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Autore: Silvar tales    13/10/2016    1 recensioni
«So benissimo quello che faccio, è da quando avevo sei anni che gioco con la Matrice, non ho certo bisogno che tu mi dia lezioni di prudenza. Tu non sai un cazzo di me».
«Sbagliato», dal tono della sua voce si capiva che Sasori stava sorridendo, «so tutto di te, so ogni cosa».

[Partecipante alla challenge "Le situazioni di lui & lei" indetta da Starhunter] [#10 “sei stato un bimbo cattivo”]
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara, Hidan
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Sasori & Deidara - The Great Revival'
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Note dell'autrice:
Questa storia è il prologo di Muren, e descrive il primo incontro (virtuale, ovviamente) tra Sasori e Deidara.
Il genere è cyberpunk (o almeno, vorrebbe esserlo), per cui chiedo perdono per la sovrabbondanza di termini informatici e pseudoinformatici, molti dei quali inventati.
Chiedo inoltre perdono per l’assoluta NON-attendibilità scientifica.









Underwater
[#10 “sei stato un bimbo cattivo”]


«Certo che ho provato a chiamarti su ID Scheletra, tre chiamate al minuto. Ho cominciato a temere che ti avessero sbattuto fuori dai server. Ora sei su ID Jashin o devo contattarti su un altro account più sicuro?»
«Mi prendi per il culo Deidara? Tutti i miei ID hanno un grado di sicurezza paritario. E sicuramente sono più affidabili di quelle merde di platform che usi per i tuoi server».
Deidara si agitò sul sedile, e la bocca gli si piegò in una smorfia.
«Lo sai che non voglio che mi chiami con il mio nome. Io ti chiamo mai con il tuo nome?»
«Ah, fammi indovinare, non vuoi che ti chiami con il tuo nome perché sei un hacker del cazzo, e hai paura che ci sia qualche bastardo della Seeroyal in ascolto? Sai dirmi, Deidara, quanto è sicura questa linea?»
«Chiudi quella bocca, Hidan. Questo canale l’ho aperto io, dovrebbero destrutturare tutta quanta la Matrice un bit alla volta per scovare questa frequenza. Allora, per ora vedo solo il tuo indirizzo IP. Per rendere tutto più semplice potresti dirmi, per favore, se dobbiamo continuare su Jashin o su Scheletra? Sai che i simulatori hanno bisogno di un ID per funzionare».
Hidan rise, una risata sguaiata con uno strascico che sembrava non avere mai fine. Deidara rispose con un sorriso malizioso, che tuttavia tenne per sé. La webcam rimaneva accuratamente spenta.
«Simulatori? Ti è venuto duro, Torpedy?»
«Ok, è così che mi devi chiamare. Hai aggiornato la SXmachina alla versione 1.8?»
«Questo affare infernale che mi hai fatto comprare… sai quanti hard disk cartilaginei e innesti cerebrali potevo comprarci con quei soldi, cazzo?»
«Come se non ti piacesse», lo stuzzicò Deidara, tamburellando nervosamente le dita sulla tastiera mentre cercava di interfacciare la trasmissione con ID Jashin, il secondo account di Hidan.
«Porca puttana, non abbiamo niente di meglio da fare? Stavamo violando l’account di quella politicante… come si chiamava? Cesmadon? Sbaglio o eravamo giusto arrivati alla parte in cui iniziavamo a ricattarla? O sganciava trecento Shell sul nostro ID bancario, o le foto del suo culo finivano proiettate su ogni schermo della città. Dici che trecento sono troppi? Li molla trecento?»
Deidara soffiò sul microfono per mostrare tutta la sua insofferenza, mentre con gli occhi scorreva la lista delle categorie che offriva la SXmachina aggiornata all’ultima versione.
Il paese delle meraviglie. Dai semplici simulatori di sesso convenzionale, alle pratiche più impensabili, molte delle quali erano state ideate da programmatori amatoriali.
Hidan parlava decisamente troppo, le sue chiacchiere avevano un potere a metà tra l’ipnotizzante e l’anestetizzante. Sentirlo gemere e urlare porcate sarebbe stato un ottimo diversivo.
«Dopo, ora ho voglia di distrarmi. Sono tredici ore consecutive che lavoro per cercare di abbattere i wall di quel fottuto account. Aggiornala alla versione 1.8, e io inizializzo il programma BDSM. Ti va? Non è il tuo preferito?»
«Cazzo sì», affermò Hidan, leccandosi le labbra.
Deidara sorrise, e quasi involontariamente si toccò il collo, in un punto appena sotto la nuca, come per sincerarsi che il suo innesto più prezioso fosse ancora al suo posto. Quando ne sfiorò la sottile superficie metallica, sentì una fastidiosa scossa elettrica attraversagli la spina dorsale. Scrollò la schiena, sentendo il sangue defluire dalla testa alla pancia.
Deformò le labbra in un ghigno furbesco. La bocca, il mento e il naso erano le uniche parti del volto lasciate scoperte dal casco cibernetico.
«Sei stato un bimbo cattivo», rise, mentre con un dito premeva il tasto invio, dando inizio al loading dell’applicazione.


*




Gli innesti cibernetici che gli innervavano il corpo erano in modalità stand-by.
Il visore del casco trasmetteva l’immagine catturata da una telecamera installata all’esterno della Citybulb. L’obiettivo scrutava impotente nella vastità delle profondità oceaniche, e trasmetteva in diretta sul visore di Deidara ciò che vedeva.
Profondo blu metallico, echi lontani, remoti canti di cetacei, diatomee fosforescenti, meduse degli abissi, pulviscolo luminoso in sospensione.
Il cielo che tutti loro avevano sempre conosciuto.
Si chiamava Sleepapp. Era una delle applicazioni più scaricate dalla Matrice, e chiunque avesse acquistato un casco cibernetico progettato per la fase sonno, aveva a disposizione un download gratuito del software.
L’unico innesto organico che rimaneva attivo nella fase dormiente era un nastro di stagno, perfettamente aderente alla spina dorsale, che trasmetteva piccole scariche elettriche a intervalli regolari di dieci secondi, e aveva la funzione di conciliare il sonno e rendere ottimale il momento di riposo.
«Hey Torpedy».
Deidara non sognava. Era un inspiegabile effetto collaterale degli innesti cerebrali.
Quando un hacker – o un utente qualunque – decideva di compiere il grande passo, e di iniziare a installare dei circuiti elettronici nel cervello per aumentare esponenzialmente gli stimoli e le percezioni sensoriali, ecco che i sogni svanivano, giorno dopo giorno diventavano sempre più radi e psichedelici.
Finché, un giorno, scomparivano per sempre. Il temuto punto di non ritorno.
Da quel momento in avanti, l’organismo non avrebbe più potuto fare a meno degli impianti cibernetici che, oramai, aveva assimilato e riconosciuto come parte integrante del suo insieme.
«Svegliati, Torpedy».
Deidara aprì gli occhi di colpo, e subito gli appositi accessori installati all’interno del casco iniziarono ad inumidire abbondantemente le cornee. La Sleepapp si era interrotta, ora sul visore vi era solo una schermata nera e una chat inspiegabilmente aperta. Poche parole, digitate in un asettico courier new verde elettrico.

Hey Torpedy.
Svegliati Torpedy.

Deidara attivò all’istante tutti gli innesti cibernetici, e si sistemò meglio sul sedile progettato appositamente per accogliere e cullare il corpo umano per mesi, anni, finanche una vita intera.
Con pochi frenetici blink, decriptò l’IP dell’utente che l’aveva contattato.
Non era l’IP di Hidan. A dire il vero, non corrispondeva a nessun IP conosciuto.
«Vuoi giocare, figlio di puttana? Giochiamo allora, giochiamo».
Un hacker da quattro soldi, con tutta probabilità. Forse uno di quei ragazzini che avevano a loro volta violato l’account della politicante Chiasmodan, e che pretendevano l’esclusiva del ricatto. Hidan gli aveva detto che non erano stati i soli ad avere quell’idea, ma era del tutto certo che fossero stati i più veloci e i più discreti a metterla in atto.
Esistevano ben pochi hacker nella Citybulb che potessero competere con loro.
«E sicuramente tu non sei uno di quelli», ghignò Deidara. In pochi minuti aveva già individuato uno degli ID dell’intruso.
Era stato più facile di quello che pensava. Quel ragazzino non usava dei server personalizzati, ma si appoggiava a delle platform preesistenti nel deepWeb. Difficili da scovare, ma criptate con codifiche standard. E ovviamente Deidara conosceva quelle codifiche.
«Dilettante, sei più idiota di quel che pensavo. E ora che ne diresti se dessi il tuo IP in pasto alla Seeroyal, ID Ressand
Aveva il suo IP, aveva il suo ID, ora sarebbe stato un gioco da ragazzi incrociare i dati e violare il suo account biologico.
Deidara inizializzò l’applicazione che lui stesso aveva programmato, con l’aiuto di Hidan. L’avevano chiamata RipparDH, e compiva in autonomia molti dei passaggi e dei calcoli che, normalmente, un hacker doveva compiere manualmente per cercare di violare un profilo privato.
«La mia app squartatrice è entrata in azione. Ora devo solo individuare il wall da farle abbattere, poi sei morto Ressand».
Avrebbe avuto libero accesso a tutto il suo portfolio personale: il codice identificativo, i dati madre dei suoi innesti, l’albero genealogico, il gruppo sanguigno. Si sarebbe spinto più a fondo, una volta ottenute le password di accesso interno si sarebbe infiltrato nei suoi hard disk e avrebbe ottenuto tutte le sue foto, tutti i suoi documenti, qualunque cosa avesse archiviato nei backup.

C’era quasi.
Il countdown indicava 20 secondi all’abbattimento dell’ultimo wall.
Sei stato ingenuo ragazzino, ingenuo e sprovveduto a provocare l’hacker più capace di Muren.
Un ghigno malevolo e vittorioso si allargò sul viso di Deidara, mentre RipparDH destrutturava le ultime barriere di sicurezza.
Ora ti ho in pugno.
Deidara inizializzò la fase di download, e si preparò ad accogliere sul suo hard disk tutte le informazioni rubate. Ma, proprio quando visualizzò l’anteprima della prima cartella di dati, RipparDH crashò senza preavviso.
Al suo posto si aprì una schermata nera. In mezzo alla pagina era comparsa una figura grottesca, un’immagine in 2D di pessima qualità, raffigurante qualcosa di molto simile a una marionetta. Il burattino muoveva la mandibola grazie a un’animazione elementare. Una semplice gif.
«Sei stato un bimbo cattivo».
«Ma cosa...?» Deidara sentì il respiro mozzarglisi in gola. Sentì il battito cardiaco accelerare di colpo, e una violenta scarica di adrenalina vibrare nello stomaco.
«Sei stato un bimbo cattivo. Sei stato un bimbo cattivo. Sei stato un bimbo cattivo».
Quella era la sua voce. Era una registrazione della sua voce, una stringa audio sovrapposta a quell’orribile gif animata. Com’era possibile? Come cazzo era possibile?!
In poche altre occasioni si era sentito a tal punto afferrare dal panico, mentre batteva freneticamente le dita sulla tastiera e controllava che i suoi wall fossero rimasti inviolati. Eppure i sistemi di allarme che aveva installato in entrambe le tempie non l’avevano avvertito di nessuna intrusione.
Era assolutamente certo che il canale che aveva aperto con Hidan il giorno precedente fosse sicuro e privato, aveva codificato lui stesso lo script. Com’era possibile che quel ragazzino fosse in ascolto?
«Sei stato un bimbo cattivo».
Eppure, quella che sentiva era inequivocabilmente la sua voce. Quel bastardo poteva averlo tenuto d’occhio da giorni, da mesi! Se era riuscito ad ascoltare quella conversazione… quante altre sue chat scritte e vocali aveva spiato?
Sentiva la sudorazione aumentare, mentre cercava di ispessire i wall di sicurezza. Ma ormai era inutile costruirne degli altri, quel figlio di puttana si era già infiltrato nei suoi server.
Solo allora, i sistemi di sicurezza lampeggiarono, in trasparenza sotto la pelle delle sue tempie. Troppo tardi.
Deidara digrignò i denti. Quegli affari gli erano costati un patrimonio, e non erano riusciti ad avvisarlo in tempo della violazione in atto.
Ad un tratto, la marionetta scomparve, e al suo posto si aprì un’altra chat vocale. Courier new verde elettrico.

«Deidara? Ti chiami davvero Deidara? Che nome del cazzo…
Deidara CI 326401. Gruppo sanguigno AB. Sedici anni. Ah, ti piacciono i maschi? Sei davvero tu, l’hacker più furbo di Muren?» una risatina beffeggiatoria gli risuonò nelle cuffie.
Era dentro.
Cazzo, cazzo, CAZZO!
Deidara calò violentemente i pugni sulla tastiera, scardinando una manciata di tasti. Si morse le labbra fino a sentire in bocca il sapore del sangue. Gli inibitori meccanici si azionarono all’istante, iniettandogli nel collo e nell’inguine un ormone calmante. Se si fosse agitato troppo, rischiava che gli innesti si rompessero all’interno del suo corpo, causandogli gravi scompensi cognitivi.
«Tu chi sei?» disse, una volta che il liquido entrò in circolo nel sangue e cominciò a fare effetto.
«Posso anche dirtelo, visto che ormai so tutto di te, Deidara. ID Scorpio, ma puoi chiamarmi Sasori se preferisci».
«ID Scorpio? Mai sentito nominare», ribatté Deidara, sprezzante.
Sasori rise nuovamente. Una risata odiosa, quasi puerile.
«Bene! Io invece ho sentito molto parlare di te, ID Torpedy. Sei una specie di celebrità tra gli hacker, ma forse non hai capito bene che gli hacker, quelli veri e non quelli che giocano a farlo, sono quelli di cui nessuno ha mai sentito parlare».
«Come hai fatto a violare i miei wall, a decriptare i miei canali di comunic...»
Ma nel mentre che poneva la domanda, aveva già trovato la risposta.
La presunzione e la vanità l’avevano reso cieco. Non avrebbe pensato nemmeno per un momento che dietro quell’utente, quell’utente che l’aveva approcciato in modo così ingenuo, si nascondesse un hacker forse più abile di lui.
Sasori l’aveva attirato tra le sue fauci, così come un predatore abissale dai mille denti attira un pesciolino tra le sue enormi mascelle, servendosi di una suadente appendice luminosa.
Deidara aveva seguito quella goccia di luce fin dentro l’account fittizio di Ressand, aveva provato a violarlo sicuro che l’intrusione andasse a buon fine, certo di avere a che fare con un ragazzino inesperto che si credeva al sicuro solo perché utilizzava un remoto server del deepWeb, protetto da cinque misere stringhe di keycodeALT facilmente decriptabili.
Nel momento in cui aveva forzato il wall di Ressand, si era reso vulnerabile. Una violazione di alto livello avrebbe richiesto molte più misure di sicurezza, ma Deidara era convinto di avere a che fare con uno sprovveduto.
Invece, lo sprovveduto era stato lui, mentre dietro l’account di Ressand si nascondeva un hacker di ben altra levatura.
«Hai già capito da solo il tuo errore, non è vero?»
Deidara ringhiò, rabbioso come un animale in trappola. «Cosa diavolo vuoi da me?»
«Nulla, solo conoscerti».
«Conoscermi?»
«Esatto. Siamo colleghi, in fondo. Entrambi odiamo la Seeroyal e non c’è alcun motivo per fare a gara a chi consegna prima l’altro alle autorità.
Ho dato un’occhiata al tuo database e alla cronologia delle tue violazioni, Deidara, e devo ammettere che hai davvero un bel curriculum. Peccato che tu sia così vanaglorioso, se non ti piacesse da morire stare al centro dell’attenzione potresti essere perfetto.
Ti sei esposto in troppi siti, lo sai come ti chiamano su underwater.mu, nel deepweb? Savior Poseidon, un titolo altisonante, dato che da quando viviamo sul fondo del mare Poseidone è il dio del nostro nuovo cielo. Utenti anonimi ti pregano per far saltare in aria la cella abitativa di un poveraccio qualunque, ti invocano per farli diventare ricchi e famosi, ti supplicano per avere un milione di visual sui loro vlog spazzatura, e tu li accontenti per cento Shell, a volte anche per cinquanta.
Ti piace giocare a fare dio, Deidara?
Ma capiranno presto che non sei un dio, se ti farai ammazzare. E accadrà, se minaccerai un’altra volta il tesoriere di Aqueria. Sei stato audace, sfidare il più grande master bancario di Muren senza nemmeno celare il nominativo del tuo ID. Ma quanto credi che ci metterà la Seeroyal a capire che Torpedy e Deidara sono la stessa persona? Quel giorno, diverrai il cadavere più temerario di Muren».
«So benissimo quello che faccio, è da quando avevo sei anni che gioco con la Matrice, non ho certo bisogno che tu mi dia lezioni di prudenza. Tu non sai un cazzo di me».
«Sbagliato», dal tono della sua voce si capiva che Sasori stava sorridendo, «so tutto di te, so ogni cosa».
«Allora saprai anche che ho già un... collega, se così si può chiamare. Perché dovrei avere bisogno di te?»
Per qualche attimo, cadde il silenzio. Poi Sasori parlò di nuovo. Il suo tono era serio come non lo era mai stato negli ultimi dieci minuti.
«Ho una proposta da farti».
«Se si tratta di entrare in qualcosa di grosso, qualche organizzazione criminale o che so io, non importa quanti soldi mi offri. Non voglio legami di nessun genere».
«Non si tratta di questo, ascoltami. È da un po’ che ti osservo, ho visto come lavori. Non mi piacciono le tue manie di protagonismo ma i codici di debug dei tuoi wall mi piacciono molto di più.
Sono riuscito ad abbatterli solo perché ti ho fatto abbassare la guardia, altrimenti non sarei mai riuscito a violare il tuo account biologico, lo ammetto.
Credo che noi due possiamo lavorare bene insieme. Molti hacker stipulano tra loro un accordo di questo tipo, lo chiamano il patto degli immortali. Non ne hai mai sentito parlare?»
Deidara rimase in silenzio, e Sasori dedusse di aver attirato la sua attenzione. Senza attendere una sua risposta, continuò a spiegare, mosso ora da un certo entusiasmo.
«Se uno di noi due muore, o se finisce con il cervello trafitto dagli aghi delle prigioni di Stato, l’altro prende in mano il suo account biologico, la sua identità fittizia, il suo IP, ogni cosa. In modo che se Deidara o Sasori muoiono, Torpedy e Scorpio continuano a vivere».
«A cosa servirebbe?»
«Non ti piace proprio, eh, l’immortalità?»
«L’immortalità non esiste».
«Sbagliato. Esiste nella Matrice. Conosco un ID passato nelle mani di cinque utenti. Un ID che esiste da duecentocinquanta anni. E continuerà ad esistere finché Muren non collasserà sotto il peso dell’oceano. Allora, cosa rispondi?»
Deidara pensò all’opportunità di collaborare con un hacker di quel calibro.
Pensò a quante cose avrebbe potuto fare, forse persino violare i sistemi di navigazione dei sommergibili transoceanici. Tuttavia, se pensava al modo in cui Sasori l’aveva ingannato, si sentiva scuotere da una rabbia impetuosa.
Cercando di recuperare la calma, attivò la telecamera in modo da vedere all’esterno del casco cibernetico senza toglierlo. Pazientemente, rimise al loro posto i tasti che aveva fatto saltare dalla keyboard. Quelli che avevano la testina irrimediabilmente danneggiata, li gettò via. Frugò in una delle numerose scatole che ingombravano la sua piattaforma di lavoro e li sostituì con dei vecchi pezzi di ricambio.
Sasori era ancora in linea, attendeva ancora una risposta.
«D’accordo», disse.
   
 
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