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Autore: Marty Evans    10/10/2016    1 recensioni
Londra Dicembre 1877
I canti di natale risuonano per la capitale inglese, insieme a grida di morte. La neve si tinge di cremisi e giovani donne cominciano a morire.
Questi brutali delitti attirano l'attenzione degli Shadowhunters dell'Istituto, disposti a tutto per fermarli. Ma non tutto il male viene per nuocere, (o quasi) ed una misteriosa ed enigmatica nephilim fa la sua comparsa. In fuga da qualcosa di cui non vuole parlare, si ritroverà involontariamente ad aiutare Jem Carstairs e Will Herondale nelle indagini. Questi omicidi e il mistero che vi sta dietro avranno il potere di creare e di dissolvere legami, di unire e di distruggere perche siamo tutti polvere e ombra e viviamo tutti nell'oscurità
Genere: Angst, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, James Carstairs, Nuovo personaggio, William Herondale
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Clookwork Angel

Prologo

 

 

 

Parigi 15 Dicembre 1877

L’ombra si stava muovendo velocemente, lungo la Senna, come se avesse avuto un demone alle calcagna, trascinando per un braccio una ragazza, in lacrime e tossendo fuliggine. Àristos,le correva al fianco, un’ombra scura nella notte. La ragazza sapeva che doveva sembrare una pazza agli occhi dei Mondani che la vedevano. Il vestito verde, infilato senza crinolina, in fretta e furia, si era strappato durante la fuga, lasciando strati e strati di sottovesti bruciacchiate sotto. La sottogonna era a brandelli, il corpetto era liso dal calore e gli stivali della tenuta, erano quasi consumati. I suoi capelli erano sfuggiti al severo chignon, e venivano scompigliati dal vento. Sapeva di apparire ancora più strana con la sua Eosphoros al fianco. Era raro che una donna portasse un’arma. Se solo i mondani avessero saputo dei pugnali che teneva nascosti nel corsetto e nella gonna del vestito, probabilmente si sarebbero spaventati.  Tenne stretta la mano della sua compagna trascinandola lontano dal ponte, poi giù per un viottolo. I tacchi degli stivaletti di raso della sua compagna battevano sui ciottoli producendo un suono cupo nella notte, insieme ai nitriti dei cavalli, al fragore delle ruote delle carrozze, al vociare degli ubriachi, alle urla che uscivano dalle taverne e dalle bische. Attraversarono il viottolo per arrivare a Les Champs Elisé. Anastasia,questo il nome della ragazza, chiamò una carrozza. Normalmente avrebbe chiesto a Paul, il cocchiere dell’istituto, ma lui era morto insieme a tutti gli altri nell’incendio. Una carrozza di piazza s'arrestò davanti a loro. Il vetturino le scrutò. Anastasia sapeva come dovevano apparire; disordinate e sporche, con i capelli sfuggiti alle forcine nella corsa, che ricadevano scompigliati sulla schiena e i vestiti bruciacchiati e lisi dal calore. L’uomo stava per incitare i cavalli a proseguire, quando Anastasia prese il borsello di monete che portava alla vita e gli offrì due franchi. L’uomo spalancò gli occhi. Probabilmente pensò la Cacciatrice quei due franchi sono più di quanto guadagna in una settimana. Senza aspettare che l’uomo la invitasse, salì nella carrozza e quando anche la sua compagna fu salita ed ebbe chiuso lo sportello, gridò al cocchiere l’indirizzo di suo zio. Quello non se lo fece ripetere due volte e partì al galoppo nella notte.

***

 La villa di suo zio si trovava lontano dai vapori e dai fumi della città, sulla collina di Montmartre, quartiere d’artisti e poeti. Era il quartiere preferito di Anastasia con la gente cortese, i caffè eleganti, i poeti, i suonatori agli angoli delle strade, i ritrattisti ambulanti e gli artisti che passeggiavano per le vie. Il cocchiere aprì loro lo sportello e le due fanciulle scesero davanti a una grande villa in stile neoclassico. Anastasia quasi corse al cancello in ferro battuto, di fronte il quale si era fermata la carrozza. Tirò fuori lo stilo dalla cintura delle armi, disegnò una rapida runa d’apertura sulla serratura.  Il cancello si aprì cigolando verso l’interno. La ragazza si voltò per fare un cenno alla sua compagna e invitarla a seguirla. Superò i giardini di corsa, tenendosi le gonne con entrambe le mani. Giunta a un pesante portone di legno, scosse un pesante batacchio d’ottone per poi gettarsi sulla porta e bussare con impeto, guardandosi intorno con preoccupazione, come se temesse di essere assalita da un momento all’altro, ma non accade nulla, il giardino era immobile e silenzioso. Dopo un tempo che le parve interminabile, finalmente la governante, una mondana di nome Cosette, venne ad aprire e sussultò sorpresa, vedendole.
«Madmoiselle Anastasia... ma cosa...? » chiese stupefatta.
Anastasia non le rispose neppure. La superò e andò verso lo studio di suo zio. Si sedette sul divano di broccato facendo cenno alla compagna di sedersi accanto a lei e chiese alla donna di svegliare il padrone di casa. Lo studio era ampio; c’erano ritratti arcigni alle pareti, i tappeti erano grandi e con elaborati arabeschi acquistati direttamente dall’india. Dalla porta d’entrata si vedeva una portafinestra, con ampie vetrate che davano sui giardini all’inglese e all’italiana, ai lati della porta d’entrata c’erano due copie in marmo di statue greche, il soffitto era affrescato con una riproduzione del trionfo di Bacco e Arianna,  di fianco alla porta finestra c’erano uno scrittoio e una comoda sedia rivestita in velluto rosso, sull’altro lato della stanza  un enorme libreria. Dovunque cadesse l’occhio si vedeva lo stemma di famiglia dei Montrose; un monte in campo nero sormontato da una rosa rossa. A fianco alla libreria era posizionato il divano rosso, foderato con broccato, su cui si erano sedute le due giovani. Madame Cosette accese le stregaluci e i candelabri, ravvivò il fuoco nel camino davanti al divano e andò a chiamare lo zio di Anastasia.
Jean Montrose era un uomo non più nel fiore degli anni, ma ancora forte e abile. Era molto alto e ben piantato, aveva occhi azzurri color cobalto, proprio come quelli di Anastasia, i capelli ormai brizzolati e radi dovevano essere stati arricciati sulla nuca e di un biondo dorato. Il suo viso era sempre aperto, gioviale e cordiale, amava scherzare e ridere, specialmente dopo aver bevuto un paio di bicchieri, ma sapeva essere un buono stratega ed era ancora un ottimo shadowhunter.

«Anastasia!? Bambina mia, che cosa ci fate qui? Come osate piombare a casa mia, nel cuore della notte e senza preavviso?!» chiese l’uomo sorpreso. Anastasia si alzò con impeto dal divano per andare incontro allo zio.

«Mio caro e buonissimo zio, mi scuso, vogliate perdonarmi per la mia maleducazione nei vostri riguardi e per il così breve preavviso con cui sono piombata qui, ma lui mi ha trovata»

Il volto di Jean impallidì e si protese verso la ragazza, per poi sprofondare nella poltrona di fronte al divano. Si passò una mano sulla fronte, togliendosi il berretto da notte e stringendosi nella vestaglia scura.
Poi diede un unico ordine alla nipote: «Raccontami». Lei obbedì con voce atona. Narrò dell’incendio demoniaco che si era propagato nell'istituto un’ora prima. Narrò di come avesse scorto una figura nel fuoco somigliante alla persona da cui fuggiva da cinque anni. Narrò della fuga con Joséphine per le strade di Parigi.

«Devo fuggire» concluse. «Sa dove sono. Se mi nascondo mi troverà. Inoltre, sa che sono qui, verrà a cercarvi e non voglio vi faccia del male zio.»
Lui le sorrise. Amava quella ragazza, molto di più di quanto le avesse fatto capire. Le voleva davvero bene e sperava che chi la minacciava la lasciasse in pace.
«Sei riuscita a sfuggirgli per cinque anni ragazza mia. Sapevamo che alla fine ti avrebbe trovata, ma nessuno di noi si aspettava un gesto tanto avventato da parte sua»
«Non è un gesto avventato zio, è tutto calcolato. È un avvertimento, per me, per dirmi che non sarò mai al sicuro. Sarò sempre braccata, sempre in fuga anche dove i Cacciatori si sentono più al sicuro; nelle loro case, gli istituti. Sono come un coniglio nella sua tana; sa benissimo che il cane e il cacciatore arriveranno da un momento all'altro, ma non può difendersi dalla loro furia. Sa che potrebbero arrivare l'indomani, o quel giorno stesso, o il masse successivo, ma sa che, quando arriveranno, sarà la sua fine perché è indifeso e così lo sono io»
Jean la guardò affranto, gli faceva male sapere che una ragazza così giovane potesse capire certe cose della vita e provasse una paura così folle.
«Dove progetti di andare? In Italia? In Piemonte c'è mio fratello che dirige l'Istituto di Torino. Sarei ben lieto di raccomandare te e la signorina  Bellelys »
«No, non andrò in Italia. È troppo vicina alla Francia e lui potrebbe intuire che sono li»
«Allora dove andrai, cara? Ritornare verso la Svizzera o la Prussia è fuori discussione, anche se lui non se l'aspetterebbe»
«Andrò in Inghilterra. È una terra che mi affascina e ho sempre provato il desiderio di visitarla. Inoltre la prozia Lavinia mi ha lasciato una tenuta nello Yorkshire. Se non mi trovassi bene a Londra potrei trasferirmi là.»

 L'uomo prese un lungo respiro: «Così sia allora. Scriverò ai Branwell del tuo imminente arrivo per la settimana prossima all'istituto di Londra. Partirai tra cinque giorni. Nel frattempo tu e madmoiselle Bellelys sarete mie ospiti.»
«Grazie Zio.» disse la ragazza mentre Jean usciva dalla stanza.



Londra 19 Dicembre 1877


La giovane uscì dall’ufficio del notaio delusa e disperata. E ora come avrebbe fatto? Non poteva pagare le tasse di successione! Era denaro che non aveva! Cento sterline! Cento sterline erano il suo guadagno di un mese e con la crisi economica e il prezzo del pane che aumentava di giorno in giorno… Ma se non le avesse pagate non avrebbe avuto più un posto dove andare. Non aveva un marito, ne un lavoro stabile, aveva solo tre fratellini di cui prendersi cura. Il lavoro come tessitrice non rendeva come aveva pensato quando era arrivata fin lì, con i suoi genitori, dalle campagne dello Yorkshire. Londra non era il paradiso, Londra era l’inferno in terra per i poveri e gli indigenti. Si moriva lavorando, e sì mangiava poco, vivendo nella sporcizia più totale. Quella catapecchia che osava definire casa era stata acquistata a caro prezzo dopo dieci anni di duro lavoro da suo padre, ed ora che era morto, lei doveva pagare per abitarvi. Poco lontano un gruppo di persone stava intonando un canto di natale, ma Jane non aveva voglia di festeggiare, anche perché non ci sarebbe stato nessun felice natale a casa Johnson quell’anno. Pestò con rabbia la nave che era caduta quel mattino, stringendosi nel logoro scialle e sistemandosi una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, affrettandosi a tornare a casa. Un uomo stava camminando a poca distanza da lei. A differenza di Jane Johnson, vestita di stracci, l’uomo sembrava ben vestito; con lucidi stivali di pelle nera ai piedi, un lungo capotto di lana e un elegante capello a cilindro sul capo. Camminava senza fare alcun rumore e si muoveva con leggerezza e grazia. La giovane Jane non ci fece molto caso, troppo presa dai suoi pensieri. L’’uomo le si affiancò, mentre svoltava verso il West End, mantenendo sempre una certa distanza da lei.  Aspettò pazientemente che la ragazza si isolasse sempre di più, imboccando vicoli sempre più stretti per fare la sua mossa. Con una velocità inumana la raggiunse e la fece cadere per terra, sulla neve. Jane urlò, o almeno ci provò, si divincolò, pianse, chiese aiuto, supplicò, ma il suo assassino sembrava muto alle sue preghiere.
«Niente di personale, cara, davvero, è per un fine più grande. Credimi, il tuo sacrificio non sarà vano.» disse con una bella voce l’uomo, parlava con uno strano accento tedesco forse? O Francese? Jane non lo sapeva e non le importava. Voleva solo tornare dai suoi fratelli. Pianse più forte cercando di divincolarsi dalla presa ferrea che l’uomo aveva su di lei.
Per l’uomo quello era solo lavoro, dietro lauto compenso ovvio e per un fine più grande. Non che fosse davvero dedito alla causa, lui era dedito ai soldi, come qualunque sicario. Ancora non capiva perché doveva uccidere la ragazza inchiodata sotto di lui, non era nessuno d’importante. Ma, dopotutto, un buon sicario non faceva mai domande, giusto?  Così fece quello per cui veniva pagato. Un lavoro rapido, pulito ed efficiente; estrasse la daga d’argento e tenendo ferma la ragazza le recise la carotide, imbrattando la candida neve di scuro sangue cremisi.
Poi si alzò, si ripulì le mani con un fazzoletto e ritornò verso le strade sicure e illuminate dai lampioni a gas, mescolandosi alla folla che tornava a casa e lasciandosi dietro un candido tappeto di neve mista a sangue.

Londra due giorni dopo
Era una notte fredda, senza stelle, e il profilo di Londra si stagliava come una cupa e imponente figura contro il cielo oscurato dalla nebbia dovuta al brumoso clima inglese e al fumo che usciva dai camini. Le uniche luci che illuminavano le strade bagnate della capitale inglese, erano le candele nelle abitazioni, i lampioni a gas nelle strade più frequentate e le lanterne nei pub e nei quartieri meno abbienti. Le nuvole scure coprivano il cielo con una cupa coperta grigia, invisibile al buio.  Da queste ultime scendeva delicatamente la gelida, umida, e insistente pioggia che solcava i vetri delle finestre della chiesa in Fleet Street. Le goccioline d’acqua, quando colpivano il vetro ticchettando, rimanevano sospese per un momento, per poi scivolare giù verso la pietra scura dell’istituto. C’era un ragazzo seduto su uno dei davanzali, dietro i vetri coperti di pioggia e si stringeva le ginocchia al petto con aria pensierosa. Il suo violino, giaceva abbandonato a pochi metri da lui, sul davanzale. La fiamma della candela, accanto alle sue gambe, rischiarava fiocamente la stanza. La cera che colava lentamente verso il basso, si era quasi sciolta. La fioca luce che proveniva dal lume proiettava strani giochi di luce, creando ombre sinistre sulla parete dietro di lui. Il giovane sorrise tristemente. Aveva le labbra macchiate di sangue, e gli occhi persi nei ricordi di un passato che cercava disperatamente di dimenticare. Non si era nemmeno accorto della luce sempre più tenue nella stanza, continuava ad osservare immobile la vita di Londra, che scorreva sotto la sua finestra. Gli piaceva guardare la vita della Londra notturna. Lo tranquillizzava sapere che c’erano persone normali che vivevano al sicuro grazie a lui e agli altri Shadowhunters. Studiò la folla sulla strada, dall’altra parte del cortile dell’istituto con curiosità, cercando contemporaneamente un volto conosciuto in quel via vai frenetico di uomini e donne che si affrettavano a raggiungere le proprie abitazioni. I gentiluomini si muovevano svelti, con i loro cilindri, le loro tube ben calate sul capo per proteggersi dalla pioggia, i bastoni da passeggio tintinnavano sul terreno, mentre sostenevano i loro proprietari. Le dame si erano aggrappate al braccio dei compagni e cercavano, inutilmente per altro, in ogni modo di non sciupare o rovinare le costose gonne di satin.  La maggior parte delle dame in strada si era infilata la mantella con il cappuccio o cercava di non allontanarsi dalle zone ben illuminate dalle lanterne e dai lampioni. Contemplando quello spettacolo notturno il ragazzo, tentava di trovare un giovanotto dagli ondulati e ribelli capelli corvini e dagli occhi blu. Con sua grande sorpresa e con un misto di preoccupazione e sollievo, tuttavia, il ragazzo constatò che il giovane gentiluomo in questione non era ancora ritornato verso l’istituto. Il giovine sospirò, non poteva fare a meno di chiedersi con preoccupazione crescente, cosa stesse facendo Will in giro per Londra a quell’ora tarda della sera. Sperava solo che, quell’idiota del suo parabatai avesse il buon senso di non mettersi nei guai. Non avrebbe avuto la forza necessaria, quella notte, per andare a riprenderlo, sopratutto se era andato ad ubriacarsi e giocare d’azzardo in qualche lurida taverna dell’West End, o se era in un bordello a Whitechapel, o peggio, a drogarsi in una fumeria d’oppio. In quel’ultimo caso, non avrebbe risposto delle sue azioni e non lo avrebbe mai perdonato. Continuava ad immaginarsi gli scenari peggiori riguardanti il suo parabatai, perché solo Raziel poteva sapere cosa avrebbe potuto fare Will, visto lo stato in cui era quando se n’era andato. Il ragazzo ripensò al fatto che conosceva Will da molto tempo, e sapeva meglio di chiunque altro cosa potesse fare, quanto potesse essere sciocco e impulsivo, quando era così arrabbiato con il mondo e si sentiva così inutile, come in quel momento. Lui sapeva esattamente qual era lo stato di Will, lo sentiva.  Era il loro legame parabatai a dirglielo; Disperazione, Rabbia, Sconforto, ecco cosa sentiva. Il sentimento dominante in Will era la disperazione, cupa e nera disperazione. Will era disperato, si sentiva inutile, e il giovane sapeva esattamente perché visto che era stato lui a provocare quella rabbia e quella disperazione in Will.
 «Troveremo un modo, una cura; non ti succederà niente Jem», aveva detto Will quella sera. Jem era a letto, appoggiato ai cuscini, con lo sguardo annebbiato, dopo l’ennesimo attacco, ma aveva sentito chiaramente ciò che il suo parabatai, seduto su una sedia accanto al letto, gli aveva detto.
«Troveremo una cura», erano state quelle parole a risvegliarlo dal suo torpore, quella frase e il tono deciso e determinato con cui Will l’aveva pronunciata.
 «Troveremo una cura», quelle odiose parole gli riecheggiarono in mente, ma soprattutto li risuonò chiaro e cristallino il moto di speranza nella voce di Will.
«Non esiste nessuna cura, William. Devi fartene una ragione», gli aveva risposto lui in tono brusco. Erano passati cinque anni, e ancora non c’era una cura, Jem dubitava che ci sarebbe mai stata in realtà. Will al contrario sperava ancora di trovare una cura, nonostante gli anni passati a cercarla inutilmente. Non che il giovane, non  ne avesse cercato una. Nei primi anni del suo soggiorno a Londra aveva tentato di tutto, ma ora aveva accettato la sua condizione e tutto ciò che questo comportava. Non si era arreso alla morte, si era solo arreso al fatto che un giorno sarebbe morto, Avrebbe combattuto. Oh si, avrebbe combattuto per rimanere con la sua dolce sorellina Katie e con Will. Era per queste due persone che combatteva.
Will non era ancora tornato, e il giovane era inquieto, visto che l’aveva praticamente cacciato lui stesso, ma ne era anche contento, almeno Will non lo avrebbe visto in quello stato pietoso, di nuovo. Quella notte, la tosse era stata più dolorosa del previsto, l’aveva scosso da capo a piedi tormentandolo senza tregua. Stava ancora davanti alla finestra, con le braccia incrociate sopra le ginocchia, il mento delicatamente poggiato sopra di esse, guardava il grigio e piovoso paesaggio londinese di fronte a lui. Sedeva immobile, come una statua di marmo, perso nei suoi pensieri. Quando all’improvviso, mosse una mano pallida in avanti, verso la finestra, con le punte delle dita che toccavano delicatamente il vetro, quasi a voler catturare la pioggia londinese all’esterno. Le dita pallide e affusolate proseguirono il loro percorso sul vetro, freddo e umido, tracciando ghirigori immaginari e complicati disegni invisibili. Seguivano le gocce di pioggia che, lentamente, scendevano lungo il profilo della finestra per poi scomparire alla vista. Gli occhi argentei del ragazzo erano persi nel vuoto. Aveva lo sguardo vacuo di chi guardava il paesaggio senza però vederlo veramente.
Il ragazzo accoccolato sul davanzale della finestra, in quella notte fredda e buia, pensò che, Londra stesse piangendo, silenziosa, in quella cupa e piovosa notte per lui e le gocce di pioggia sembravano fissarlo.  Scacciò quel pensiero. Come se avesse avuto bisogno anche della compassione della pioggia! Come se gli altri non lo compatissero già abbastanza! Per sei maledetti anni, e anche in quel momento, si disse amaramente; era stato compatito da tutti. Non c’era una sola persona che lo aveva trattato normalmente. Le persone o lo disprezzavano, come faceva Gabriel Lightwood, o per la maggior parte, lo compativano. Forse lo disprezzavano anche, ma erano troppo codardi e moralisti per dirglielo apertamente. Lo commiseravano tutti, chi più, chi meno, tutti tranne Will e Katy. Già Will e Katy, le persone più importanti della sua vita, il suo parabatai e la sua dolce e adorata sorellina, l’unica persona che gli era sempre rimasta accanto dopo che lui era diventato un relitto vivente, l’unica famiglia che gli era rimasta dopo essere diventato orfano, uno dei motivi che gli davamo la forza di continuare a vivere, non prendere una dose troppo alta della medicina e uccidersi. Già sarebbe stato facile finirla lì, smettere di soffrire in quel momento, ma non poteva. Tutte le volte che questo pensiero gli si formava nella mente gli si sovrapponeva il dolce volto di Katherine, che gli ricordava così tanto quello di sua madre, divorato dal dolore. Katy aveva solo quattordici anni appena compiuti, era a malapena una ragazza! Non aveva nessun’altra al mondo a parte lui. Cosa avrebbe fatto senza di lui? La perdita dei loro genitori l’aveva già segnata, senza di lui come sarebbe finita la sua dolce sorellina? Inoltre, vedendola non poteva non paragonarla alla madre, man a mano che sua sorella sbocciava, lui si rendeva sempre più conto di quanto assomigliasse alla madre. Suo padre era un topo da biblioteca studioso e musicista mentre sua madre era quella bella, forte e pratica. Sua sorella stava diventando come lei sia esteriormente, sembrava la sua copia, sia caratterialmente, possedeva la stessa grinta che aveva permesso a sua madre di aiutare suo marito nella gestione dell’istituto e di allenarlo. Non poteva abbandonarla. Non era giusto. E poi c’era Will... Jem aveva promesso a sé stesso sei anni prima, che lo avrebbe salvato a qualunque costo e da qualunque cosa Will dovesse essere salvato. Will era il suo migliore amico, quello che era come un fratello per lui, quello che lo aiutava, quello che c’era nei momenti più critici, quello che sapeva ogni cosa di lui. Non poteva dimenticare il suo parabatai, il loro legame e il loro giuramento.  Non poteva lasciare le persone che gli volevano bene.  Non poteva lasciare gli unici che, gli avessero mai dimostrato qualcosa oltre alla compassione o al disprezzo per la sua ”condizione”. Naturalmente, anche Charlotte gli aveva dato qualcosa oltre alla pietà. Sarebbe sempre stato grato a Charlotte Branwell, per come l’aveva accolto, e per come aveva trattato lui e sua sorella. Ma, malgrado lei e Henry gli volessero bene, malgrado tutto quello che facevano per lui, malgrado avessero dato una nuova famiglia a Katy, non avrebbero mai potuto sostituire i suoi genitori.  Staccò la mano pallida dal vetro e si sedette più comodamente, diede le spalle alla finestra, poggiò la schiena contro il vetro freddo e umido, afferrò con la mano destra il davanzale per reggersi nel caso avesse rischiato di cadere per colpa di uno spasmo di tosse troppo forte, facendo penzolare le lunghe gambe oltre il davanzale, le punte dei piedi nudi che quasi sfioravano la trapunta rossa del letto. Un altro spasmo di tosse piuttosto violento, scosse il suo corpo ancora provato e febbricitante, dall’attacco di tosse di poche ore prima. James Carstairs, questo era il suo nome, non se ne curò, mentre le sue labbra si tingevano nuovamente di rosso e lui si chinava leggermente per tossire e vomitare il suo stesso sangue. Di solito, avrebbe chiamato il suo parabatai, ma non quella notte, non dopo aver cacciato via Will in modo così brusco. Aveva mandato via Will, a forza, dicendogli la verità che  si rifiutava di ascoltare, perché faceva troppo male. Ma anche, mentendoli di nuovo, dicendogli di stare bene, e presto sarebbe stato meglio. James odiava mentire, sopratutto a Will. Illuderlo di avere una speranza, era l’unico modo per non farlo impazzire. James sapeva che era sbagliato, ma non poteva far altrimenti. Anche se entrambi sapevano perfettamente che non era vero. Entrambi sapevamo che, le precarie condizioni di James non avrebbero fatto altro che peggiorare. La differenza stava nelle loro reazioni a queste due verità. Il primo, James, si era rassegnato, voleva vivere il tempo che gli rimaneva, cercando di non far vedere a Will e a sua sorella quanto fosse prossimo alla fine. Il secondo William, invece non lo accettava, non accettava il corso della malattia del suo parabatai e s’illudeva di poterlo salvare. James fu scosso da un altro spasmo, talmente violento da fargli quasi perdere la presa sul davanzale, ma lui lo ignorò, perché era stanco.
Era stanco di dover nascondere gli attacchi di tosse sempre più frequenti.
Era stanco degli incubi, che lo tormentavano ogni notte da quel disgraziato giorno a Shangai, cinque maledetti anni prima. 
Era stanco di dover mentire di continuo: a Will, a Charlotte, a Henry, a Katy sulla sua “condizione”. Era stanco di dover fingere di stare bene, di stare migliorando, quando in realtà sapeva meglio di chiunque altro che non esisteva una cura. Era consapevole, in quei momenti più che mai, che il suo tempo stava per scadere, lento e inesorabile.
Era stanco di dover attendere la morte, che sarebbe arrivata a reclamarlo.
Era stanco di dover sopportare da solo quel peso. 
Era stanco di essere un peso per Will. 
Era stanco di essere costantemente preso in giro da Gabriel Lightwood, quando tornava a Londra dalla scuola a Idris.
Era stanco di essere così debole.
Era stanco di farsi vedere in questo stato dagli altri, così fragile e indifeso fisicamente.  Lui era un Nephilim, uno Shadowhunter, avrebbe dovuto essere forte e preparato. Invece, quel maledetto Demone gli aveva tolto anche quello, oltre ad avergli rovinato la vita, per sempre. Si sentiva così inutile!
Jem sentì gli occhi farsi lucidi e serrò i pugni lungo i fianchi, conficcandosi le unghie nei palmi fino a farseli sanguinare, per non piangere. Non poteva piangersi addosso, non in quel momento, non lo faceva da anni, da quando aveva accettato la cosa. Non poteva iniziare ora...
Quella notte la tosse era stata crudele, l’aveva piegato in due, non l’aveva fatto dormire. Si sentiva stanco e affaticato come non gli capitava da mesi. Non era stato facile placare l’attacco di tosse, questa volta era durato più a lungo e ne sentiva ancora i rimasugli. Sentiva ancora il corpo spossato e squassato dalla tosse. Sapeva che avrebbe dovuto stendersi, riposare, ma come poteva? Era preoccupato; per una rara volta nella sua giovane vita, per sé stesso e non per gli altri. Era preoccupato perché, era sempre più difficile placare gli attacchi, gli occorreva prendere la sua “medicina”in quantità sempre maggiore e questo lo terrorizzava. Spostò lo sguardo dalla finestra alla scatola argentea sul suo comodino. Quella scatola conteneva la sua “medicina” e la odiava, la odiava con tutto sé stesso, se mai aveva odiato qualcosa in vita sua James Carstairs, era quella scatola, la sua rovina. Odiava quella scatola la cosa che era al suo interno e il demone che l’aveva costretto a vivere la mezza vita che era costretto a vivere ogni giorno, senza l’amore che aveva unito i suoi genitori. Perché James Carstairs, nonostante fosse pienamente consapevole del fatto che sarebbe morto presto, aveva paura di morire. Quella cosa l’avrebbe portato, presto o tardi, alla morte, l’avrebbe ucciso, consumato, eppure ne sentiva anche un richiamo irrefrenabile, ne sentiva l’inebriante dipendenza che ogni volta lo conduceva un passo pio vicino alla dama con la falce. Si sentiva come un orologio destinato a rompersi da un momento all’altro. La sua vita, come il tempo scandito da un orologio, scivolava via sempre più velocemente. James aveva capito che il tempo fuggiva via e non tornava mai indietro. Perciò si era aggrappato alla vita disperatamente, per tenere fede a una promessa fatta tempo addietro, all’unico uomo, oltre a suo padre, che aveva mai considerato come un secondo genitore. La fine però si stava avvicinando sempre di più, inesorabile e definitiva. Presto il suo orologio avrebbe smesso di ticchettare, n’era sicuro, mancava poco, ne sentiva i segni come marchiati a fuoco sulla pelle, anche se aveva cercato di ignorarli. Sentiva il suo corpo lasciarsi andare lentamente. Il peggio però era dover sopportare quell’agonia da solo, siccome non voleva gravare sugli altri. Stava per riprendere a disegnare sulla finestra, quando sentì un rumore, un rumore che non sentiva da sei maledetti anni, un rumore che allora gli aveva dato speranza e che in quel momento gli fece battere il cuore all’impazzata. Guardò tra i vetri rigati di pioggia e la vide, la scatola blu era nel cortile dell’istituto di Londra. Quella scatola, quella strana scatola blu, James Carstairs se la ricordava bene. Rivide come in un flash, accanto ai cadaveri dei suoi genitori materializzarsi la scatola.  Dalla scatola blu era uscito un uomo; portava un lungo capotto marrone e la sua espressione emanava pura furia. Appena il Demone l’aveva visto era fuggito. Jem ancora bambino, era strisciato terrorizzato verso i suoi genitori, piangendo disperato. L’uomo gli si era avvicinato, si era inginocchiato di fronte a lui, l’aveva preso per le spalle guardandolo con grandi e caldi occhi nocciola e l’aveva rassicurato dicendogli che era al sicuro, che sarebbe andato tutto bene. Poi stremato dalle torture e dalla stanchezza, Jem aveva perso conoscenza e il mondo si era fatto nero, o almeno così credeva, non n’era sicurissimo. Ebbe un altro flash, non sapeva se era un sogno o un ricordo. Ricordava, infatti, come in uno strano sogno, l’uomo che si chinava, lo prendeva in braccio e lo portava fuori dall’istituto di Shangai. L’istituto di Shangai... una lacrima solitaria scese lungo la sua guancia pallida al pensiero di quel luogo dov’era nato, cresciuto e a cui era stato brutalmente strappato. Anche il suo nome era diverso ora. Si chiese se i suoi genitori, vedendolo in quel momento l’avrebbero riconosciuto. Ritornò per un attimo al secondo giorno di supplizio; ricordava sua madre che ripeteva il suo nome in cinese, cercando di tenerlo sveglio, cosciente, gridando al demone di lasciarlo stare, di prendere lei e continuando a ripetere il suo nome. Risentiva ancora sua madre gridargli nelle orecchie Jian, Jian. James era il suo nome inglese, il nome che aveva adottato dato che il suo nome cinese era impronunciabile per i britannici. Quando il suo salvatore era venuto a prenderlo nella Città Silente, insieme alla sua sorellina e l’aveva portato li, a Londra, con la sua scatola blu, da Charlotte e Will, gli aveva detto che doveva adottare un nome anglosassone, magari il corrispettivo di Jian in inglese: James appunto. Solo sua sorella lo chiamava ancora Jian, anche se l’aveva fatto sempre più raramente, mentre crescevano. Quel giorno, quando l’uomo venne a prenderlo, nacque James Carstairs, e mori, per sempre, Jian Carstairs. Quel giorno, James diventò un’altra persona: da bambino spaventato, a giovane consapevole delle tragedie del mondo. Crebbe in poche settimane, crebbe e diventò un ragazzo, realizzando di colpo che la sua infanzia era finita da tempo e che non sarebbe tornata mai più. A dodici anni, James Carstairs era già un uomo, per colpa della vita, che era stata molto crudele con lui. L’uomo che lo aveva salvato, si era presentato come il Dottore. James, con una fitta al cuore, si era ricordato di tutte le storie che sua madre gli raccontava su di lui; un uomo folle, geniale, immortale quanto gli angeli, gli stregoni, le fate e i vampiri. Moriva e cambiava aspetto, ed era venerato come un dio dagli Shadowhunters. Quando era bambino, non aveva creduto a quelle che reputava fossero sciocche leggende, ma dopo quello che era successo, non aveva avuto alcun dubbio sull’esistenza del Signore del Tempo. Il Dottore l’aveva salvato, aveva fatto tutto quello che poteva per lui e sopratutto per Katy. Jem gliene sarebbe stato grato in eterno. Il Dottore era stato l’unico ad avere il coraggio per spiegargli cosa doveva fare per sopravvivere. Era stato l’unico a dirgli da che cosa la sua giovane e breve vita sarebbe dipesa da lì in avanti. Gli altri avevano paura di ferirlo e declinavano le sue domande, tutti tranne il Dottore. Lui era stato l’unico a confortarlo, a mostrargli affetto in quei giorni. Era stato come avere un parente che si prendeva cura di lui. Alla fine era stato il Signore del Tempo a decidere si portare lui e Katy a Londra. Conosceva Charlotte e suo marito Henry Branwell, aveva conosciuto il padre di Charlotte, Granville Fairchild, il precedente direttore dell’istituto e l’aveva affidato a loro. James ricordava ancora quello che il Dottore gli aveva detto prima di uscire dalla cabina e presentarlo a Charlotte.
***
Londra, maggio 1873, 
  «Jian so che è difficile, so che quello che ti è successo è orribile, sei un bambino.»
Il Dottore si era interrotto perché lui l’aveva guardato male. «Sono uno Shadowhunter e Jian Carstairs è morto, Dottore, una settimana fa. Ora sono James Carstairs. Non sono più quel bambino spaventato che avete portato via da Shanghai,» aveva replicato asciutto.
«Come vuoi tu James. Sei uno Shadowhunter, ma sei un anche un bambino e quello che ti è successo è orribile. Mi dispiace davvero tanto Jem.»
«Jem?» aveva chiesto perplesso. Il Dottore era stato il primo a chiamarlo così.
«Sì, Jem. Ora ti chiameranno James no? Beh ho pensato che Jem è un bel sopranome»
«Credimi Jem, so cosa vuol dire essere soli al mondo, anche la mia famiglia è stata uccisa tanto tempo fa. Devo continuare a vivere, da solo. So cosa si prova e so che le persone fuori da questa porta non significano nulla per te. So che non potranno mai sostituire i tuoi genitori, ma ti vorranno bene. Sono brave persone»
 Jem aveva sollevato la testa e aveva guardato l’uomo inginocchiato di fronte a lui. Al’epoca aveva ancora gli occhi neri dati dalla sua origine orientale e gli aveva puntati in quelli grandi e nocciola dell’uomo. Ed era stato allora che il Dottore gli aveva detto le parole che sarebbero diventate il suo scopo di vita da li in avanti e che lo erano anche in quel momento.
«Ricordati una cosa James: per quanto possa essere difficile, per quanto possa essere doloroso, goditi ogni istante della tua vita. Perché James, ehi, voglio che tu lo sappia; loro non sono morti a causa tua, non pensarlo nemmeno. Non c’era niente che avresti potuto fare per impedire che quel demone entrasse nell’istituto e facesse quello che ha fatto. I tuoi genitori vorrebbero che tu vada avanti, anche se è difficile e sei senza di loro. Ricorda che non puoi arrenderti, sei l’unica famiglia che immane a Katy. Perciò, James Carstairs, afferra la vita che ti rimane e vivila, vivi per loro. Voglio che tu ora vada lì fuori, ti faccia degli amici, conosca nuovi cacciatori e una nuova città. Voglio che tu ti attacchi spasmodicamente alla tua breve vita e cerchi di viverla al meglio. Voglio che tu sia felice James Carstairs, anche se per un breve periodo di tempo, voglio che tu sia felice, te lo meriti. È vero, come ti ho spiegato nella Città Silente; potresti morire domani, o tra una settimana, o tra un mese, o un anno, o anche di più, dipende da che effetto ha quella sostanza sul tuo corpo. Non permettere a Yanluo di vincere Jem. Ti ha portato via tutto, ma non è riuscito a portarti via la vita, anche se avrebbe voluto non permettere al suo veleno di portarti via tutto ciò che ti rimane Jem; la tua vita. Mi hai detto di essere uno Shadowhunter. Gli Shadowhunters sono guerrieri; combattono i demoni. Quindi tu devi fare una cosa, se sei uno Shadowhunter e un guerriero; combatti quella cosa, combatti con le unghie e con i denti per vivere Jem, non dimenticarlo mai. So che sei forte ragazzo. Combatti per vivere una vita felice. Mi hai capito?»
«Lo farò Dottore. Lo farò. Ve lo prometto. Lo giuro sull’Angelo.»
***
Jem ritornò alla realtà, nella sua stanza, seduto sul davanzale. Guardò fuori, quattro figure, di cui una riluceva alla luce della luna si avvicinavano al portone dell’istituto. Vide la prima figura alzare una mano per bussare al portone dell’istituto. Sentì il famigliare scampanio cupo che provocavano le campane. Jem ignorò nuovamente l’attacco di tosse e il dolore alle ossa, saltò giù dal davanzale, prese il bastone col pomo di giada e il violino, gli unici ricordi di suo padre e uscì dalla stanza.
***
Nello stesso momento, in quella notte buia per le oscure e malfamate strade di Limehouse zona dei bassifondi di Londra, a pochi metri da Whitechapel un ragazzo moro stava camminando sotto la pioggia battente. Camminava svelto, non aveva una meta precisa, voleva solo andare il più lontano possibile dall’istituto. Non poteva sopportare di rimanere lì un minuto di più, non dopo gli avvenimenti di quel giorno. Sapeva di essere un imprudente ad uscire a caccia da solo, ma non ci poteva fare nulla. Jem non era nelle condizioni di accompagnarlo e lui non voleva che nessun altro a parte James Carstairs lo accompagnasse. In verità voleva solo uccidere qualche demone, e poi   affogare i propri dispiaceri nell’alcool. Non necessariamente in quest’ordine. Non aveva ancora deciso cosa fare per primo, ma una cosa la sapeva; voleva fare tutto rigorosamente da solo. Jem era stato di nuovo male. Il ragazzo si chiese quanto ancora sarebbe durata l’agonia del suo parabatai. Quella notte James era stato male, come non gli capitava da mesi. Will aveva notato con orrore crescente in quei giorni, nonostante Jem continuasse a spergiurare di stare bene e a nascondergli, quasi disperatamente, gli attacchi di tosse sempre più frequenti, il pallore sempre più spettrale sul suo volto, il corpo sempre più magro e deperito, il respiro sempre più affannoso, l’affidarsi sempre più pesantemente al bastone da passeggio per camminare. Vederlo in quelle condizioni gli faceva male. Vederlo così gli faceva pensare sempre di più alla sua morte, a quella cosa inevitabile, e ingiusta. La morte di Jem. L’inevitabile, dolorosissimo momento, in cui James sarebbe morto, in cui il loro legame si sarebbe spezzato, per sempre. Sapeva che Jem sarebbe morto, era un dato di fatto, l’aveva tenuto in conto fin dal’inizio, quando aveva chiesto a quel bambino pallido, appena arrivato dalla Cina di fargli da parabatai.  Cercava di non pensarci, di posticipare in tutti i modi il momento del “cosa” avrebbe fatto “dopo” la morte di James. Ma il problema era proprio quello, non sapeva cosa ci sarebbe stato dopo, perché non esisteva, nella sua mente, un lasso di tempo che non comprendesse James. Aveva pensato, quand’era bambino, che non ci sarebbe mai arrivato, che James non sarebbe mai morto, che avrebbero trovato una cura; ma James era peggiorato, doveva prenderne atto. Come James gli aveva fatto notare quella notte con il suo tono pacato:
«Non esiste nessuna cura, William. Devi fartene una ragione e prima lo farai, meglio sarà per entrambi. Non puoi più negarlo William, io sto morendo, non esiste cura. Mettitelo in testa. Non puoi fare sempre come vuoi Will, non questa volta. Rassegnati per favore. Non illuderti ti prego». Aveva concluso Jem rivolgendogli uno sguardo supplicante, abbandonandosi contro i cuscini e chiudendo gli occhi, il viso magro cerchiato da ombre scure.
La malattia, si era reso conto Will quella notte, stava prendendo il sopravvento. Jem si stava arrendendo lentamente a lei. William Herondale sapeva che era colpa sua, n’era certo. Il suo errore era stato affezionarsi. Non avrebbe dovuto attaccarsi a Jem, avrebbe dovuto scostarlo come faceva con tutti gli altri, invece non l’aveva fatto. Aveva ceduto ai modi gentili e pacati di Jem e adesso stava per perderlo. Il ragazzo si passò distrattamente una mano tra i folti e ricci capelli corvini, che si erano arricciati sulla nuca e incollati al collo a causa di quel tempo piovigginoso. Will continuò a camminare con le mani serrate a pugno, affondate nelle tasche del cappotto fradicio. Si era allontanato quasi correndo dall’imponente figura dell’istituto di Londra.  Doveva stare lontano da tutti, era la cosa migliore per le persone che, standogli intorno, rischiavano solo di farsi male. Era un pericolo per gli altri. Non voleva più fare male a nessuno, eppure involontariamente lo stava facendo a Jem, l’unico amico che avesse, quello che si era dimostrato come un fratello per lui.  Non voleva fare del male alle persone che amava, ed era per questa ragione che, cinque anni prima, aveva lasciato la sua famiglia e le verdi campagne del Galles, per la sporca, umida, piovosa e grigia Londra. Non voleva far del male a Cecy, non voleva perdere anche lei, come aveva perduto Ella. Will sorrise, suo malgrado, raffigurandosi quel viso, così simile al suo che non vedeva da cinque lunghi anni. Si chiese quanto fosse cambiata quella piccolina in cinque anni. Si chiese se l’avrebbe mai rivista e se lei ogni tanto gli pensasse. Ripensò alle lettere che ogni compleanno scriveva e poi stracciava e non spediva mai. In quei momenti gli mancavano più che mai. Represse le lacrime. La verità era che aveva paura di perdere Jem, a causa sua, come aveva perduto Ella cinque anni prima, per colpa sua, sua e di nessun altro. Se solo non gli fosse venuta l’idea di curiosare in giro, niente di tutto quello che era successo sarebbe mai accaduto e, in qualche modo, anche questa volta sentiva che il peggiorare delle condizioni di salute di James era colpa sua. É colpa mia, tutta colpa mia, pensò. William sapeva che James gli stava mentendo. Erano parabatai dopotutto; c’era un legame tra loro. Sapeva che James stava morendo e si sentiva ancora più frustrato perché non poteva far nulla per aiutarlo, ed era colpa sua. William si fermò, si guardò attorno, era nella zona di Limehouse, vicino al porto. Vedeva le navi attraccate al molo. Era abbastanza lontano dall’istituto. Nessuno gli avrebbe detto niente, se avesse preso a pugni qualcosa, o anche qualcuno, non faceva alcuna differenza. Si guardò intorno, aveva una gran voglia di menare le mani e di sfogarsi su qualche povero mondano. Vide una vecchia catapecchia abbandonata alla sua destra, il posto perfetto.  Si avvicinò lentamente alla vecchia casa e diede un pugno contro il muro di fronte a lui, di fianco alla strada, e poi continuò finché le nocche non iniziarono a sanguinare e diventare bianche. Solo allora permise alle lacrime, lacrime di disperazione, di sgorgare. Si sentiva come se l’avessero pugnalato e poi tagliato in tanti piccoli pezzettini. Si sentiva come un bicchiere rotto. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a rimettere insieme i frammenti della sua anima, affilati come vetro. Annientato era la parola adatta, era e si sentiva annientato dentro. Si sentiva inutile, incapace persino di aiutare l’unica persona che testardamente era voluta diventare sua amica ed esporsi al pericolo rappresentato da lui, inconsapevolmente certo, ma Jem l’aveva fatto. Mentre prendeva a pugni una vecchia catapecchia, nei bassifondi di Londra e le lacrime sgorgavano copiose dai suoi occhi, Will non poté impedirsi di ricordare, cosa aveva pensato a dodici anni, quando Jem era diventato suo amico. A dodici anni Will aveva pensato, visto che non sapeva per quanto Jem sarebbe potuto sopravvivere, che quello che gli era successo non avesse effetto su di lui, si sbagliava ed era tutta colpa sua. Wiliam tu non potrai mia voler bene ad una persona, pensò, mentre si puliva le mani insanguinate, piene di graffi e schegge, causati dal legno marcio e pieno di spine della baracca, sui calzoni. William si girò e riprese a camminare nella direzione da cui era venuto, ma non voleva tornare all’istituto, voleva andare al The Rose and Crown. Gli piaceva quella lussuosa taverna mondana.  E poi aveva bisogno delle parole di Lilian e di un bicchiere di Whisky, anzi più di uno. Voleva ubriacarsi per dimenticare. Mentre percorreva la strada a ritroso, sotto la pioggia battente, i vestiti zuppi, i suoi pensieri tornarono al suo chiodo fisso in quei giorni: Jem Carstairs. Aveva pensato che Jem forse sarebbe rimasto con lui. Aveva pensato di poterlo salvare. Si sbagliava. Si sbagliava su tutto, e di grosso anche. Continuò a camminare rapidamente sempre più sconfortato. I vestiti gli s’incollavano al corpo già bagnato e infreddolito dalla prima passeggiata che aveva fatto quella sera. Aveva già passeggiato per le strade di Londra quella notte, un’ombra scura nel buio. Era tornato però, sentendo che c’era qualcosa che non andava. Jem, infatti, si era sentito male. Jem, successivamente, l’aveva scacciato a forza di scuse e sproloqui della sua stanza. Quando era uscito Will non aveva pensato, nemmeno per un momento, a cambiarsi la camicia di lino, umida dalla prima passeggiata sotto la pioggia, o i calzoni ormai zuppi d’acqua. Si era infilato frettolosamente il lungo cappotto fradicio e il cappello a cilindro, di velluto nero, ed era uscito, senza pensare, volendo solo fuggire da li; incurante del tempo e della tempesta di pioggia che fuori infuriava e spazzava Londra fin nelle fondamenta. In strada non c’era nessuno, persino i mendicanti avevano trovato un riparo dal temporale, solo Will camminava per le strade malfamate di Londra quella sera. Camminare lo aiutava a sfogarsi, a non pensare, ad estraniarsi, ma non quella notte. Quella notte non riusciva proprio ad estraniarsi, anzi pensieri e ricordi continuavano a vorticargli fastidiosamente in testa, anche se cercava di ignorarli. Per spiegare la sua assenza, avrebbe inventato un racconto licenzioso su una fantomatica prostituta che poi avrebbe menzionato dettagliatamente a Jem e Charlotte la mattina dopo. Will inventava racconti per giustificare le sue assenze che lo facevano sempre apparire in una luce peggiore. Tutti ci credevano e sostenevano che fosse un villano, tutti tranne Jem, certo lui capiva che Will mentiva, ma non gli faceva mai domande. Di questo Will gliene era grato, era anche fortunato che Jem fosse troppo riservato e rispettoso dei fatti altrui per fargliene. Stava passando davanti all’istituto per andare al The Rose and Crown, quando sentii un rumore, lo stesso rumore che aveva sentito il giorno in cui Jem era arrivato all’Istituto. Sentendolo, si voltò istintivamente verso il cortile dell’Istituto. In mezzo al prato coperto di pioggia, c’era una scatola blu, di legno, quadrata, con delle finestre. Will, la trovò strana, non l’aveva mia vista prima. Scrollò le spalle; era troppo stanco per preoccuparsi di strane scatole blu nel cortile dell’Istituto di Londra. Magari era solo un’allucinazione dovuta alla stanchezza e alla frustrazione. Quello che gli ci voleva era una bella sbronza, pensò. Sì, l’alcool era il miglior amico del’uomo depresso.  Con questo pensiero, William Owen Herondale voltò le spalle all’Istituto e alla strana scatola e, grondante d’acqua, si diresse a grandi passi verso la sua osteria preferita e la sua cameriera preferita. Fu quindi, per questo motivo, che Wiliam Herondale, non notò cinque figure uscire dalla “scatola” e dirigersi verso il portone dell’Istituto.
****
In un’altra stanza dell’istituto di Londra un ragazzo dai capelli scuri si rigirava nel letto senza riuscire a prendere sonno. Al contrario di Wiliam Herondale e James Carstairs, lui non era preoccupato per le condizioni di James. Non che non volesse bene a Jem, come si poteva non voler bene a quel dolcissimo e bellissimo ragazzo?  Che si, doveva ammetterlo, un po’ lo rispecchiava. La preoccupazione di Jesse così si chiamava lo Shadowhunter era ciò che era successo a Idris quando era tornato per parlare con la sua famiglia e sua madre Sarah si era approfittata di lui per l’ennesima volta. Come se Jesse non avesse ancora imparato la lezione. La verità era che non ce la faceva a non voler bene alla sua famiglia e a non aiutare gli altri era nella sua natura. Era troppo buono glielo dicevano sempre tutti. Se solo non si fosse fatto ingannare. E fosse stato meno ingenuo. Si rigirò ancora una volta nel letto e poi decise di alzarsi. Sapeva per esperienza che non sarebbe più stato in grado di dormire. Si sentiva in colpa. Si alzò e quasi cadde, era debole. Non aveva mangiato nulla a cena, di nuovo. Si guardò nello specchio, alla tenue luce delle streghe luci somigliava a un fantasma: in quella camicia da notte lunga e bianca, con gli occhi pesti, le occhiaie violacee e il viso pallido e smagrito. Si sentì stringere il cuore a quella vista. Grazie a sua madre c’era di nuovo ricaduto. Era quello che temeva, sapeva di stare male ma non sapeva come tirarsene fuori. Ad interrompere i suoi pensieri sconfortati e le sue tristi riflessioni fu uno strano suono acuto, il campanello dell’istituto che suonava. Poteva significare solo una cosa: avevano ospiti.

NOTE DELL'AUTRICE 

Hola! Approdo su questo fandom che amo da impazzire, e lo faccio con una storia sulla mia trilogia preferita.

Questa  storia che programmo da ben cinque anni è un AU, dove non esiste Tessa e  gli eventi di TID saranno molto diversi, diciamo che è una mia versione della storia. Si ci sono acuni acenni a Doctor Who tututavia non influiranno sulla storia di per sé. Spero vi sia piaciuto questo prologo.

Al prossimo capitolo

Baci 

Marty Evans

  
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