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Autore: Drago Rosso Sangue    10/10/2016    1 recensioni
Septys non era una bella città... Una città di origine romana che sorge vicino a Londra, dal passato insolito e dal presente dubbioso, nella quale si trova un orfanotrofio gestito dalle suore, dove una ragazza troppo curiosa si scontra con qualcosa che nemmeno la sua fervida immaginazione può comprendere, allacciando storie con creature strambe quanto lo è lei.
Buona lettura!
Drago :3
Genere: Dark, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa folle storia la dedico al mio Filippo (che qui è Philcassie), il mio amore, il mio tutto, colui che, come una musa, ispira i miei scritti.
Buona lettura! :3
Drago (la sua pioggia)

~ o ~

Capitolo I

Septys non era una bella città.
Soprattutto di notte, quando le ombre calavano inamovibili sugli edifici antichi e grigi, serpeggiando di infamia nei vicoli oscuri e sui muri di mattoni rossi, che parevano del color del sangue secco alla luce fioca della pallida luna spenta.
Probabilmente, quando ancora quell'imperatore Adriano seguiva il sogno di unificare il suo già vasto impero, quella città aveva vissuto i suoi giorni migliori, per poi essere abbandonata e bruciata a causa della peste nel Medioevo, lasciata a marcire sotto il piovoso cielo inglese, e ripopolata solo da un paio di secoli, quando per decadi venne considerata un luogo malsano, che poteva macchiare l'anima persino nominandolo soltanto: ai tempi della sua fondazione prendeva nome di Castrum Septis, il Forte dei Sette, perchè sette furono i generali che, in comunione e senza discordia, avevano posto la prima pietra delle mura fortificate in quelle terre, tanto che le loro sette statue ancora dimoravano la piazza principale dall'alto dei loro basamenti di pietra, così imponenti che erano sopravvissuti all'incendio, assieme alla vecchia Chiesa di Giunone Velata, la quale pareva avere rinchiusa nei suoi marmi la benedizione degli Dei.
Con l'evoluzione della lingua e lo scorrere incessante del tempo, il "castrum" era caduto, lasciando uno spaurito "septis" al quale era stata sostituita una "I" con una "Y" per accentuare l'identità britannica, in un periodo incerto che, forse, poteva corrispondere alla fine del glorioso Secolo Illuminato.
Septys aveva un orfanotrofio, una costruzione dal sapore Barocco con un ingresso molto più sontuoso della reale importanza e autorità di quel luogo e un piccolo chiostro interno delimitato da graziose colonne corinzie; era uno dei pochi palazzi che presentava un'ala dall'altitudine rispettabile, la torretta nord dove non batteva mai il sole, dove l'edera regnava sovrana sull'intonaco vecchio, a metà strada tra la piazza principale e il cangiante cimitero di marmo bianco appena fuori, prima del confine segnato dalle mura sopravvissute all'impietosa mano della Storia.
I poveri orfanelli che lì avevano trovato un rifugio dormivano già da un paio di ore, anche un po' di più, e il silenzio avvolgeva l'edificio come una coperta, nello stesso modo in cui ingabbiava i muri esterni degli altri palazzi della cittadina, eppure, in quella notte uggiosa, il ticchettare ritmico di una macchina da scrivere, a volte più sicuro e pesante, altre un po' più incerto, come rimuginando sulla lettera migliore da inserire, riempiva la soffitta della solitaria torretta nord, stipata di ciarpame e vecchi oggetti che le suore, le quali da un paio di secoli dirigevano l'orfanotrofio con severa tenacia, non utilizavano più, abbandonando il tutto sotto la polvere che si accumulava su di loro velocemente.
  «Le stelle riflesse sulle armature parevano rinvigorire la speranza vacillante negli animi dei soldati carolingi...» sussurrò una voce femminile, talmente lieve che avrebbe potuto essere scambiato per un insolito scherzo del vento notturno che giocava con l'unica bifora che si apriva sulle mura arrotondate, priva di vetri a proteggerla dalle intemperie, lacerata nel mezzo da una sottile colonnina che portava le foglie di acanto scolpite con maestria sul capitello di pietra.
China sull'unico tavolino basso, che ancora poteva essere considerato tale, in quell'ammasso di cianfrusaglie e mobili dismessi, una ragazza colpiva con la punta delle dita piccole e chiare i tasti perfettamente tondi della macchina da scrivere, unico oggetto nuovo ed estraneo nella torretta che veniva usata come magazzino dell'antiquariato, colmando la notte silenziosa con i suoi clangori meccanici, simili al cozzare delle cotte di maglia delle quali stava scrivendo: lei viveva nell'orfanotrofio, arrivata in quell'edificio poco più che neonata, ora una giovane dalla bellezza arcaica e particolare, il viso bianco incorniciato da folti capelli castani, testardamente raccolti in una treccia malfatta che non ne voleva sapere di chiudersi, e grandi occhi concentrati, ingigantiti dalle spesse lenti degli occhiali in bilico sul naso, risaltando il caldo color nocciola delle iridi sceziate di pagliuzze color del miele.
E la sua storia si srotolava sotto il rullo di inchiostro ogni qualvolta che una singola lettera veniva pigiata dai polpastrelli esperti.
Le armature.
Sostenute da lunghi chiodi dalla capocchia quadrata, morbide toghe nere e un paio di tuniche di un blu più scuro delle profondità dell'Oceano, restavano appese ai muri vecchi, comunque senza smarrire il loro deciso colore, in netto contrasto con la cangiante vestaglia indossata dalla piccola scrittrice, che, nella notte e col buio della torre, appariva come un angelo intrappolato tra quelle mura terrene.
Gli scacchi.
Alla luce della pallida luna, che era faticosamente riuscita a bucare la spessa coltre di nubi, i raggi argentei donavano tonalità nuove agli oggetti che svettavano nella stanza, neri quelli che restavano nell'ombra, cupi e silenziosi nei loro loculi impolverati, bianchi quelli che venivano gentilmente accarrezzati dal pigro astro notturno, due colori agli estremi che dipingevano l'interno della torretta nord come un'irregolare scacchiera.
Il labirinto.
Ci si poteva perdere in quell'ultimo piano della torre a causa dall'ampiezza della stanza, e le pile di rottami accatastati parevano tutte uguali e compatte, sparse sul consunto pavimento di legno, sia alla luce del giorno, sia nell'oscurità notturna, tanto che potevano essere paragonate alle alte mura di quel luogo magico, o alle sue siepi impenetrabili, del quale era impossibile trovare la via d'uscita.
Proprio per questo l'accesso era negato a tutti i bambini, e persino le suore evitavano di metterci piede, soprattutto dopo che sorella Carol, ricordata a lutto negli annali dell'orfanotrofio, era rimasta bloccata lì nella torretta nord ed era spirata in solitudine in un fresco pomeriggio di circa un secolo fa.
La ragazza, in quella notte come altre, era lì all'insaputa di tutti, non avrebbe dovuto inoltrarsi nell'oscura torre, assolutamente non poteva, era severamente vietato: madre Giorgette l'avrebbe rinchiusa nello sgabuzzino semmai l'avesse scoperta, come quella volta che l'aveva colta con una mezza forma di brie sotto il grembiule, mentre si stava dirigendo all'ombra della torretta, sotto le tende di edera che sempre riuscivano a donarle la serenità interiore e facendole dimenticare, per quei pochi attimi di silenzio, il vuoto incolmabile del suo cuore.
Eppure, era pronta a correre il rischio e a subirsi l'eventuale punizione, soprattutto da quando Andrew le aveva fatto dono di quella fiammante macchina da scrivere di ultima generazione, da poco uscita dalle fabbriche della vicina Londra, pur non conoscendo i fatti per cui quell'oggetto innovativo fosse capitato tra le mani di quel furfante senza genitori né dimora, talmente cocciuto e sicuro di sè che aveva rifiutato a gran voce l'aiuto che l'orfanotrofio gli aveva offerto anni addietro.
Con un sospiro, la ragazza si tolse gli occhiali e, dopo averli appoggiati accanto al corpo della macchina da scrivere, sfilò dal rullo il sottile foglio fittamente scritto di lettere d'inchiostro, ammirando con soddisfazione il suo faticoso operato notturno, la sua meta tanto desiderata: stampare quel "FINE" ai piedi della pagina, nero su bianco, in conclusione alla sua prima, vera storia.
Era come se quelle quattro lettere brillassero magicamente alla luce soffusa che entrava dalla bifora, accompagnata da una leggera brezza che pareva il fresco fiato di un qualche spirito benigno.
Una folata di vento più poderosa delle altre la costrinse a sollevare gli occhi dal propio operato, per seguire con sguardo incantato una piccola foglia dal color della ruggine la quale, infreddolita, si lasciava trasportare dalla corrente, che la indirizzava all'interno della torretta nord, ma dalla quale, molto probabilmente, non sarebbe più uscita; e fu allora che lo vide: accanto alla colonnina corinzia che divideva lo spazio della bifora, un globo di luce azzurra aleggiava sul davanzale, appariscente sopra la tela di buio che si spiegava alle sue spalle, cullandosi con la brezza umida e fresca che sapeva di pioggia.
La fiammella turchese tremolava leggermente contro il cielo notturno incorniciato dagli stipiti della bifora, e ogni secondo saettavano filamenti luminosi gialli e verdi sulla sua superficie irregolare e perennemente in movimento, sotto la quale era appena visibile la sagoma di un microscopico corpo ben proporzionato, un Fuoco Fatuo, ardendo come ad intermittenza per attirare la preda sulla quale aveva posato i suoi minuscoli occhi, invisibili a causa della luce propria da esso emanata.
Eppure quello non era un bosco, l'unico territorio a quella creatura favorevole, il suo incanto non avrebbe sortito l'effetto sperato.
Difatti, la giovane scrittrice aveva abbandonato la sua postazione al tavolo non a causa del potere inibitore del fuocherello, che, speranzoso, seguitava aleggiando sul marmo consunto del davanzale, bensì per la sua curiosità perennemente affamata, inesauribile quanto lo erano le sfaccettature del mondo che la circondava, tanto da spingerla ad azioni inusuali e, a volte, persino pericolose, solo per soddisfarla, dimenticando le eventuali conseguenze; per la maggiorparte degli orfanelli era "la Stramba", costantemente persa nel mondo inconsistente  dei propri pensieri, che riusciva a vedere cose ad altri invisibili, agli occhi esterni rasentando la pazzia.
Accanto alla bifora, un candeliere dal corpo sbiadito - nel fiore del suo splendore doveva brillare di foglie d'oro alla luce che lo colpiva - restava immobile e storpio al chiaro di luna, un solo braccio gli era rimasto, e pareva schernirlo ricordandogli ciò che superbamente era stato prima di venire abbandonato in quella soffitta, e proprio protetto dal metallo dell'alzata, ormai priva di alcuna candela, impolverava un opaco vasetto che, molto probabilmente, aveva conservato della marmellata nella sua precedente vita.
Ignaro delle intenzioni della ragazza, il Fuoco Fatuo si scostò leggermente dalla proria postazione iniziale, come a farsi più vicino, nel preciso momento in cui lei, genuina com'era nel suo spirito ribelle, aveva agguantato il barattolo di vetro, soppesandolo tra le mani dopo averlo sfregato contro la manica della camicia da notte per pulirlo dalla polvere, e prese a svitare il coperchio di latta più e più volte, saggiando l'efficacia della chiusura.
Soddisfatta, scattò in avanti verso la finestra, intrappolando tra le strette mura di vetro la creatura magica: all'interno del vasetto, il fuocherello turchese si muoveva a scatti, per quanto l'angusto contenitore gli permetteva, cercando una possibile via di fuga, ardendo con maggiore intensità e variando sfumature rapidamente sotto gli occhi dolcemente stupiti della giovane, che lo osservava rapita e meravigliata, e le fiamme del Fuoco Fatuo si riflettevano sulle calde iridi della ragazza e si mischiavano col nocciola al loro interno, donando al suo sguardo dei colori innaturali e stupefacenti quanto quelli dell'essere che li stava producendo.
Era il suo ennesimo trofeo.
L'avrebbe nascosto sotto il suo letto nella camerata, senza che i suoi compagni di stanza la vedessero e andassero a riferire alla madre ciò a cui avevano assistito, dove, sollevando alcune travi di legno solo a lei familiari, aveva scoperto un ripostiglio segreto scavato nel pavimento.
E così fece.
  
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