelle parole, Sora spalancò gli occhi e si stupì nel ritrovare quelli della fanciulla di nuovo lucidi di lacrime.


« Non m'importa che tu sia un demone, non m’importa che potresti uccidermi in qualunque momento, non m’importa se, per vederti, dovrò aspettare la sera, o stare rinchiusa dentro una grotta buia. Non m’importa… perché questo sei tu, queste cose fanno parte di te, sono ciò che ti rendono … ciò che sei. Ed è proprio perché sei così che… che… ».

Strinse le mani con forza prima di terminare la frase:


« … che anch’io ti amo. E non c’è niente che cambierei in te neanche se ne avessi la possibilità: tu sei così, e io non mi sognerei mai di obbligarti a cambiare per diventare qualcosa che non sei ».

Sora la guardò con gli occhi spalancati e cercò di tirarsi su, ma ci volle l’aiuto di Karin per riuscirci, e alla fine si ritrovò il suo viso a pochissimi centimetri di distanza.


« L’amore non è solo provare sensazioni soffocanti o godere della compagnia dell’altro: l’amore, quello vero, è dannare sé stessi per l’eternità, è mettersi continuamente alla prova, è andare avanti e affrontare le difficoltà;  se è vero bisogna essere disposti a tutti per viverlo fino in fondo, e niente potrà mai cancellarlo, non importa quanto difficile possa essere, non importa quante volte il cuore verrà ferito o spezzato. Ed io non scapperei per nulla al mondo dai miei problemi, men che meno scapperei da te. Io… non è con le tue parole crudeli che mi feriresti; non è scavandomi nel petto con i denti per mordere il mio cuore pulsante. E’ sparendo dalla mia vita che mi uccideresti; è andando dove io non posso raggiungerti, dove non potrei essere parte della tua vita che mi uccideresti. E io voglio continuare a farne parte, non importa quanto dovrò sacrificare, o cosa dovrò sopportare: io voglio stare insieme a te. E se è il mio amore a darti forza, be', allora te lo darò, ti darò sempre amore… perché hai preso il mio cuore: ti appartiene, ormai, e so che non lo darò mai più a nessun’altro. E… non m’importa se i nostri problemi saranno più gravi di quelli degli altri: a costo di rispedire a mani nude tutti i demoni all’Inferno… o rimandare quei guerrieri angelici di cui mi hai parlato direttamente su in cielo dal loro Signore… non ti libererai di me così facilmente » disse la ragazza, guardandolo con aria di sfida.

Sora si ritrovò senza parole, niente di quello che avrebbe voluto dire era sufficiente per esprimere ciò che provava.


« Karin, io… » le parole furono troncate dalla labbra morbide di Karin sulle sue, e lui, dapprima confuso, ben presto si lasciò andare e rispose a quel bacio.

Il suo cuore incominciò a battere più furiosamente mentre un nuovo calore molto più forte dei precedenti, qualcosa di neanche lontanamente paragonabile a quella potenza oscura che aveva sempre fatto parte del suo essere sin dal principio della propria esistenza, gli invase il petto e si estese per tutto il corpo, bruciandolo. Lui però non se ne accorse, era troppo impegnato a stringere a sé Karin e a baciarla con sempre più trasporto, finché non caddero a terra. Si separarono di malavoglia solo quando ad entrambi venne a mancare l’aria, e Karin lanciò un gridolino di sorpresa.

Il demone si guardò perplesso e ne scoprì presto il perché: non era stata solo un’impressione derivata dalla forza dell’emozione che aveva provato a baciare Karin, il grande calore che aveva sentito prima era stato anche qualcos’altro, qualcosa che lo aveva curato e gli aveva fatto riassumere l’aspetto di sempre come se non fosse mai successo niente. Si passò le mani sulle braccia, tra i capelli, di nuovo fulvi e lunghi, sul viso e soprattutto sulle labbra, di nuovo lisce. Era di nuovo sé stesso.

No, non era più come prima, non più. E non lo sarebbe stato mai. Guardò la ragazza e le sorrise caldamente, poi allungò la mano e le accarezzò la guancia. Lei mise la propria mano sulla sua ed affondò il viso in quella carezza, al che il cuore di Sora si sciolse, e senza pensare l’ attirò a sé, affondò il viso nei suoi capelli e la strinse forte. Lei ricambiò con eguale slancio, aggrappandosi a lui come se stesse per scappare via. Fu lei a interrompere l’abbraccio, ma non si allontanò dalle braccia di Sora e appoggiò la fronte contro la sua. Il demone la guardò negli occhi e poi iniziò a strofinare il viso contro il suo, con lei che rideva e cercava di fermarlo.


« Scusa, mi dispiace » disse Sora, credendo di averla infastidita.

Lei scosse la testa sorridendo e si appoggiò contro il petto del demone, che la strinse forte e posò le labbra sui suoi capelli.


« Non mi hai ancora dato una risposta » disse Karin, alzando gli occhi.

Lui distolse lo sguardo, ma non rimase insicuro troppo a lungo.


« E’ inutile, ormai: anche se cercassi di allontanarti, torneresti sempre indietro... quindi mi arrendo. Congratulazioni, piccola umana: sei riuscita a intrappolarmi » sospirò alzando le braccia.

Karin ridacchio'.


« E così… » disse, poi  « voi demoni sapete cos’è in grado di fare l’amore… ma non lo conoscete? »

« No » disse Sora. « Tu sapresti dire cosa si prova a volare se non sai farlo? ».

La giovane scosse la testa, sorridendo.


« In questo caso, » aggiunse « permettimi di aiutarti a conoscerlo meglio » e lo bacio' di nuovo.



*Angolo autrice:

Salve a tutti. Questa è la mia prima fan fiction a tema Shadowhunters: finora sono stata solo una lettrice assidua, e leggendone così tante alla fine è “nata” una storia anche nella mia mente, e ora finalmente sono riuscita a darle forma. A dire il vero la mia intenzione iniziale era fare un prologo, che fungesse da introduzione alla vera storia, che durasse un solo capitolo, ma mi è venuta fuori così tanta roba che sono stata costretta a dividerlo in più capitoli, quindi vi avverto che la storia principale inizierà a partire del capitolo tre o quattro o già di lì, quindi mi dispiace farvi attendere, ma ci vorrà un po' prima di vedere i nostri Shadowhunters e Nascosti preferiti :-). Avrei voluto proporre prima questa storia, ma avevo paura ( e ce l’ho tuttora) di non riuscire a ricalcare fedelmente i caratteri dei personaggi originali e di rovinarli. Ho deciso lo stesso di provarci, se non riuscirò nel mio intento vi prego di farmelo sapere. Non so con quanta frequenza riuscirò a pubblicare, tra esami, tirocinio e poco tempo, ma spero almeno che il mio lavoro risulti gradito. Intanto grazie a chi è arrivato fin qui, se per favore vorreste lasciare un commento ne sarei più che felice. Mata ne, a presto :-).
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Shadowhunters / Vai alla pagina dell'autore: cristal_93