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Autore: Lady Stark    11/10/2016    1 recensioni
[Io prima di te]
Dove era finito il vigore di William Traynor? Il ricco banchiere che il mercato aveva temuto ed idolatrato come un dio? Dov’era finito quella voglia di vivere che l’aveva spinto a lanciarsi da una gigantesca scogliera affacciata sul freddo oceano?
L’uomo che era stato, era rimasto schiacciato sotto le ruote di quel dannato motorino.
Era bastato un attimo di distrazione e la sua vita si era tramutata in un tartaro senza fine.
Poteva quella essere definita: “vita”?
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia picchiettava ormai da ore contro il vetro della finestra in camera di Will. Il verdeggiante panorama che era solito osservare, era stato inghiottito dalle buie ore serali.

La casa era silenziosa in modo assordante, fatta eccezione per quel martellante suono ripetitivo. Louisa Clark se ne era andata da qualche ora ormai, per tornare alla sua rocambolesca vita familiare. Probabilmente, in quel momento stava indossando uno dei suoi ridicoli maglioni, fabbricati con quella lana dai colori improponibili.

Maglioni che, ogni volta ed immancabilmente, riuscivano ad estrapolare da quella sua vita d’inferno un sorriso labile come la nebbia.

L’uomo contrasse le labbra, trattenendo un sospiro lungo un’eternità. Sulla lingua non poté fare a meno di avvertire l’acre sapore del futuro e dei progetti che mai avrebbero avuto modo di realizzare. Il rumore della pioggia sulle tegole del tetto si fece snervante e Will serrò tanto forte gli occhi da avvertire un pulsante dolore in corrispondenza del naso.

Il cielo stava piangendo al posto suo tutte quelle lacrime che si era categoricamente proibito di versare dal momento in cui si era risvegliato in ospedale, con il corpo ridotto ad un blocco di marmo. In determinati e più sfortunati giorni, riusciva ad avvertire un fastidioso formicolio alle gambe perdute; quasi come se i muscoli tentassero di recuperare il dimenticato schema motorio.

Era proprio in quelle circostanze che Will desiderava che il suo cuore si fermasse, concludendo così quell’atroce tormento che lo divorava dall’interno, giorno dopo giorno.

Poteva ancora definirsi un uomo ora che ogni sua più banale esigenza doveva essere risolta dai suoi genitori o da un infermiere?

Dove era finito il vigore di William Traynor? Il ricco banchiere che il mercato aveva temuto ed idolatrato come un dio? Dov’era finito quella voglia di vivere che l’aveva spinto a lanciarsi da una gigantesca scogliera affacciata sul freddo oceano?

L’uomo che era stato, era rimasto schiacciato sotto le ruote di quel dannato motorino.

Era bastato un attimo di distrazione e la sua vita si era tramutata in un tartaro senza fine.

Poteva quella essere definita: “vita”?

Dal primo minuto in cui l’avevano dimesso dall’ospedale, immobilizzato su quella rigida sedia a rotelle, il quesito aveva occupato ogni secondo dell’esistenza di William.

E, un giorno, con il rintoccare dell'orologio a mezzogiorno era finalmente venuto a conoscenza di quell'ineluttabile risposta che, forse inconsciamente, aveva finto di non conoscere.

No, quella non era vita.

Perlomeno, non nell'ottica dell'uomo che Will era stato per almeno venticinque anni.

Un uomo, privato delle sue gambe, delle sue braccia, della sua dignità, non poteva più definirsi tale. Le malelingue avrebbe potuto definirlo un codardo; un vile che non trova la forza di reagire di fronte alle difficoltà.

Ma William non era minimamente interessato a ciò che avrebbe detto la gente.

Nessuno, difatti, avrebbe mai potuto comprendere quanto insopportabile fosse la luce del sole che, ogni mattino, penetrava obliquamente dalle veneziane serrate.

Nessuno sarebbe mai riuscito a comprendere quanto cocente fosse la frustrazione di non potersi alzare per chiudere meglio le tende o per girarsi nel letto.

Mai, avrebbero provato sulla propria pelle l’imbarazzo di non potersi neanche lavare i denti da soli alla matura età di trent’anni.

La sola cosa che ancora riusciva a confortarlo era la sicurezza che, di lì a pochi mesi, tutto sarebbe scivolato nell’oblio assieme all’anonimo stantuffo di una siringa.

Quando William aveva rivelato la propria volontà alla madre, gli occhi di Camilla Traynor erano diventati grandi come la luna. Suo padre l’aveva sorretta quando le ginocchia l’avevano abbandonata, facendola quasi crollare a terra per lo shock.

Il ragazzo aveva cercato di spiegarle le proprie ragioni ma l’istinto materno aveva pregiudicato in lei l’utilizzo della ragione.

Steven Traynor, suo padre, gli era sembrato più giudizioso. Eppure, mentre i due parlavano, gli occhi dell’anziano non avevano mai abbandonato quelli del figlio.

Così, William aveva avuto la possibilità di cogliere nelle sue chiarissime iridi quella tipologia di dolore che si scatena silenziosamente; come un fuoco imprigionato sotto l’impassibile superficie di una campana di vetro.

Niente era però riuscito a smuovere la ferma convinzione del ragazzo.

Aveva concesso ai suoi genitori sei mesi di tempo, alla cui scadenza si sarebbe finalmente gettato il mondo alle spalle.

La pioggia continuava a cadere imperterrita, simile ad un velo d’acqua contenente le sofferenze di tutti gli uomini sulla terra.

Will sospirò ancora e, abbandonando la testa contro il supporto della sedia a rotelle, cominciò a fantasticare. La sua mente, grazie al continuo esercizio a cui la sottoponeva, era diventata sufficientemente elastica per permettergli di costruire scenografie abbastanza palpabili.

Quel pomeriggio, William decise di immaginare la stramba badante che sua madre gli aveva trovato.

Louisa Clark.. Lou”

Il viso della ragazza comparve immediatamente di fronte alle sue palpebre chiuse, inondandolo con la radiosità del suo sorriso. Era una tarda mattinata di primavera e la fanciulla sedeva su una lunga tovaglia a scacchi rossi e verdi.

Il vestito che indossava era, come al solito ridicolo ed eccessivamente colorato. La pelle chiarissima sembrava rifulgere sotto il sole di mezzogiorno mentre, con meticolosa cura, apriva i vari cestini di vimini che aveva portato con sé.

Una quercia slanciata, protesa verso il cielo nel desiderio di sfiorare le nuvole, ombreggiava la zona in cui i ragazzi si accingevano a mangiare. Quel giorno, bianche e dalle molteplici forme, assomigliavano più che mai a montagnette di zucchero filato. Lo stomaco di Will gorgogliò nel momento in cui l’aroma del cibo raggiunse i suoi sensi, accarezzandogli le guance come un’amante.

«Che fai, Will? Hai intenzione di farmi pranzare da sola?»

Lou colpì la tovaglia un paio di volte, esortandolo a sedersi al suo fianco.

Il ragazzo tentennò per un attimo, incerto.

Louisa gli sorrise ancora, tendendogli una mano. A quel richiamo, William inspirò profondamente e fece il suo primo passo avanti.

L’erba scivolò tra le sue dita nude, facendogli il solletico. I muscoli guizzarono sottopelle per sorreggere il corpo, regalandogli un incontrollabile brivido di piacere lungo le vertebre della colonna. Solo nei sogni, la gioia del camminare poteva tornare a fargli visita.

«Perché non danziamo?» chiese, una volta giunto in prossimità della fanciulla. Attorno a loro si espandeva un infinito palcoscenico di erba tagliata all’inglese, punteggiato sporadicamente da gruppetti di candide margherite. Il sorriso di Louisa si allargò ancora un po’, mettendo in risalto le adorabili fossette che aveva.

«Se è William Traynor a chidermelo, non posso certo rifiutare.»

Lui l’aiutò ad alzarsi e poi la strinse tra le braccia, assaporando il modo in cui le sue mani scivolavano sul tessuto semplice del vestito.

Le dita serrarono dolcemente quelle della fanciulla, fremendo al contatto con il calore che esse emanavano.

Sul ritmo di una musica tutta loro, i due cominciarono a volteggiare stretti l’uno all’altra. Il respiro profumato di Louisa gli accarezzava il collo; il battito del suo cuore raggiungeva quello di Will, attraverso il sottile strato di vestiti che divideva le loro pelli.

«Vorrei potermi non svegliare più.» sussurrò lui.

Louisa l’abbracciò più forte, come se quelle parole l’avessero improvvisamente turbata.

«Io posso renderti felice, William.» tentò di scostarsi dalla sua presa ma lui glielo impedì, stringendole più forte la vita.

«Balla con me, Clark. Balla con me finché il tempo ce lo permette.»

Louisa non pronunciò più parola e, appoggiando il capo contro la clavicola del compagno, si lasciò condurre in quel lento passo di valzer per un periodo lungo quanto l’eternità. 

   
 
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