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Autore: Mychron    02/10/2016    0 recensioni
[Jilocasin]
[Jilocasin]Jilocasin è un drago. Come tutti i draghi, vive in una caverna, servito e riverito da schiavi, a fare da guardia al proprio tesoro. O almeno così appare. Il drago infatti ha una smodata passione per la poesia... ed è qui che il marchese Reginald de la Bète entra in gioco.
La vita di Jilocasin sembra scorrere senza imprevisti, finché... una fanciulla in pericolo non cambierà per sempre la vita del lucertolone poeta.
Originariamente pubblicato su Mangakugan Light.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
​ E il Drago salvò la principessa dal Cavaliere malvagio
 
La grande sala, in cui si svolgeva la competizione tra musici, era affollata. Il Re e la Regina si trovavano in posizione prominente, in fondo, attorniati dagli altri nobili e dal clero. Il principe Enrico sedeva accanto a loro, sulla destra. I cortigiani ed i nobili minori assistevano in piedi dai lati della sala, mentre i cantastorie ed i poeti si esibivano al centro.
Un valletto annunciava con voce squillante i loro nomi, e poi con ostentato orgoglio l’”artista” di turno recitava il componimento preparato appositamente per quell’evento. Generalmente un sonetto dedicato alla Regina, che decantava, non sempre in questo ordine:
-i suoi occhi;
-la sua pelle;
-le sue labbra;
-la sua grazia;
-i suoi capelli.
Jilocasin aspettava in fondo alla fila, ormai certo della sua vittoria. Quella roba melensa non faceva altro che irritare i sovrani, e lui lo sapeva bene! Il Sovrano Guglielmo era geloso della Regina, e tollerava i ruffiani a malapena; la Regina dal canto suo non era stupida e aveva sempre riconosciuto le vere lodi da quelle composte per quell’occasione.
E poi, pensò il poeta, io sono il migliore compositore mai nato. E sono anche umile, perché sono molto più bravo di quanto osi ammettere.
«Padrone, la vedo nervoso…» osservò Ernest. Il servo gli stava accanto, reggendogli la pergamena con il componimento.
Jilocasin sospirò. Il servo sapeva leggergli dentro meglio di quanto potesse egli stesso. «Quest’anno ci sono un paio di compositori che mi preoccupano. Poeti italiani… non avrei mai pensato che questa gara raggiungesse una tale fama.»
«E temete che non riuscirete a vincere anche quest’anno?»
«Pfft. Ma per chi mi hai preso? La mia unica preoccupazione è di non ricevere la solita ovazione della corte. Una vittoria ai voti è così… triste. Accidenti. Ascolta.»
In quel momento un giovane dal naso aquilino, vestito di rosso, aveva cominciato a declamare la propria opera.
 
Tanto gentile e tanto onesta pare,
la donna mia quand’ella altrui saluta,
che’ ogne lingua diven tremando muta,
e li occhi non l’ardiscon di guardare…
 
Ad ogni verso Jilocasin diventava sempre più scuro in volto. Cominciò a mordersi il labbro, e a giocherellare con i bordi del proprio mantello. Ernest lo guardò sorpreso.
«Non vedo niente di speciale in questa poesia… è solo un ammasso di parole di una lingua che nessuno qui capisce.»
Jilocasin si rabbuiò ancora di più. E se la capissero, non ci penserebbero due volte a proclamarlo vincitore.
Finalmente arrivò il suo turno. Il paggio annunciò a gran voce:
«Ed ora, dai monti del sud, figlio del grande Marchese Guillard de la Bète, e nipote dell’altrettanto grande Marchese Rolland de la Bète, e pro-nipote del…»
«Taglia corto.» sibilò Jilocasin, più irritato che mai. Tutti quei nomi per indicare una sola persona, e la sua gloria che veniva spartita da avi che non aveva mai avuto. Ma era un male necessario, e lo sapeva bene.
«…ah, ah. Sì, uhm, dunque…» il paggio sembrava confuso. Dopo interminabili istanti di silenzio, annunciò:
«Il Marchese Reginald de la Bète!»
Jilocasin avanzò con il passo volutamente incerto al centro della sala. Era la sua quinta prima volta davanti ai sovrani. Ogni volta la sfida era cambiare stile, mostrarsi diverso ma comunque il migliore. Imbracciò la piccola arpa che teneva al fianco, e cominciò a cantare, prima piano, e poi sempre più allegramente, il suo breve poema.
 
Negli alti marmorei di un latteo splendore…
 
Il clamore che si levò quando concluse fu assordante. La regina, sorridente, prese tra le mani la corona di alloro destinata al vincitore e si alzò in piedi. Era chiaro chi avesse scelto.
Jilocasin si inginocchiò al suo cospetto, col capo chinato. E la regina stava per posare l’alloro sui suoi corti capelli castani, quando il poeta con un gesto le fermò la mano.
Cori di sdegno si levarono dalla folla di cortigiani, ma la sovrana non si scompose.
«Voi sembrate certamente più indisciplinato di vostro padre, Messer Reginald.» disse la regina Mirabeau con un sorriso. «Anche se nell’aspetto siete identico a lui. Ma ditemi, cosa vi porta a rifiutare l’onore della vittoria?»
Jilocasin si morse la lingua. E si diede dell’imbecille. Ma il suo orgoglio era decisamente troppo forte.
«Io… non merito questa corona. Il vero vincitore di questa sfida, il più meritevole è… com’è che si chiamava?» chiese bisbigliando a Ernest. Il servo rispose piano.
«Ebbene, il vero vincitore di questa sfida dovrebbe essere Messer Durante Alaghieri!»
La regina e i vari cortigiani lo guardarono confusi. Il Re dormiva da un pezzo.
«Ma ha recitato una poesia nella sua lingua, il fiorentino… che per quanto possa essere bella… rimane incomprensibile.» provò a scusarsi la regina.
A vedere ciò, il principe Enrico si sdegnò tantissimo e urlò: «Osi contraddire il giudizio insindacabile della regina? Che ne dici di provare a contraddire un boia?»
Simpatico il ragazzo. Spero che non faccia sul serio. Sei un idiota, Jilocasin. Pensò il Marchese.
La regina sembrò dare poca importanza alle parole del figlio, però era infastidita anche lei.
«La mia decisione rimane tale. Se non vuoi la corona, rimarrà qui fino al prossimo anno. La decisione è tua.»
Smettila di fare la lucertola ritardata. Jilocasin sospirò, a malincuore chinò di nuovo il capo, e ricevette l’incoronazione.
In fondo alla sala, Durante Alaghieri pianse tutte le sue lacrime; e decise che da quel momento si sarebbe dedicato solo alle commedie.
 
Sulla strada del ritorno, Jilocasin continuava a contemplare pensieroso la sua corona d’alloro. Non era facile contemplare qualcosa su un cavallo, ma ciò che faceva era più o meno quello.
Ernest lo seguiva da vicino, a cavallo di un baio stracarico di bagagli. Stavano attraversando i fitti boschi che circondavano il castello, e avrebbero continuato a percorrerli verso sud per altri 15 giorni, fino alla loro destinazione, il Monte Clairet. Avrebbero potuto metterci la metà del tempo, ma dovevano assicurarsi che nessuno li seguisse.
Per ammazzare la noia di quel viaggio, Jilocasin era solito parlare quasi ininterrottamente. Ernest una volta era arrivato a un passo dal prenderlo a sberle, e si era trattenuto a stento. Ma questa volta il poeta non aveva ancora pronunciato una parola dalla loro partenza, ed il servo stava seriamente iniziando a preoccuparsi. Stava per chiedergli se ci fosse qualcosa che non andasse, ma poi un pensiero lo folgorò.
E’ quello che vuole. Vuole che io gli chieda cosa gli passi per la testa, vuole essere consolato. E così passerà i prossimi 15 giorni a sentirsi autorizzato a lamentarsi notte e giorno.
No. Oh no. Io non ci sto. Ha scelto il servo sbagliato da torturare. Può mangiarmi se vuole, ma la possibilità di un viaggio in silenzio non me la toglie nessuno.
Ernest si mise più comodo sul cavallo e prese una lunga boccata d’aria fresca. Si guardò intorno, godendosi il panorama di quegli splendidi boschi.
Jilocasin cominciò a sudare. Si agitò sulla sella. Tossì. Fece finta di estrarsi una spina da un dito. Si schiarì la voce. Esclamò un «Ah!», come se avesse avuto l’idea del secolo. Singhiozzò. Si girò a guardare Ernest. Il servo aveva l’espressione più pacifica sul pianeta.
«Non… devi chiedermi niente, Ernest?»
«No. Non mi pare.»
«Oh. Capisco.»
Il viaggio proseguì in perfetto silenzio per tutto il pomeriggio. Poi arrivò il momento di fare la prima deviazione dal sentiero trafficato.
I due si staccarono dalla strada sterrata, e dopo essersi immersi nel verde più impenetrabile cominciarono a seguire il corso di un fiumiciattolo dal letto quasi prosciugato. A sera, si accamparono sempre sul letto del fiume.
Al mattino, Jilocasin aveva l’umore nero. Senza una parola, si era alzato ed era salito sul cavallo. La sua rabbia si diffondeva nell’aria sotto forma di calore, e il povero Ernest, dopo essersi tolto anche la camicia, cominciò a temere di aver fatto una pessima scelta.
Verso mezzogiorno, il silenzio ed il calore erano diventati insopportabili. Non era colpa solo di Jilocasin, il sole di Giugno non perdonava anche se era mitigato dalle fronde degli alberi. Fatto sta che Ernest decise finalmente di rompere il gelo che aveva attanagliato il cuore del suo padrone.
«Padrone, c’è…»
«Zitto.»
Con sua immensa sorpresa, Jilocasin aveva fermato il cavallo e si era messo in ascolto, chiudendo gli occhi.
«C’è qualcuno. Una persona che corre, e un gruppo a cavallo poco distante. Sembrerebbe una battuta di caccia all’uomo.» Il poeta si voltò verso est, scrutando l’oscurità della selva.
«Potrebbe non avere niente a che vedere con noi, ma dobbiamo controllare. Lega qui i cavalli, io vado a vedere.»
Detto questo, con un balzo agile scese dal cavallo, e si mise a correre in direzione dei rumori che aveva sentito.
Ernest rimase basito. Conoscendo l’udito del suo padrone, i suoni a cui si riferiva potevano essere anche a due ore di viaggio a cavallo… a piedi anche di più. Certo, non poteva rischiare di essere seguito… ma andare addirittura a cercare quella gente!
Con uno sbuffo, il vecchio servo scese dal suo baio. Lasciò i cavalli a dissetarsi nel fiume e si mise comodo. Si accese una pipa, preparò un fuocherello e si mise a cucinare qualcosa di elaborato, giusto per tenersi occupato.
Mai si sarebbe aspettato di veder tornare il suo padrone, la sera, con addosso solo il suo mantello e in braccio una persona priva di sensi.
 
Qualche ora prima, Jilocasin correva in mezzo ai boschi. Il gruppo che aveva individuato si avvicinava alla sua posizione, e grazie a ciò gli bastò un’ora per raggiungere l’oggetto del suo interesse. Quando fu abbastanza vicino da sentire l’odore del cuoio e del metallo dell’armatura dei cavalieri, diventò più cauto e smise di correre.
Si avvicinò silenziosamente al gruppo, una mezza dozzina di cavalieri. Si spostavano a cavallo, ma faticavano ad avanzare a causa del fitto sottobosco. Avevano anche dei cani, segno che erano a caccia, ma la mancanza di servi ed il fatto che fossero armati di tutto punto confermava i sospetti del poeta: stavano cercando qualcuno.
Nonostante i suoi sensi sviluppati, Jilocasin impiegò un po’ di tempo prima di individuare l’oggetto della loro ricerca. Anche la persona che stavano inseguendo infatti si era fatta più cauta, e attraversando un ruscello aveva confuso i segugi dei cavalieri. Ma non Jilocasin, che con uno scatto finale si portò al calcagna dell’inseguito.
E allora la vide.
Una ragazza. Una nobile, a giudicare dai vestiti stracciati ma di buona fattura che portava addosso. Arrancava a fatica tra la vegetazione, stringendo tra le braccia un fagotto, probabilmente contenente tutto quello che le rimaneva. Il volto, pallido, sporco e sudato, recava la più sorda e assoluta disperazione.
E’ al limite. Jilocasin si avvicinò ancora di più, pur continuando a rimanere nascosto dai cespugli di more che infestavano quel tratto di vegetazione. Gli stessi cespugli che avevano graffiato le braccia e le gambe della ragazza in strisce sanguinolente.
La solitudine che vide nei suoi occhi verdi era la sua. La disperazione che le segnava le guance era la sua. L’enorme determinazione che le faceva digrignare i denti era la sua. Rimase a guardarla.
Jilocasin, girati e vattene. Non stanno andando nella tua stessa direzione, per cui non ti riguarda. Lascia gli uomini mortali alle loro barbarie.
Pensava questo. Ma rimaneva a guardare la giovane, che sempre di più andava ad infilarsi in un vicolo cieco, una conca naturale da cui non c’era uscita. Di fronte e ai lati del suo percorso, infatti, si alzava una parete di roccia, ma lei non poteva accorgersene a causa della vegetazione.
Intanto i cavalieri si avvicinavano, e la distanza tra loro si riduceva inesorabilmente.
L’istante in cui la fanciulla si trovò davanti alla parete di roccia, e si rese conto di non avere via di fuga, fu lo stesso in cui i cavalieri spuntarono dalla selva alle sue spalle.
Jilocasin non riusciva ad andarsene. Ma neanche ad agire: era come incantato, ad osservare l’inesorabile scorrere degli eventi. Senza pensare, però, cominciò lentamente a togliersi il mantello, l’indumento a cui teneva di più.
Nella radura intanto era calato il silenzio. La donna piangeva, ma senza singhiozzare, in modo calmo. Un cavaliere, colui che aveva l’aspetto di guidare il gruppo, aveva preso un arco, e lentamente incoccò una freccia.
La fanciulla cadde in ginocchio, e cominciò a recitare, pianissimo, un Pater Noster. Il Cavaliere prese la mira. Il mantello cadde dalle spalle di Jilocasin.
Fu un istante! Quando la freccia colpì il petto della ragazza, lei non gridò, ma un urlo si levò dal bosco. Un urlo che suscitò sorpresa nei cavalieri, e poi terrore quando si trasformò nel ruggito di un drago.
La bestia, apparsa dal nulla, piombò sul gruppo di cavalieri. Con una zampata scaraventò a metri di distanza un cavallo con cavaliere annesso, rompendo ossa e cartilagini, e sprigionando una fontana di sangue. Con un colpo di coda atterrò un altro cavallo, mentre con le fauci azzannò il braccio di un Cavaliere. L’uomo, superato lo shock iniziale, aveva afferrato la propria spada. Il braccio rimase intero perché protetto dall’armatura, per cui il drago semplicemente lo staccò e lo lanciò via. I cavalieri rimanenti, tra cui il leader della spedizione, si diedero alla fuga.
Ma niente sfugge all’ira di un drago. La bestia li raggiunse con pochi, agili balzi, abbattendo tutto ciò che la ostacolava. Fece a pezzi le loro cavalcature, e poi si accanì su loro, mutilando e lacerando. Per quanto si sfogasse, però, si premurò di non ucciderli. L’unico che decapitò con un morso fu il nobile che aveva scagliato la freccia. Poi sputò via la testa, disgustato. La carne umana era davvero una porcheria.
Sfogata la sua rabbia, si diresse a passo dondolante verso il luogo in cui giaceva la giovane. Sorprendentemente respirava ancora. La freccia pareva non aver preso punti vitali, ma il drago poteva sentire chiaramente ogni respiro diventare più simile ad un rantolo.
Per estrarre la freccia però aveva bisogno di dita, non di zampe.  Il drago allora pronunciò l’incantesimo di trasmutazione. In rima, perché era più elegante.
La pelle squamosa del lucertolone cominciò a perdere le sue tonalità di verde brillante. Le ali membranose sparirono risucchiate dalla schiena e le zampe si restrinsero. Le zanne rientrarono nel cranio, e così le piccole corna che decoravano la testa del mostro come una corona.
Perché dev’essere sempre così complicato. Pensò Jilocasin. Non fa così male quando torno normale. Però quando divento umano è uno strazio. Sarà perché devo comprimere tutta la mia magnificenza in un corpo così piccolo. Ah, merda. I miei vestiti.
Trasformato completamente, era rimasto però nudo come un verme. Guardò sconsolato nella direzione in cui giacevano i frammenti dei suoi abiti. Scosse la testa.
Ma che stai pensando? Concentrati. Lei sta morendo. Qual è il modo migliore per estrarre una freccia? Intanto togliamo di mezzo questo affare…
Jilocasin prese tra le mani il fagotto che la ragazza, priva di sensi, continuava a stringere tra le braccia. E fece un balzo quando si rese conto che si trattava di un bambino, piccolissimo, che dormiva.
Con estrema attenzione afferrò il neonato e lo poggiò a terra. Separato dal calore materno, il bimbo si svegliò e cominciò a piagnucolare. Il drago lo ignorò e lentamente cominciò ad estrarre la freccia.
Non era pratico di estrazioni. Il sangue cominciò a colare copiosamente dalla ferita, e quando diede lo strattone finale si rese conto che aveva girato un po’ il dardo, causando una nuova ferita e chissà quanti danni agli organi interni.
Lanciò via l’asticella maledetta e si asciugò il sudore dalla fronte. I draghi non sudavano. Perché gli umani dovevano sudare così tanto?
Ora finalmente posso fare quello che mi riesce meglio. Resisti, giovane creatura.
Il drago appoggiò le labbra sulla ferita e chiuse gli occhi. Mentalmente pronunciò l’incantesimo di guarigione, e dolcemente l’energia fluì da lui nel corpo della ragazza.
Si interruppe appena lei fu fuori pericolo, perché l’energia guaritrice dei draghi era tossica per gli esseri umani: poteva essere usata per guarire qualche ferita, ma alla lunga l’intero organismo ne sarebbe stato avvelenato.
Jilocasin prese la giovane fra le braccia, per poi riappoggiarla a terra subito dopo. Andò a indossare il mantello, poi riprese la ragazza tra le sue braccia e partì a passo svelto verso il luogo in cui aveva lasciato Ernest e i cavalli.
Dopo qualche minuto, tornò alla radura, riappoggiò la fanciulla a terra, si legò il bambino alla schiena con la coperta che lo avvolgeva e riprese il suo carico femminile.
 
Ernest si chinò sulla ragazza, meravigliandosi dello stato penoso in cui si trovava. Alzò il capo e si voltò a guardare il suo padrone, che mirava il fuoco. Aveva il bambino in braccio, che dormiva tranquillo. Mentre trasportava la donna all’accampamento improvvisato, lei si era svegliata e aveva chiesto di allattare il bimbo, che piangeva.
Una volta sazio, il neonato si era addormentato, e così la madre. Ed ora…
«Che farete?» chiese Ernest, piano.
Jilocasin non lo sapeva. La sua mente di drago era antica e ordinata, forgiata da secoli di pacate riflessioni e studi. Di solito. In quel momento era un ammasso informe di idee, doveri, emozioni e offese. Le offese erano contro se’ stesso.
«Sono proprio una stupida lucertola.»
«Non lo è sempre, padrone…»
«NON DARMI RAGIONE!»
«Mi scusi. Però questa nobildonna ha bisogno immediato di cure.»
Il drago sembrò schiarirsi le idee. «La porterò alla montagna, e lì le farò dare tutte le cure di cui ha bisogno.»
Ernest strabuzzò gli occhi. «Non può dire sul serio. Lei sa meglio di chiunque altro che la dimora non può essere nota ad altri… senza contare che quella povera creatura non sopravvivrebbe a un viaggio simile! Figuriamoci con un bambino!»
«Calmati. Non glielo facciamo fare il viaggio.»
Jilocasin continuava a guardare il fuoco, come perso nei suoi pensieri.
Ernest si agitò ancora di più. «Non intenderà… padrone, io soffro di vertigini… e i cavalli?»
«Li lasceremo qui. Ho un allevamento, posso liberarne un paio. E tu sei molto più coraggioso, quando non hai scelta.»
Ernest si lasciò cadere su un masso, sconsolato. «Immagino di sì. Vado a togliere le briglie alle mie bestiole.»
«Perfetto. Partiamo domani mattina all’alba. Dovrai essere tu ad assicurare madre e figlio sulla mia schiena, mi raccomando.»
Per tutta risposta, Ernest sbuffò. Pensava: la vera impresa sarà rassicurare una donna morente a salire sulla schiena di un drago. Chissà che gli passa per la testa, a quello.
 
Il mattino seguente, i timori di Ernest si rivelarono tristemente infondati.
La ragazza non si svegliò. Non era morta, ma per quanto Jilocasin o il servo tentassero di svegliarla, non riuscivano a farle prendere coscienza. La sua pelle aveva assunto il colore della cenere, ed era coperta di sudore freddo. La ferita sul petto si era riaperta, e il sangue le aveva impregnato la veste.
Nell’incertezza del momento, Jilocasin fece l’unica cosa che potesse dargli tempo: scoperta la ferita, prese fiato e la cauterizzò con la piccola fiamma che si materializzò sulla sua lingua.
In tutta fretta, tornò al suo vero aspetto e Ernest gli caricò sulla schiena il corpo esanime di lei. Poi, afferrati i pochi bagagli che non avrebbe mai abbandonato, ed assicurato il bambino sulla schiena, salì anche lui. Per stare comodo usò una delle selle dei cavalli, quella in cuoio, che era morbida e si adattava meglio alla forma irregolare del collo del rettile.
Il servo si strinse più forte che poté alle protuberanze cornee che costellavano la spina dorsale del suo padrone. Chiuse gli occhi, con la ferma intenzione di non riaprirli mai più. Poteva giurare che non c’era mai stato un altro membro della propria famiglia che avesse osato una cosa simile, nonostante fossero secoli che i suoi antenati si avvicendassero intorno a Jilocasin. Cavalcare il padrone sembrava un pensiero così stupido, che non era mai passato per l’anticamera del cervello di Ernest. E poi non aveva più l’età per quel genere di avventu…
Con un paio di balzi poderosi, Jilocasin prese il volo. Aveva intenzione di fare un volo più delicato e lineare possibile, ma non riuscì ad evitare i burrascosi sbalzi del decollo.
«Tutto bene?» sbiascicò quando si fu assestato a mezz’aria. Faceva fatica a parlare con la sua bocca naturale, e aveva paura di non essere udito a causa del frastuono causato dal vento.
«Sì! Stiamo tutti bene!» Ernest l’aveva sentito.
Rassicurato, spalancò le ali per cavalcare una corrente favorevole. Decise di fare il percorso più breve, anche se voleva dire sorvolare una città in pieno giorno, e per giunta  bassa quota. Sperò solo che nessuno stesse guardando in alto, in quel momento.
Il cielo era sereno, e il sole estivo rendeva meno gelido il vento che tuonava intorno al gruppo. A metà mattina il bimbo cominciò a piangere, e continuò fino al burrascoso atterraggio, intorno alle tre del pomeriggio. Il luogo in cui Jilocasin era sceso era una valle che usava abitualmente quando doveva spostarsi, perché era abbastanza nascosta per evitare sguardi indiscreti, e abbastanza vicina al monte da non rinunciare alle comodità di palazzo.
Quando il drago toccò il suolo, non chiuse le ali sulla schiena per non dare fastidio agli occupanti, e cominciò a dirigersi a passo svelto verso la più vicina entrata della sua dimora.
Ernest avrebbe preferito fare a piedi quel tragitto. Il passo del drago era talmente dondolante e irregolare che più volte dovette mandar giù un principio di vomito. Quella era decisamente la peggior giornata di sempre per il povero Mastro di Palazzo.
Il drago si infilò in una grotta, faticando non poco a causa delle ali semiaperte. Per i primi trenta metri, sembrava una cavità naturale come tante altre, ma nel successivo tratto di galleria cominciò a diffondersi nell’aria un piacevole tepore, e un lieve odore di biscotti al forno.
Dopo un paio di deviazioni, la bestia si fermò davanti a un immenso portone di quercia, dai bordi irregolari e mal lavorati. Al centro spiccava un’enorme anello di metallo, di quasi un metro di diametro. Jilocasin lo afferrò con le fauci e diede un poderoso strattone. La porta quasi gli crollò addosso, ma fu abbastanza svelto da evitarla. Quando la tavola di legno cadde al suolo, sollevò un gran polverone, che rese per un momento l’aria fumosa ed irrespirabile.
Accidenti, questo posto ha davvero bisogno di manutenzione.
Quando la polvere si fu un po’ diradata, si lanciò all’interno, per poi fermarsi di colpo.
Era circondato da lance acuminatissime, alcune già gli premevano i lati della gola. Gli montò dentro una rabbia feroce, che sfociò in un possente: «IDIOTI!!!»
La parola riecheggiò per tutta la montagna.
Dall’oscurità si levò una voce sorpresa: «Ah, ma è il padrone!» seguito da una serie di: «Oh, ma dai!», «Così presto?», «Eh sì, è proprio lui.»
I servitori ritirarono le lance e si inchinarono, mortificati. La polvere nel frattempo si era depositata, mostrando chiaramente la dozzina di persone magroline e per niente bellicose che occupavano la stanza. Da essi se ne staccò uno, che aveva gli abiti più colorati degli altri.
«Mi dispiace, padrone. Pensavamo fosse un intruso… lei di solito non usa questa porta…»
«Non è una buona ragione per tenere in stato così terribile questa entrata. D’ora in poi voglio un lavoro di ristrutturazione in tutte le aere meno frequentate! Capito, Carlo?»
Il servo annuì, sconsolato. Il palazzo era scavato all’interno dell’intera montagna… sarebbe stato un lavoro immenso.
«Ah, manda a chiamare una balia, e fa il più presto possibile. Manda inoltre a preparare uno… no, due letti. Ernest e un’ospite hanno bisogno di cure.» Jilocasin lanciò un’occhiata alle proprie spalle. Lo spavento di vedersi attaccare da quei lanceri improvvisati doveva essere stato troppo per Ernest. Il pover’uomo se ne stava riverso in avanti con un filo di bava che gli colava dalla bocca.
«Bleah. Per favore, fate scendere i miei passeggeri. Attenzione alla donna, è gravemente ferita.»
Carlo e gli altri servi si affrettarono a fare come era stato loro ordinato. Tirarono giù la madre e il figlio con tutto il riguardo possibile.  Ernest fu tirato giù con una spinta, e una cameriera gli tirò due sberle. Il servo si riprese con un «Oh!» di sorpresa.
Con una barella, portarono la donna nella stanza degli ospiti, che era poco lontana, seguiti dal drago. Jilocasin poteva muoversi tranquillamente all’interno di ogni parte del castello, perché i soffitti erano tutti più alti di sette metri, e i corridoi più stretti avevano una larghezza di cinque metri. Li seguì dunque fino alla stanza degli ospiti, che però possedeva l’unica porta a dimensione di uomo di tutto il castello nella montagna. Ciò era stato fatto per consentire all’eventuale ospite di sentirsi sempre al sicuro… peccato che quelle stanze fossero sempre rimaste vuote, fin dalla loro creazione.
Il drago quindi aspettò fuori, mentre il cerusico di palazzo entrava insieme alla balia. La donna ne uscì poco dopo, con il piccolo attaccato al seno.
Si avvicinò sorridente al drago.
«E’ un bimbo bellissimo, e anche molto forte. Starà con me fino a quando la mamma non si sentirà meglio. Vero, piccolino?» così dicendo, accarezzò i pochi capelli neri sulla testa dell’infante.
Il drago sospirò.
«Ben detto, Terése. Abbine cura, mi raccomando.»
La balia sorrise ancora, e si allontanò. A un certo punto uscì un servo, e Jilocasin lo bloccò.
«Come sta?»
Il ragazzo sembrava imbarazzato.
«Non saprei, io dovevo solo prendere dell’acqua…»
«Fa lo stesso, vai pure.»
Il grosso lucertolone cominciò a camminare avanti e indietro, facendo un fracasso fastidioso. Fermava ogni servo che usciva, chiedendo informazioni, ma nessuno sapeva dire qualcosa di utile.
A un certo punto uscì Ernest, che era entrato insieme agli altri servi.
«Padrone, il cerusico chiede se puoi fare un po’ meno baccano.»
Jilocasin si stramaledì per averla fatta portare nella stanza degli ospiti. Ma era troppo orgoglioso per chiedere di farla spostare ancora. Gli venne un’idea.
«Ernest, portami dei vestiti.»
Il vecchio servo fece un mezzo sorriso.
«Subito, padrone.» Quando il vecchio fu tornato, Jilocasin si trasmutò. In tutta fretta indossò gli abiti, e poi si precipitò all’interno dell’enorme stanza.  Essendo stata pensata per gli ospiti, era addobbata con ogni comodità e lusso: il pavimento era coperto di tappeti, le pareti di arazzi finemente decorati, e i quattro letti presenti erano a baldacchino. Ma siccome nessuno c’era mai stato, un dito di polvere ricopriva ogni cosa.
Jilocasin ne fu dispiaciuto. Non voleva che una nobildonna si trovasse in un posto del genere. Mandò Ernest a cercare altri servi per pulire quella stanza prima di sera, poi lo congedò.
Infine si avvicinò, piano, al capezzale della ragazza. Guardò con occhi vacui il cerusico, che aveva riaperto la ferita e sembrava che ne stesse estraendo qualcosa. Dopo mezz’ora, con una pinza, ne tirò fuori un pezzetto di metallo.
L’uomo fece una smorfia.
«Frecce. Le odio. Passami il tizzone.» si rivolse al ragazzo alle sue spalle, che aveva portato un bacile di carboni ardenti. Con una tenaglia da fabbro afferrò un grosso pezzo di brace incandescente e l’appoggiò sul petto della donna, ripetendo il gesto fatto da Jilocasin nel bosco.
Il cerusico asciugò con un gesto rapido il sudore che gli copriva la fronte, e si voltò verso il poeta.
«Padrone, se potesse fare qualcosa per lei con la sua magia… questo sarebbe il momento.»
Energia di drago due volte in due giorni… La aiuterebbe subito, ma la sfinirebbe dopo.
Non avendo ottenuto risposta, il cerusico aveva cominciato a pestare un mazzo di erbe, a cui ogni tanto aggiungeva un po’ di idromele. Quando ebbe finito, se ne bevve metà, e il resto lo lasciò sul tavolino accanto al letto.
«Se sopravvive a stanotte, dovrebbe bere questo appena sveglia.» così dicendo, diede istruzioni per fasciarle il petto a due serve e si abbandonò sul letto accanto.
Jilocasin non riusciva a prendere una decisione.
Non si era mai trovato così combattuto in tutta la sua vita. Forse perché non aveva mai dato così tanta importanza alle conseguenze di una sua azione.
E’ ridicolo. Una scelta così semplice. Se non lo faccio, potrebbe morire subito. Se lo faccio, potrebbe entrare nel sonno eterno e non svegliarsi più. E poi?
Dovrei occuparmi io del bambino. MA SCHERZIAMO?! Col cavolo.
Vivi. Andiamo. Sei una nobile, e l’erba cattiva non muore mai.
Avanti.
Il drago cominciò a recitare le parole della guarigione. I servi presenti nella stanza si avvicinarono tutti, perché vedere la magia era sempre qualcosa di raro e straordinario. Le donne sussultarono quando Jilocasin si chinò sul petto della ragazza. Una vecchia mormorò: «L’avevo detto, io.», e scosse il capo con disapprovazione.
Il drago la ignorò, e come il giorno prima compì l’incantesimo ponendo le labbra sulla ferita bruciata. Poteva sembrare sconveniente, ma la bocca era la sede della magia dei draghi, così come le mani erano sede della magia degli uomini.
Si interruppe dopo poco, per limitare i danni, e andò a sedersi su una sedia lì vicino.
Rimase lì tutta la notte.
E quella dopo.
E quella dopo ancora.
   
 
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