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Autore: ClaryMorgenstern    14/10/2016    0 recensioni
Chiunque sarebbe andato bene, per ricucire i suoi pezzi. Ed era stato mentre andava alla festa in cui avrebbe incontrato Jesse che prese l'ascensore che portava all'appartamento in cui si sarebbe tenuta. Una sala in cui era già stata e per cui aveva sempre preso le scale; odiava gli ascensori, scatole infernali pronte a seppellirla viva, e per cui stavolta aveva preso l'ascensore, troppo stanca per farsela a piedi. C'erano altre persone, nell'ascensore, molte delle quali scesero a piani inferiori al suo, Solo una rimase con lei nel tragitto fino all'ultimo piano. E fu con quella persona che rimase bloccata per le tre ore successive. Un blocco del motore, le avrebbero spiegato dopo, un semplice guasto che sarebbe potuto capitare a chiunque in qualunque momento, e invece era capitato a lei.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è dedicata a due persone.
A Teresa, a cui dedicherei ogni mio respiro
e a Rosy, mia musa e mia piccola Leopardi.

 


«Beate le marionette, ― sospirai, ― su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi!
Non perplessità angosciose, nè ritegni, nè intoppi, nè ombre, nè pietà: nulla!
E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener sè stesse in considerazione e in pregio,
senza soffrir mai vertigini o capogiri

Luigi Pirandello - Il fu Mattia Pascal

 

 Lo strappo nel cielo di carta

 
Non lasciare che il mondo ti spezzi. Non tornerai più indietro.
Ed era vero. Lei era stata fatta a pezzi, smembrata in singole e minuscole parti che era difficile anche solo vedere.
Spezzata dalle sue stesse mani.
Non che l'avesse esattamente cercato. Diciamo che non aveva fatto nulla per evitarlo. Aveva deciso di farsi toccare così dal mondo, di farsi spezzare, di tenerci così tanto da rimanerci male ogni volta, di affezionarsi così tanto da farsi distruggere. Di amare così tanto da spezzarsi ogni volta. Ma non avrebbe potuto fare altro. Amare e odiare, si disse, non erano esattamente sensazioni sotto il suo controllo. Quando amava, amava con tutta sé stessa, come se non sarebbe mai stato abbastanza tutto l'amore che poteva.
I suoi amici lo sapevano bene. Erano loro su cui riversava tutto il suo amore. Amore non sempre appagato o ricambiato. Amava così tanto persone che magari non ci pensavano nemmeno così a lei, ma non poteva farci niente, se non lasciarsi spezzare volentieri.
Ed era stata spezzata.
Non che le mancasse nulla. Era circondata da amici che la amavano, da genitori che la adoravano anche se non sapevano esattamente come prenderla. Non aveva problemi economici, o sociali, relazionali, scolastici, o di salute. Ma si sentiva vuota e senza senso, alla deriva di una vita che non riconosceva come sua o che valesse la pena anche solo di essere vissuta, senza trovare mai il coraggio di finirla.
Ed era per questo che aveva cercato Jesse.
Era un appuntamento al buio che le aveva cercato una sua amica in un attimo di disperazione. Non puoi rimanere sempre da sola in una città che nemmeno conosci. Le aveva detto. Esci, incontra gente, fai amicizie e anche qualcos'altro. Sai, c'è questo ragazzo…
Di questo Jesse non sapeva nulla, se non che avesse la barba e tanto le bastava. Chiunque sarebbe andato bene, per ricucire i suoi pezzi. Ed era stato mentre andava alla festa in cui avrebbe incontrato Jesse che prese l'ascensore che portava all'appartamento in cui si sarebbe tenuta. Una sala in cui era già stata e per cui aveva sempre preso le scale; odiava gli ascensori, scatole infernali pronte a seppellirla viva e per cui stavolta aveva preso l'ascensore, troppo stanca per farsela a piedi. C'erano altre persone, nell'ascensore, molte delle quali scesero a piani inferiori al suo. Solo una rimase con lei nel tragitto fino all'ultimo piano. E fu con quella persona che rimase bloccata per le tre ore successive. Un blocco del motore, le avrebbero spiegato dopo, un semplice guasto che sarebbe potuto capitare a chiunque in qualunque momento e che invece era capitato a lei. Ovviamente.
Appena quello si bloccò, mise le mani sulle pareti in gesto di resa. No, quel dannato coso non poteva bloccarsi.
 «Non farti prendere dal panico. Non funzionerà più in fretta»
Emma si volse di scatto, furiosa. «Nemmeno rompermi le scatole.» gli rispose, piccata.
Premette svariate volte il pulsante di soccorso, senza risultati. «Calmati» le disse ancora il ragazzo insieme a lei. «O inalerai tutta l'aria presente e moriremo prima.» le staccò me mani dalla parete non troppo delicatamente e gliele mise sui fianchi. «Cazzo, calmati. Ci troveranno e faranno ripartire questo affare.»
«Si ma io me ne devo andare!»
«Anche io!» urlò quello di risposta. «Ma prenderti di panico non servirà a nulla»
«E tu che ne sai?»
 Il ragazzo la guardò storto. «Calmati» le disse più dolce, ora. «Andrà tutto bene» Emma si lasciò andare a un sospiro. «Non va mai, tutto bene»
 
Quando si fu calmata, il ragazzo le porse una bottiglietta d'acqua. «Bevi»
Emma scosse la testa. «Passo»
«Non ti stavo chiedendo gentilmente se ti andasse dell'acqua, Gesù. Ti ho detto di bere.» L'ascensore era illuminato solo dalla luce rossa d'emergenza, quindi non riusciva benissimo a distinguerne i tratti del viso.  Doveva avere poco più della sua età. Emma alzò le sopracciglia. «Non perché siamo chiusi qui dentro puoi pensare di darmi ordini. Non ti conosco nemmeno» Lui la ignorò completamente, portandole la bottiglia alle labbra e facendole bere di forza dell'acqua fresca che Emma buttò giù molto più volentieri di quanto credesse. «Fai silenzio» le disse, un sorriso sulle labbra piene. Odiava quando le dicevano di stare in silenzio.
«Tu abiti qui?» le chiese il ragazzo.
Emma si irrigidì, rendendosi conto di essere in uno spazio chiuso, troppo chiuso, insieme ad un ragazzo, dove nessuno poteva sentirla urlare. Sarebbe stato troppo facile farle del male. Si sentì in trappola, soffocata. Il respiro le si accellerò.
E lui lo notò, ovviamente. Allora si allontanò da lei il più possibile, mettendosi a sedere nell'angolo più distante dell'ascensore e incrociando le braccia al petto. «Non ti farò del male. Tentavo solo di fare conversazione dato che mi sa che rimarremo bloccati qui per un po'. Le ragazze mi piacciono meno spaventate e più consenzienti.»
Emma incassò il colpo. Era ormai una sua deformazione diffidare di qualunque cosa e di chiunque le mostrasse gentilezza. Non che la vita le avesse mai dato motivi per ricredersi, certo, ma magari poteva abbassare un po' la guardia. Lo sguardo di lui era abbastanza tranquillo, ma in genere era quello che avevano gli psicopatici. Tentò comunque di mantenere un certo contegno. Si schiarì la gola. «No» disse. «Sono venuta qui per una festa»
Gli occhi di lui si accesero. «Stai andando da Jesse?»
Lei annuì.
«Quindi abbiamo anche la stessa destinazione.»
La ragazza si rilassò un po'. «Tu come lo conosci?»
Si sistemò meglio a sedere, con una smorfia di fastidio. Emma lo capì bene, quel pavimento di legno era scomodo da morire. «Amico di amici.» rispose, parecchio vago. Emma non approfondì oltre.
«E tu invece? Come lo conosci?»
Lei fece un sorriso sottile. «Amico di amici»
Seguì un breve silenzio, mentre lui armeggiava col cellulare che, ovviamente, non aveva campo, proprio come il suo. «Quindi stai aspettando di vedere Jesse anche tu»
Non era esattamente una domanda, ma Emma annuì lo stesso. «Già. Pareri esterni dicono che potremmo trovarci bene, insieme»
«E i pareri interni che dicono?»
La ragazza scosse le spalle. «Aspetto, come sempre»
«Aspetti?»
 «Si, aspetto.» rispose lei. «Aspetto per saperlo, aspetto a farmi una prima impressione.» Aspetto per farmi spezzare.
 Lui alzò un sopracciglio con fare scettico. «E che succederà quando arriverà?»
Sarò salvata. «Cosa ne posso sapere? Magari andrà bene»
E magari era vero. Da come aveva impostato la cosa la sua amica, che la conosceva meglio di quanto lei stessa si conoscesse, Jesse poteva essere perfetto per lei. Non aveva approfondito con le domande. Era meglio la sorpresa.
Una risata soffocata interruppe il filo dei suoi pensieri. «Bugiarda»
Emma lo guardò indignata. «Come scusa?»
«Mi hai sentito bene. Bugiarda» ripeté lui. «Dici un sacco di cazzate»
 «Non mi conosci affatto, non fare finta del contrario»
Lui sorrise. «Non ho bisogno di conoscerti per riconoscere una bugia, sai? Hai un sacco di speranze, le riesco a vedere chiaramente. Fantasie di una bambina, a mio avviso.»
Emma sentì la rabbia salire acida nella sua gola. Non aveva senso litigare con uno sconosciuto sul motivo per cui si trovava lì. Anche perché non era ben sicura di saperlo nemmeno lei stessa. Era lì perché una sua amica, un'amica di cui si fidava ciecamente le aveva detto che quel Jesse poteva essere il suo tipo, e così era andata a conoscerlo. Perché no, si era detta. Così tacque, fissando ostinata il quadrante dell'ascensore. Lo sentì avvicinarsi strisciando sul vecchio parquet. «Ti ho offesa» Non era una domanda.
Emma si girò verso di lui, alzando le sopracciglia. «No, affatto.»
 «Cazzo, sei proprio insicura» rise lui. «Vuoi sbattermi anche tu in faccia una bruciante verità?»
«Sei uno stronzo»
 
«Fiona?» buttò lì, lui.
«Acqua. Freddissima anche.»
 «Giorgia»
 «Nemmeno. Lontanamente. Vicino.»
«Caroline?»
«Pensa più italiano»
Era da un po' che facevano questo giochetto. Lui buttava nomi femminili a caso sperando di azzeccare il suo nome. Ovviamente glielo aveva chiesto esplitamente, ma la ragazza era sempre stata restia a dire il suo nome. Aveva sempre pensato che ci fosse una sorta di potere nel nome di una persona e non aveva molta voglia di dare anche solo un minimo di potere nelle mani di qualcuno. Chiunque poteva approfittarne, chiunque poteva spezzarla.
Però si annoiava e quel gioco la divertiva.
Anche lui sembrava divertito. «E' un indizio troppo vago. Almeno dimmi la lettera iniziale»
 Emma ci pensò su. «Cambiamo gioco, allora. Una domanda per una domanda. Ovviamente non troppo personali.»
 
«Quattro. L'ultima cosa che hai mangiato?»
 «Pasta con le cozze. Tu?»
 «Pizza. Cosa studi?»
«Medicina e chirugia, tu?»
 «Per il momento nulla.. Sei mai stata innamorata?» Eccole, le domande personali. Erano andati avanti un po', in quel domanda/risposta che assomigliava molto a una partita di Tennis. Avevano snocciolato fatti e avventimenti di poco conto - cibi preferiti, libri letti, film visti, le volte in cui erano stati in pronto soccorso - senza toccare argomenti strani. Lui aveva aspettato che lei abbassasse le difese, per farlo.
Inaspettatamente, anche per sè stessa, Emma decise di rispondere. «Si. Sei innamorato?»  chiese, con aria di sfida.
Un sorriso tirato. Non se l'aspettava. «Una parte di me lo sarà sempre. Ma non è finita bene. Bevi? Fumi?»
 «No e non più. Sono due domande: Il tuo nome finisce con la A?»
 «No»
 «La O?»
 «Neanche, e hai sprecato due domande»
 
Emma alzò il braccio, e lo riabbassò con aria sconsolata. «
È passata un'ora, perché non ci hanno fatto ancora uscire?» Il ragazzo, che aveva il nome che cominciava per consonante, scrollò le spalle. «Il tecnico ha detto che ci sarebbe voluto un po' l'ultima volta . Che c'è? Sei stanca di essere chiusa qui con me?»
Stavolta toccò a lei sbuffare. «Non era la mia massima aspirazione della serata»
Lui scrollò le spalle. «L'ultima volta che se stata a letto con qualcuno?» Trasalì così violentemente da far cadere la bottiglietta d'acqua che aveva ancora nelle mani.
«Non avevo detto niente domande personali?»
«Domanda puramente informativa e accademica. Allora?» Lei acuì la vista, ma non vide nel suo viso altro che innocua sincerità.
«Tre mesi fa. Era quella di cui eri innamorato l'ultima volta che l'hai fatto tu?»
«No. Sei stata bene con quel tipo?»
«Solo fisicamente. Conosci bene Jesse?»
Lui scosse le spalle come a dire che la domanda quasi non lo riguardava. «Abbastanza. Hai smesso di andare a letto con qualcuno solo perché non ti sei innamorata subito di lui?»
«Ho smesso perché non ce la facevo più a farmi spezzare»
Ora toccò a lui alzare il sopracciglio. «Non credevo ti piacesse il sadomaso»
«Divertente» sospirò lei. «Perchè per il momento non studi nulla?»
«Perchè mi sto prendendo una vacanza. Che intendi con "farmi spezzare"?»
Usava quell'espressione da così tanto che non ricordava bene a cosa l'avesse associata la prima volta.  Aveva tredici anni, forse, ed era stato per la morte di Omega. Quando aveva visto quel corpicino del gatto mangiato vivo da una malattia che non erano riusciti a fermare in tempo si era sentita per la prima volta in quella maniera, come se qualcosa avesse cominciato a mangiare lei dall'interno, quasi come se dei pezzi di lei si fossero separati in un puzzle che si supponeva rimanere intero. Certo, quei pezzi poi erano tornati al loro posto, dopo tantissime lacrime versate sul cumulo di terriccio sotto la quale giaceva Omega, ma era come se quei pezzi fossero cambiati, se avessero perso quella perfezione dell'incastrarsi tipica dell'anima umana e ora erano stridenti, non più in armonia.
Solo anni dopo avrebbe conosciuto Pirandello, il suo grande amore, ed era riuscita a dare un nome a quella sensazione. Lo Strappo nel cielo di carta di cui l'autore parlava e che lei aveva provato sulla propria pelle e in qualche forma più profonda del suo essere, non riuscendo più a scorgere l'azzurro sopra di sè, oscurato ormai da ciò che si celava al di là dello squarcio, di quel qualcosa che l'aveva spezzata. Non desiderava altro che ritornare ad essere una di quelle marionette, Beate le marionette, su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi!
Si rese conto di essersi persa nel filo dei suoi pensieri solo quando il ragazzo le schioccò le dita davanti al viso. La cosa la irritò così tanto che strinse i denti. Odiava essere risvegliata dal suo mondo. «Ci sei ancora?»
«Con "spezzare"» disse lei, ora visibilmente nervosa «intendo proprio quello che succede alle matite, quando i loro possessori sono nervosi. A un certo punto la pressione delle dita non viene più controllata e boom,» mimò il gesto con le dita. «La matita è rotta.» disse laconica. «Certo, puoi sempre temperare l'estremità e avere due matite, ma ciò non significa che è ancora ciò che era.»
Il ragazzo arcuò le sopracciglia curioso. «Ed è questo che ti è successo? Qualcuno ti ha preso e usato come una matita e ti ha spezzata?»
Si. «No.»
Il ragazzo si grattò il capo visibilmente incuriosito. «Sai, mi stai confondendo» disse. «Prima dici di volere conoscere gente nuova, come il nostro Jesse, poi dici di avere paura di "essere spezzata". A chi stai mentendo? A me o a te stessa?»
Emma strinse I denti. «Ora tocca a me, veramente.» ribattè. «Sei sempre così ficcanaso nelle emozioni altrui?»
«Sei tu che hai voluto fare questo gioco delle domande. Io so solo dove andare a parare»
«Avevo anche detto niente domande personali.»
Lui alzò le mani in segno di resa. «Va bene, mea culpa. Ho fatto due domande, ora tocca  te.»
La ragazza si rilassò un po', e lo guardò. Ora che la sua vista si era abituata all'oscurità, riusciva a vederlo meglio. Aveva un viso familiare, perchè aveva descritto visi così migliaia di volte nei suoi libri. Mascella squadrata, ruvida di barba non fatta da giorni, a chiazze rossiccia. La pelle puntellata di piccoli nei che disegnavano una mappa sul viso e occhi grandi sopra gli zigomi alti, così scuri da sembrare neri.
E se proprio sembrava uno dei suoi personaggi maschili, allora..
«Nate» sussurrò. «Ti chiami Nate?»
«Si» rispose lui.
 
Nathaniel Green era il primo personaggio originale che avesse mai creato, e se ne era così perdutamente innamorata che l'aveva riproposto in quasi tutti i suoi scritti, cambiandogli il nome e magari, alcune volte, l'età. Aveva anche vinto un premio, grazie a Nate, un paio d'anni prima, grazie a una favola di cui l'aveva reso protagonista.
Nate era stato uno studente universitario, uno psicopatico rinchiuso in un manicomio, un chiururgo di guerra, un coniglio (nella favola) ed era stato, era e sempre sarebbe stato il suo primo amore. Si dice che gli scrittori si sentano un po' come degli Dei, nei confronti dei propri personaggi, che decidono del loro destino e del loro fato ridendo incuranti delle loro sventure e non curandosi delle loro disgrazie, o un po' come dei genitori che provano dell'affetto filiale e che  li curano dal loro primo vagito fino all'ultima pagina del loro lavoro.
Per Emma non era così. Nate era nato dalla sua penna, era vero, quasi dieci anni prima, quando aveva cominciato a scrivere e non era altro che una dodicenne impaurita e speranzosa che ancora non era stata spezzata. Nate era cresciuto insieme a lei. Mentre lei cambiava, mentre affrontava l'adolescenza e tutto ciò che la vita le proponeva, Nate affrontava la vita insieme a lei, fianco a fianco, cambiando insieme a lei, maturando insieme a lei, indurendosi insieme a lei, inacidendosi e chiudendosi alle emozioni sempre con lei. In Nate, Emma aveva messo tutta sè stessa, tutte le delusioni, le frustrazioni, le intemperie, la felicità, le gioie e i dolori.
Ed era stata con la morte di Nate che aveva smesso di scrivere, quasi tre anni prima. Era successo all'improvviso, senza che lei se ne rendesse conto. Era al computer, sola in camera sua come sempre quando scriveva, e stava finendo il suo ultimo libro, il suo capolavoro come l'avrebbe descritto successivamente la sua migliore amica e nell'ultima scena le sue dita erano corse veloci sulla tastiera e così come era nato, Nate era morto sotto le sue dita.
Si era sentita spossata, svuotata dopo aver scritto quelle parole. Si era alzata dal letto, si era fatta un caffè e fumata la sua ultima sigaretta prima di scoppiare a piangere.
Da lì non era più riuscita a scrivere neanche una parola. Non che non ci avesse provato, ma le frasi sembravano sconnesse, forzate, uscite da un'anima spezzata.
Non pensava a Nate da anni, ormai. L'aveva considerato come un fantasma da non nominare mai, nonostante lui nella realtà non fosse mai esistito. La morte di Nate aveva segnato la fine delle sue fantasie, la fine del suo periodo creativo e la sua fine.
Poi aveva avuto altre cose a cui pensare: La maturità, il test d'ammissione a medicina, il trasferimento a Roma e la fine del suo primo amore fisico, che aveva fatto da sfondo e da protagonista a tutte le altre cose.
Avrebbe tanto voluto Nate al suo fianco, in quei momenti. Quando piangeva disperata nella sua camera perchè il ragazzo che amava l'aveva presa e usata a suo piacimento, quando aveva fallito per la prima volta il test d'ammissione e quando si era ritrovata per la prima volta davvero sola, in quella stanza buia nella capitale. Nate avrebbe saputo come prenderla, come farla tornare a sorridere e a scrivere. Nate, l'unico che sapesse ricucire I suoi pezzi.
E ora si trovava d'avanti quel falso Nate, che nell'aspetto poteva sembrare lui ma non era lui.
«Ti sei persa di nuovo nei tuoi pensieri, splendore?» le chiese con un sorriso all'angolo della bocca.
Splendore. Fu quell'epiteto che la fece uscire di senno.
Tutto ok, splendore?
Ti sei persa, splendore?
Buongiorno splendore.

Scattò in piedi così in fretta che il telefono che aveva poggiato sulle gambe le scivolò e cadde in terra, ma lei non se ne curò. «Chi cazzo sei tu?» urlò, livida.
Lui la guardò come si guarda un cucciolo di cane che all'improvviso si mette a ringhiarti contro. «L'hai detto tu. Sono Nate» disse con calma, alzandosi in piedi.
«Non sei Nate!» urlò ancora, sembrando stupida persino alle sue orecchie. «Nate è nella mia immaginazione, e lui non c'è più!»
Ora stava singhiozzando, rendendosi piano piano conto dell'assurdità della situazione. Stava urlando contro a uno sconosciuto, bloccata in ascensore, solo perchè si chiamava come un personaggio dei suoi romanzi che aveva ucciso anni prima. Stava impazzendo? Era forse l'unica spiegazione. Forse era sola, in quell'ascensore, e lui era solo una manifestazione della sua psiche che non voleva farla rimanere in quel trabicolo guasto per ore e da sola. Si, doveva essere decisamente così. Una semplice allucinazione creata dalla claustrofobia, dal panico e dalla mancanza di ossigeno.
Però l'abbraccio che ricevette subito dopo era decisamente reale.
Si rese conto solo in quel momento che lui non l'aveva ancora toccata. Da vicino il suo odore era ancora più forte: sapeva di tabacco e di smog, segno che doveva essersi fumato una sigaretta all'aperto prima di entrare in quell'ascensore insieme a lei. Era un odore reale, tangibile che le pungeva I recettori dentro il naso.
E allora scoppiò a piangere, coccolandosi in quell'abbraccio e stringendo le spalle del ragazzo, avvolte in una giacca di pelle. Il ragazzo la strinse più forte, a ritmo dei suoi singhiozzi, le accarezzò i capelli senza sfiorarle il viso, come se sapesse che era una cosa che odiava. «Va tutto bene» le disse, cantilenante sotto il suo pianto. «Va tutto bene, Emma. Va tutto bene.» Ma non andava mai, tutto bene. Era una frase che si diceva sempre, quando qualcuno ti piange addosso. La si ripeteva così tanto che alla fine ci si autoconvinceva. Va tutto bene. Ma cosa? Tutto, bene. Ma cosa significava andare bene, Emma non lo sapeva. Sapeva solo che quel pianto stava lavando qualcosa dentro di sè, oltre la giacca del ragazzo.
Emma non seppe per quanto tempo rimasero accoccolati in quell'abbraccio. Seppe solo che vi si scostò quando le luci di emergenza si spensero e l'ascensore riprese la sua corsa fino al dodicesimo piano. Emma si staccò e prese un fazzoletto dalla borsa per asciugarsi il viso mentre il ragazzo, Nate, si sistemava i capelli nel riquadro lucido dell'ascensore.
Le porte dell'ascensore si aprirono e videro una folla di gente pronti ad aspettarli, primi tra tutti due paramedici che si assicurarono della loro condizione fisica prima di lasciarli ai partecipanti della festa che avevano uno sguardo misto tra l'ubriaco, il preoccupato e il confuso. Un ragazzo dalla barba rada le si avvicinò, togliendole una ciocca di capelli dal viso. «Però. Thess mi aveva detto che eri un tipo speciale, ma non pensavo così tanto» le sorrise.
Emma fece un sorriso. Doveva essere Jesse. La sua amica aveva ragione: Esteticamente sembrava fatto in laboratorio per piacerle: Capelli riccissimi e scuri, occhi verde mare enormi e sorridenti sopra dei bei zigomi pronunciati e una bocca piena e rossa come le mele. Un fisico asciutto e delle bellissime mani da pianista.
Emma fece vagare lo sguardo lontano, dove Nate veniva accerchiato da quelli che dovevano essere i suoi amici. Si girò solo un secondo, come chiamato dal suo sguardo e le sorrise, prima di scomparire dietro quella che doveva essere la porta dell'appartamento di Jesse.
Riusciva a sentire l'eco delle sue ultime parole risuonarle nella testa. «Va tutto bene, Emma. Va tutto bene»
Solo allora si rese conto di non avergli mai detto il suo nome.
 
Tornare a lezione fu facile. Un gesto quasi meccanico che le permise di concentrarsi su qualcosa che non fosse come diavolo facesse Nate a conoscere il suo nome. Non l'aveva più rivisto dopo quella sera. Non aveva nemmeno idea di dove cercarlo.
Poi, metodologia di base era una delle sue materie preferite.
«Come ben sapete» stava dicendo infatti il suo professore «Gli assetti centrali della pratica della psicologia clinica sono le applicazioni che essa ha sulle attività di prevenzione, valutazione, abilitazione e sostegno psicologico al paziente, con particolare riferimento alla psicodiagnostica e all'intervento terapeutico - riabilitativo, soprattuto alla presa in carico delle situazioni dove è presente una psicopatologia strutturata.»
In poche parole: Se vuoi curare il corpo di un paziente, comincia dalla sua psiche, perchè ci potrebbero essere cose che la sua mente nasconde a te e anche a sè stessa.
«Freud, tanto per citare qualcuno a caso, cominciò a parlare dell' inconscio, inteso un complesso di processi, contenuti ed impulsi che non affiorano alla coscienza del soggetto e che pertanto non sono controllabili razionalmente. Egli riferì il termine dapprima ad una parte della mente in cui si trovano i contenuti psichici rimossi, per poi passare ad indicare i contenuti stessi che possono riaffiorare nei sogni in forma simbolica, o manifestarsi come atti mancati, come i lapsus e le distrazioni. In sintesi nella nostra psiche esiste una dimensione inconscia e irrazionale, in cui si annidano una serie di istinti e desideri il cui contenuto non si manifesta a livello cosciente, ma la cui soddisfazione è necessaria, pena il manifestarsi di disturbi mentali e comportamentali più o meno gravi come le nevrosi e le psicosi…»
Fu allora che lo vide.
Era seduto in prima fila, dove si solito si sedeva lei per due motivi principali: Il primo era che in quella maniera poteva sentire meglio la voce dei professori, cosicchè non si sarebbe persa nulla, la seconda è che in quel modo non si sarebbe distratta a guardare le persone che aveva intorno. L'unico motivo per cui quel giorno era negli spalti più alti era che dopo una nottata in cui non aveva chiuso praticamente occhio aveva fatto tardi a lezione e aveva preso il primo posto disponibile.
E forse era per questo che non l'aveva mai notato, nella sua aula. Perchè in genere non faceva mai attenzione a ciò che aveva attorno se non a quello che spiegava il docente.
E, come la molla che faceva scattare le nevrosi nei pazienti e che li faceva ammattire, ricordò.
 
«Buongiorno, splendore»
La bambina sorrise, arrossendo. Era così carino quando la chiamava così. Le aveva portato i biscotti con la marmellata, come aveva fatto tutti i giorni quell'estate e l'estate precedente e l'estate prima ancora. Emma amava l'estate, il caldo afoso e il mare perchè sapeva che solo d'estate poteva vederlo. Lui non abitava lì, le aveva detto la mamma, e veniva solo d'estate per stare con la nonna. Giocavano insieme tutti i giorni, sulla spiaggia. Era diventata quasi una tradizione. Lei lo aspettava impaziente seduta sulla ringhiera dell'ingresso quando i suoi genitori la portavano al mare e quando lui arrivava le scoccava un bacino sulla guancia, porgendole i biscotti.
Emma non sapeva come facesse a sapere che quelli erano i suoi biscotti preferiti, nè mai glielo chiese.
Sapeva solo che lui la conosceva bene. Era il suo migliore amico.
Poi, un giorno, qualcosa cambiò. Mentre giocavano insieme lui era inciampato su dei rami ed era caduto a terra e si era fatto parecchio male a una gamba. Sua madre si era messa a urlare un sacco, soprattutto contro di lei, che era una mina vagante e che doveva stare lontana dal suo bambino.
L'ultima cosa che ricordasse fu il suo sguardo mentre la madre lo portava in infermeria, lontano dal suo sguardo.
Lontano da lei.

 
«Ricordi, adesso?»
Quante cose aveva sepolto, il suo inconscio? Quanti momenti momenti aveva scacciato in un angolo buio del suo cervello, perchè faceva troppo male pensarci?
Era per questo che aveva scelto di studiare a Roma? Perchè ricordava che lui viveva lì? Era per questo che aveva scelto medicina?
Quante cose aveva scelto? E quante altre erano state dettate da un istinto che nemmeno ricordava?
Lui le si sedette a fianco, sulla panchina di pietra che stava fuori dalla classe. Non disse nulla, ma uscì fuori dalla tasca il tabacco, le cartine e i filtri. Girò due sigarette, e gliene porse una. Emma non disse nulla, ma se la portò alle labbra e l'accese.
Quando fu arrivata a metà della sua seconda prima sigaretta, trovò la forza di parlare. «Quando te ne sei accorto?»
Lui scosse le spalle, sorridendo. «Dalla prima volta che ti ho vista in classe. Avrei riconosciuto i tuoi riccioli rossi ovunque.»
Emma si voltò a guardarlo. Nate esisteva davvero. Era stato il suo migliore amico per anni e lei l'aveva completamente rimosso dai suoi ricordi per istinto di autoconservazione, perchè faceva troppo male pensarci. Faceva troppo male pensare che era stata colpa sua se non si vedevano da anni. E allora Nate era tornato nelle sue fantasie, nei suoi lavori, nelle sue speranze.
E ora era lì, davanti a lei. In carne e ossa.
«Perchè non mi hai detto nulla?»
Anche Nate la guardava, e non si sforzò nemmeno di chiedersi cos'era quel luccichio nei suoi occhi. «Non volevo spaventarti, nè fare la figura del pazzo. Che avresti pensato se ti avessi detto tutto mentre eravamo bloccati in ascensore?»
Che era pazzo, ecco che avrebbe pensato. Mentre lui voleva fare le cose con calma. Voleva che ricordasse da sola.
Emma gettò via il mozzicone ormai spento. Non gli chiese nemmeno come facesse a sapere che fumava, dato che aveva cominciato anni dopo averlo perso.
Non disse nulla, perchè quello non era più il momento di parlare. Si sistemò meglio nel suo abbraccio, e lasciò che il calore di Nate, del suo Nate, la spezzasse.
Ma non successe.
 
Nate infilò le mani nei suoi capelli facendole il solletico, mentre lui si sistemava dietro di lei, seduta davanti al pc. «Stai finendo la tesi?» le chiese con dolcezza prima di lasciarle l'ombra di un bacio sulle labbra.
Emma scosse il capo. «È una cosa a cui sto lavorando da un po'»
Nate rise. «Muoio anche in questa?»
Anche Emma rise di rimando. «No» disse alzandosi dalla scrivania e passandogli le mani intorno alla nuca e sfiorandogli i capelli. «Questa è la storia di come ricuci i miei pezzi.»
  
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