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Autore: vincey_strychnine    06/10/2016    1 recensioni
Lui le assomigliava sotto molti aspetti. Anche lui era vuoto, ma ad un certo punto nella sua vita doveva aver riempito gli spazi con rabbia e odio verso tutto, tutti e magari anche verso sé stesso.
(...)
Cercò di nascondere il dolore mentre gli domandava, con tono di scherno, “Perché? Hai paura?”
“No,” disse lui. “Ma tu sì.”
La risposta innescò dentro di lei un fuoco e il dolore della sua stretta d’acciaio si attenuò per un momento. Avrebbe anche potuto strapparle le mani, non le importava. Lei non aveva paura di Cato, non aveva paura di nulla.
A denti stretti quasi sputò le parole, “Invece no.”
Cato e Clove partecipano agli Hunger Games perché per loro è un onore, perché l'hanno scelto. Ma se nella vita sono stati cresciuti ed addestrati per essere macchine letali, come fanno a sapere che non c'é nient'altro, nulla di meglio al di là dell'uccidere?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brutus, Cato, Clove, Lyme, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Clove non pensava molto spesso a Dio.

 

Ma mentre sedeva con le gambe incrociate sotto al suo corpo minuto e i suoi occhi scuri si concentravano sullo schermo davanti a lei che trasmetteva le repliche dell’ultima edizione degli Hunger Games, le venne in mente quell’entità. Questo solo per via della deludente ragazza disidratata che stava sdraiata a faccia in giù, morente sul suolo secco mentre le sue mani sporche tentavano di arraffare l’aria, che pregava questo Dio di salvarla. Per ragioni incomprensibili a Clove le telecamere continuarono a concentrarsi sulla scena patetica finché la già fioca luce negli occhi della ragazza diminuì e lei fu morta.

 

Immagino che il suo Dio non guardi gli Hunger Games. Gli angoli della sua bocca sottile si alzarono in un sorrisetto.

 

Credere in qualcosa di così triviale è una debolezza. Era evidente in ciò che aveva appena visto. Clove non lo capiva; mandare preghiere ciecamente all’orecchio di un’entità che non si è mai dimostrata reale e poi vivere secondo regole che essa potrebbe anche non aver creato. Per un momento non riuscì a pensare alla parola esatta che stava cercando -

 

Fede, le ricordò una vocina.

 

Sì, era di certo questo che aveva portato quella patetica ragazza alla morte. La sua fede.

 

Nel corso della sua vita nessuno le aveva mai predicato quel tipo di cose. Nessuno si era mai seduto con lei per farle accettare un qualche essere superiore. Nessuno le aveva mai suggerito di riempire la sua vita con opere buone e purezza.

Certamente i suoi genitori, con i loro volti di pietra, privi di espressione, non credevano in una tale idiozia. Era un dato di fatto che non conoscesse nessuno nel posto in cui viveva che ci credesse. Probabilmente perché il Distretto Due aveva già un potere maggiore in cui credere ed era Capitol City.

 

Ma tu in cosa credi?

 

La domanda la colse di sprovvista perché, nonostante fosse apparsa nella sua mente, di certo non era stata lei a porla. Lievemente confusa e irritata dal fatto che qualcosa di così irrilevante avesse invaso i suoi pensieri abbandonò rapidamente la domanda.

 

Non aveva bisogno di nulla in cui credere. Lei non era debole.

 

La sua concentrazione si spostò sui suoi imminenti Hunger Games mentre i volti dei partecipanti riaffioravano dai ricordi della cerimonia d’apertura e dalle mietiture dei vari distretti. Che abbiano pure le loro divinità, pensò amaramente. Vediamo se li salverà dai miei coltelli fin troppo reali.

 

No, non aveva assolutamente bisogno di nulla in cui credere. Non la piccola, letale, feroce Clove, la ragazza che aveva abbastanza odio dentro da radere il mondo intero al suolo, nonostante vi avesse vissuto solo per quindici brevi anni. La ragazza che non riusciva a capire nemmeno la sua stessa natura; che era cresciuta con un vuoto così grande che aveva dovuto riempire gli spazi con l’odio per evitare di diventare un guscio vuoto. La ragazza che non ricordava una sola volta in cui fosse dipesa da chiunque tranne che da sé stessa -e perché avrebbe dovuto? Non aveva un Dio. La sua famiglia era esistita solo per darle un cognome. Non aveva amici; nel corso della sua vita aveva avuto alleati.

 

Era nata per questi giochi.

 

Le ci erano voluti quindici anni per prepararsi. Tre giorni prima la sua mano si era alzata con sicurezza quando avevano chiesto una volontaria alla mietitura ed ora era finalmente lì, a Capitol City, al momento seduta su di un soffice divano verde nella sua suite temporanea ed era solo una questione di pochi giorni prima che i giochi iniziassero. Il suo distretto l’aveva generata per uccidere e per questo poteva vincere. Ma la vittoria non era una grossa preoccupazione per lei. Non perché pensava di non riuscirci- ne era più che capace nonostante la sua corporatura minuta; la sua perfetta tecnica con i coltelli l’aveva messa ben più avanti della sua classe e le aveva dato la possibilità di offrirsi come volontaria per i giochi quell’anno nonostante fosse molto giovane per essere un tributo del Distretto Due.

 

Ma ad ogni modo se avesse vinto, dopo non ci sarebbe più stato nulla. Sarebbe tornata a casa, e poi? L’avrebbero trasferita in qualche magnifica villa? Sarebbe stata acclamata dal suo distretto? Avrebbe avuto l’attenzione dei media per un anno intero? La fama e il denaro non significavano nulla per Clove.

 

Ma uccidere sì.

 

Percepire finalmente la soddisfazione di porre fine ad una vita umana la affascinava. Aveva già ucciso degli animali quindi poteva immaginare la sensazione del coltello che lacera la carne o si pianta nello stomaco. Ma l’idea di aggiungere la sensazione, tanto per dire, della ragazza del Sei il cui volto, di solito inebetito, si riempie improvvisamente di paura alla realizzazione del fatto che sta per morire. O magari anche il ragazzino dell’Otto che trascina a terra i suoi arti insanguinati  mentre usa l’ultimo briciolo di energia che riesce a raccogliere per strisciare via da lei… Questi pensieri erano sufficienti ad accelerare il suo respiro per l’emozione incontrollabile e a farle sgranare gli occhi già grandi sul suo viso di bambina- troppo fresco e giovane per abbinarsi alle fantasie oscure che vi sussistevano.

 

In poco più di una settimana sarebbe stata sul piedistallo in qualsiasi fosse stata l’arena, ad aspettare il suono del gong e l’inizio dei giochi. Non avrebbe giocato per vincere.

 

Avrebbe invece giocato perché la sua intera vita era stata finalizzata ad uccidere, poco importava se ne sarebbe uscita morta o viva, perché quando i giochi fossero finiti lo scopo della sua vita sarebbe finito con essi.

  
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