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Autore: Bad Devil    15/10/2016    1 recensioni
Jonathan quasi ciondolava accanto a lui, camminava in modo irregolare ma a testa alta, non mostrando il minimo pentimento o la più vaga ombra di preoccupazione per quanto appena fatto.
Edward camminava al suo fianco, gettandogli di tanto in tanto un’occhiata rapida, senza mai voltarsi per non incontrare il suo sguardo.
“Che diamine hai che non va, oggi?!”
[Scriddler / RiddleCrow ] [Scarecrow] [Menzione di Psicosi e disturbi psichici]
[AU - Parte della raccolta "Riddler's Box of Memories"]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: L'Enigmista, Scarecrow
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Riddler's Box of Memories'
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Titolo: “Black Out”
Autore: Cadaveria Ragnarsson
Fandom: Batman
Personaggi: Jonathan "Scarecrow" Crane; Edward "The Riddler" Nygma; Scarecrow
Pairing: Scriddler (implicato)
Genere: Malinconico, Violenza
Rating: R
Avvertimenti: Menzione di Disturbo Dissociativo di Personalità, Psicosi e Insonnia
Disclaimer: I personaggi presenti in questa storia non sono reali, né di mia proprietà. Inoltre sono maggiorenni. Non ho nessun diritto legale su di loro a differenza degli autori e, dalla pubblicazione di questo scritto, non vi ricavo un benché minimo centesimo.

Note: Questa storia fa parte della raccolta "Riddler's Box of Memories", concettualmente basata sull'idea di Edward e Jonathan cresciuti insieme, prima di diventare i villains di Gotham.



Black Out


Quella mattina Jonathan era strano.

Ne aveva avuto le prime avvisaglie poco prima delle lezioni, quando come al solito si erano fermati al bar della scuola per fare colazione. Edward aveva ordinato per entrambi, ben sapendo le abitudini dell’altro ragazzo, gli aveva sorriso da dietro la tazza della propria cioccolata prima di fermarsi e realizzare cosa stesse succedendo davanti ai suoi occhi.

Jonathan aveva preso un sorso del proprio caffè e ci aveva aggiunto tre bustine di zucchero.

Tre.

Un record per uno come lui che lo beveva nero e al naturale, da ormai un anno e otto mesi da quanto lo conosceva.

Edward non commentò né diede peso alla faccenda, inarcando un sopracciglio dallo stupore ma non permettendosi di andare oltre. Non era la cosa più insolita che gli avesse visto fare ultimamente e ne attribuì la causa alla lunga deprivazione da sonno.

Non era stato nemmeno di molte parole, Jon, quella mattina. Aveva risposto al suo saluto con un cenno, limitandosi poi a camminare al suo fianco fino alla piccola caffetteria. Ora che ci pensava bene, il ragazzo non gli aveva parlato affatto, quella mattina. Non che di solito fosse il tipo di persona che si perdeva in chiacchiere smisurate, ma solitamente su trenta parole di Edward, un paio erano sue.

“Ti senti bene?”

Gli chiese il rosso ad un certo punto, mentre lo osservava rigirare la propria bevanda reggendo il cucchiaino soltanto tra pollice e indice. Lui aveva esitato, alzando poi lo sguardo su di lui lentamente e fissandolo con i suoi grandi occhi azzurri. Gelidi.
Gli aveva sorriso sinistramente, prima di portarsi il cucchiaino alle labbra e ripulirlo dalle poche gocce di caffè che ancora lo sporcavano.

“Oh, sì.”

Le sue mani tremavano appena.

“Da quanto non dormi?”

Il ragazzo scosse la testa, come se non ne avesse idea, ma non replicò mai verbalmente. Si limitò a fissare con sguardo perso la propria tazza, sorseggiandone il contenuto di tanto in tanto.

“Dovresti smettere di bere caffè.”

Sbocconcellò la propria ciambella controvoglia, Edward, attendendo poi il suono della campanella per dirigersi in classe. Balzò giù dal proprio sgabello della caffetteria quasi vuota, salvo per qualche studente dell’ultimo anno ancora intento a consumare la colazione, volgendosi poi verso Jonathan.

“Non vieni?”

Quello sembrò guardarlo senza vederlo. Bevve rapidamente il poco caffè rimastogli e stancamente si trascinò verso di lui. Gli cinse le spalle da dietro, affondò il viso contro l’incavo del suo collo e inspirò profondamente, appoggiando il proprio peso contro la sua schiena.

Edward si irrigidì nel suo abbraccio e si guardò intorno sperando che nessuno facesse caso a loro.

“Che cosa fai?” Domandò, sulla difensiva, serrando le dita sul suo braccio e spingendo per farsi lasciare.

“Ricordo...” soffiò lui, strofinando il volto contro la sua pelle.
“Memorizzo.” Le sue mani si serrarono sulle braccia dell’altro, stringendo con forza.

“Imparo.”

“Ok, mi stai spaventando.” Fu la rapida e sincera risposta di Edward che ora si muoveva tra le sue braccia per liberarsi. Il ragazzo mormorò qualcosa al suo orecchio, qualcosa che lui udì ma non riuscì mai a comprendere fino in fondo, non mentre una delle sue mani si spostava e risaliva sul suo corpo in una carezza lasciva. Le sue dita erano lunghe, magre, gelide. Sfioravano la pelle del suo collo con delicatezza, aprendosi su di esso solo per potersi stringere con forza intorno alla sua gola.

“J-jona-”

La presa era salda, serrata, calma. Stringeva la sua pelle con crudeltà crescente, non curandosi nemmeno di poterla ferire con le unghie. Edward non riusciva a formulare nessun pensiero coerente, nient’altro che non fosse la consapevolezza che Jonathan non si sarebbe fermato.

Agì d’istinto.

Piegò il braccio lasciato libero dalla sua presa e con forza lo colpì con una gomitata allo stomaco, subito sortendo il risultato sperato. Jonathan lo lasciò quasi immediatamente, ora impegnato a stringersi le braccia intorno al corpo dolorante, barcollando indietro di un metro e tossendo.

Sembrava così fuori di sé, ora incurvato in avanti e col volto rivolto verso il basso.

Edward rimase a guardarlo a poca distanza da lui, mentre cercava di riprendere il fiato che il suo colpo gli aveva spezzato in gola.
Continuava a chiedersi cosa fosse successo e cosa avesse potuto scatenare un comportamento simile, perché lui davvero non aveva spiegazioni.

Intorno a loro, le poche persone presenti nella caffetteria avevano taciuto, guardando la scena con la sorpresa con cui Edward stesso l’aveva vissuta, poche di loro avevano azzardato qualche commento a bassa voce, ma nessuna di loro aveva osato intervenire o prendere una qualche iniziativa.

Che non giudicassero, per il rosso, era già cosa sufficiente.
Senza nemmeno degnare Jonathan di uno sguardo, Edward lasciò la caffetteria e si diresse in aula, in parte sperando che l’altro decidesse di non presentarsi affatto a lezione.

Per quel momento, decise, non era un suo problema.

Jonathan arrivò in aula con un po’ di ritardo, camminando stancamente tra i banchi e raggiungendo il proprio in fondo alla classe, accanto a quello di Edward. Questi non ricambiò il suo sguardo nemmeno dopo che prese posto, lo tenne fisso sul libro che aveva davanti, eppure continuava a sentire i suoi gelidi occhi azzurri su di sé.

L’insegnante era stata cortese e magnanima, perché Keeny non era mai in ritardo, gli avrebbe concesso di partecipare alla lezione senza bisogno di riprenderlo.
Edward fece del proprio meglio per mantenersi concentrato, studiando per conto proprio la lezione avanzata di due capitoli rispetto a quella che la donna stava spiegando, eppure più ripensava agli eventi, più si rendeva conto di non aver capito niente.

Odiava non capire le cose.

Accanto a lui Jonathan aveva preso dei libri dalla propria tracolla e a Edward bastò un’occhiata per rendersi conto che erano quelli per le lezioni della giornata precedente.

Lo lasciò alla sua lettura su Joyce, provando a concentrarsi su fisica e sperando che tutto quello che era successo si risolvesse al più presto. Non aveva mai visto Jonathan in quelle condizioni, non sapeva come trattare con lui e ne era, in parte, spaventato. Più ci pensava, più il ricordo della sua mano intorno al collo gli gelava il sangue come solo suo padre era riuscito a fare negli anni, ma l’ultima cosa che voleva era associare la figura del genitore a quella dell’altro. Suo padre era un alcolizzato ed un violento, capace di distruggere tutto quello che toccava, ma Jonathan era diverso, lui non gli avrebbe mai fatto qualcosa del genere, soprattutto senza una ragione valida.

Con circospezione si sfilò il cellulare dalla tasca, cercando online quali potessero essere delle conseguenze dettagliate della privazione del sonno, tuttavia la sua ricerca rimase infruttuosa. Tra le decine di pagine che aveva consultato, nessuna aveva dato lui informazioni più specifiche di quante non fossero già in suo possesso. Jonathan era sempre stato sincero con lui, riguardo quello, anche quando erano solo amici e avevano appena iniziato a frequentarsi. Non si era mai soffermato sui dettagli, ma non aveva mai fatto mistero che la causa delle sue marcate occhiaie fosse la carenza di sonno. Non che potesse nasconderlo, dopotutto, erano troppo evidenti sul suo volto pallido per non essere notate e venir ignorate.

Sapeva che la mancanza di sonno potesse portare a diversi tipi di allucinazione, tra le altre problematiche, ma non era certo che cercare di strangolarlo in un luogo pubblico potesse far parte di suddetta categoria.
Perché questo era successo: Jonathan aveva tentato di strangolarlo.

Il ragazzo sapeva essere di temperamento violento, all’evenienza, soprattutto in quelle situazioni in cui si trovava a dover rispondere alle percosse per difesa, ma mai si era dimostrato così nei suoi confronti. Quei momenti erano solitamente accompagnati da scatti d’ira rapidi e feroci che lo portavano a reagire, ma se Edward non avesse potuto davvero ammettere il contrario, avrebbe giurato che quando la sua mano si era stretta al suo collo, Jonathan era lucido.

Ed era questo a fargli più male.

La mattinata passò lenta, tra una lezione e l’altra, ma inesorabilmente giunse il momento di tornare a casa.

Edward aveva agguantato le proprie cose in tutta fretta, pronto a lasciare l’aula e l’edificio il prima possibile, ma prima che potesse farlo si sentì chiamare dalle proprie spalle.

Mark, ovviamente.
Al solo suono della parola test aveva colto l’occasione per avvicinarsi e provare a convincerlo ancora una volta a passargli le risposte.
I primi trenta no dell’anno lo avevano condotto a un pestaggio ed era certo che questo non sarebbe stato differente. Sospirò sconfortato, prima di voltarsi e affrontarlo, col pensiero che prima avrebbe finito, prima sarebbe tornato a casa. Non che potesse evitare la cosa, comunque.

“Nashton, caro amico mio~” chiocciò quello dopo che l’insegnante lasciò l’aula, con un tono condiscendente al punto da dargli la nausea.
“Così di fretta?”

“Sappiamo entrambi che non ti aiuterò” tagliò corto il rosso, alzando lo sguardo su di lui e aspettandosi uno scatto violento da parte sua.

“Beh, è un vero peccato...” Come da copione da ormai un anno a quel giorno, Mark lo chiuse spalle al muro contro la porta, imponendosi con la propria mole su di lui.

Edward non lo temeva, non più. Aveva problemi ben più grossi in casa, roba che un quarterback in cerca di aiuto non avrebbe mai potuto eguagliare.
Era vicinissimo a lui, la presa sulle sue spalle forte per la seconda volta in quella giornata, ma il rosso non disse nulla, né provo a defilarsi con qualche giro di parole. Era inutile, doveva solo rassegnarsi al proprio destino ancora una volta, chiudendo gli occhi e in attesa del colpo che il ragazzo aveva caricato.

Avvenne, però, l’inaspettato.

Aveva sentito il rumore sordo di un cranio che sbatteva contro la porta, ma con sua somma sorpresa non si trattava del proprio. Quando riaprì gli occhi, Jonathan, dietro Mark, gli teneva la testa premuta contro la superficie, con le dita ben strette ai suoi capelli.

Il ragazzo si lamentò e lasciò immediatamente la presa su Edward, che approfittò del momento per defilarsi, rimanendo però lì per assistere alle conseguenze.

Se Mark aveva caricato molta della propria forza nel manrovescio che aveva rivolto al viso di Spooky, di sicuro quest’ultimo non aveva fatto molto per provare a schivarlo, restando impassibile all’idea di una sua reazione.

Il colpo lo ferì sulla bocca e gli voltò il viso di lato, ma come se non l’avesse sentito il ragazzo si passò il dorso della mano sulle labbra, scoprendole spaccate.

Quello che avvenne dopo, fu altrettanto veloce.

Mark si era rigirato solo per trovarsi nella posizione in cui era Edward poco prima, ora con un paio di forbici puntate al collo. La mano di Edward stretta con forza al polso di Jonathan, bloccando quel colpo che, istintivamente, aveva saputo di dover fermare ad ogni costo.

“Posale.” Gli disse con tono tremante ma autorevole, stringendo ancora la presa.

“Jonathan.” Il suo tono si addolcì appena, nel vago tentativo di non aggiungere benzina ad una situazione già pericolosa.

Posale.

Lo sguardo di Mark saettava rapido tra i due e l’arma puntata, lui però non osava proferir parola.

Con la mano libera, Edward prese le forbici e lentamente le sfilò dalle dita del fidanzato, gettandole poi a terra e poco lontano da loro. Con la stessa calma, poi, lasciò andare il suo braccio.

Il ragazzo continuava a fissare Mark, come se la mancanza di un’arma con cui ferirlo non avesse in nessun modo diminuito il modo in cui si era imposto su di lui. Non aveva importanza: dal suo sguardo, sembrava potesse ucciderlo a mani nude.

“Andiamo a casa, vieni.” Gli disse Edward, riprendendo il suo braccio solo per tirarlo appena verso di sé e incitarlo così a muoversi, senza successo.
Gli occhi del ragazzo restavano fissi su quelli dell’altro, mentre sul suo viso si era aperto uno dei sorrisi più malati che gli avesse mai visto.

Qualcosa che non avrebbe voluto rivedere mai più.

“Andiamo.” Insistette, con fil di voce.

La situazione era chiara, lo capiva dal mondo in cui Mark lo aveva guardato che anche lui avesse notato qualcosa di diverso e terribilmente sbagliato in Jonathan. Poteva dirsi quasi apprensivo nel lasciarlo andare in sua compagnia, perché dal pestarli a volerli morti vi era un’abissale differenza, eppure non osò proferire parola, lasciando che Edward dissuadesse l’amico e lo trascinasse via a passo stentato e andatura barcollante.

Jonathan quasi ciondolava accanto a lui, camminava in modo irregolare ma a testa alta, non mostrando il minimo pentimento o la più vaga ombra di preoccupazione per quanto appena fatto.
Edward camminava al suo fianco, gettandogli di tanto in tanto un’occhiata rapida, senza mai voltarsi per non incontrare il suo sguardo.

Si sentiva a disagio, era inutile negarlo. Non aveva nemmeno idea di come comportarsi, ora.
Doveva portarlo a casa? Lasciare che ci andasse da solo? Provare a passare del tempo con lui per cercare di figurare cosa cazzo stesse accadendo?

“Che diamine hai che non va, oggi?!” Sbottò infine, non riuscendo più a porre tutti quei quesiti a se stesso.
Qualunque fosse la causa di quell’atteggiamento, era fuori dalla comprensione di Edward, visti i pochissimi elementi che aveva per provare a figurarne un senso.

“Immagina una prigione...” fu la risposta che ottenne, diversi secondi dopo. Troppi secondi dopo, quando ormai si era rassegnato a non ricevere nessuna replica da parte dell’altro.

Il tono di voce era basso, quasi graffiato, strascicava le parole quasi quanto i propri passi.

“...una gabbia dorata, per quanto bella da vedersi, resta tale.”

Arrestarono entrambi la loro camminata, ormai distanti dall’edificio scolastico.

Jonathan si era rivolto verso di lui di nuovo con quel sorriso agghiacciante dipinto sul volto, lo sguardo freddo e penetrante come quello che poco prima aveva rivolto a Mark.

Ho trovato le chiavi.

Edward scosse la testa.
Più lo ascoltava, più l’intera situazione non aveva minimamente senso.

“Senti, se è successo qualcosa con la tua bisnonna puoi parl-”

“La sadica avrà ciò per cui sta pregando. Presto.

Il rosso si premette entrambe le mani contro il viso, nel disperato tentativo di tenere sotto controllo la propria agitazione e provare a formulare un qualche pensiero coerente.
Accanto a lui, il ragazzo si accese una sigaretta.

“Hai bisogno di dormire Jonathan.”

Perché doveva essere quella la causa. Sapeva cosa la prolungata carenza di sonno potesse causare, almeno quanto era al corrente dei problemi di insonnia del fidanzato. Aveva visto questi attraversare momenti difficili, in passato. Difficoltà cognitive, scarsa lucidità nel pensiero e nel modo di parlare, varie problematiche minori legate al camminare o coordinare i movimenti, ma la situazione ora era ben diversa.
Jonathan non era mai diventato violento in quei momenti, anzi, a dirla tutta era stato in condizione da poter scarsamente fare qualunque cosa, troppo stanco persino per riuscire a pensare. Solitamente durava per un paio di giorni, Jon recuperava delle ore di sonno crollando sui banchi scolastici o nel suo letto fino a quando gli era possibile e poi tutto tornava alla normalità.

“Continui a ripeterlo.” Constatò ovvio con un mormorio, prima di prendere una profonda boccata di fumo.

“Non so cosa tu creda stia succedendo, ma sei pericoloso. Hai bisogno di dormire.”
Insistette il rosso, voltandosi verso di lui insicuro.

“Ti rendi conto di cosa hai fatto? Se non ti avessi ferma-”

“Se lo meritava.” Replicò calmo, espirando e volgendo lo sguardo al cielo, prima di chiudere gli occhi.

Ashes, ashes, we all fall down~

Edward alzò le braccia in segno di resa, istintivamente. Era inutile provare a ragionare con lui.
Era completamente fuori.
Bastava guardarlo per capirlo e si diede dell’idiota persino per aver provato a intavolare un discorso.

“Mio padre lavora, tornerà per cena ma fino a quel momento puoi dormire da me.”

L’altro ignorò completamente le sue parole continuando a fumare con lo sguardo rivolto altrove.

Avanzò qualche passo in sua direzione, incerto ma placido, protendendo quindi una mano sul suo viso. Edward diffidò del suo comportamento ma non si mosse.

“Ti fa male, vero?” Gli aveva chiesto quindi con tono apprensivo e quasi sofferente, mentre col dorso delle dita gli accarezzava la guancia.

“Prego?”

“Sapere che nessuno ha bisogno di te.” Replicò ovvio, come se la sua domanda fosse stata così banale e scontata da non meritare di essere posta.

Edward scacciò via la sua mano con un colpo secco, gemendo appena di dolore quando le dita di Jonathan si serrarono con forza sulle sue ciocche ramate, forzandogli la testa indietro e obbligandolo ad alzare lo sguardo si di lui.

“Ti ferisce?” Chiese ancora, guardandolo dall’alto in basso. Edward non replicò.

“Presto nemmeno lui avrà più bisogno di te...” Gli disse graffiando ogni parola e accostando le labbra al suo viso. Era così vicino che Edward poteva sentire il suo respiro sulla pelle, calmo e controllato.

“...e quel giorno sarà un piacere liberarlo dalla tua presenza.”

La lingua di Jonathan gli percorse la guancia dal basso verso l’altro, lentamente, in una carezza lasciva e disgustosa a cui il rosso poté solo chiudere gli occhi e provare a ritrarsi senza successo. La presa sui suoi capelli ancora troppo salda da permettergli qualsivoglia movimento.

Jonathan lo lasciò andare quasi con uno strattone, dopo quelle parole, gettando la sigaretta non finita in terra e avanzando lungo la stradina per allontanarsi dal quel luogo. Edward, dietro di lui, era immobile e incapace di distogliere lo sguardo dalla sua schiena che si allontanava, ora con il respiro bloccato in gola.

Fu solo dopo diverso tempo che il ragazzo trovò il coraggio necessario per muoversi, avanzando verso casa un passo dopo l’altro e con lo sguardo rivolto al freddo asfalto. Se gli avessero detto che un giorno avrebbe sentito la necessità di un posto sicuro e che quella sarebbe stata la casa di suo padre, avrebbe riso fino a squarciarsi la gola, ma più si avvicinava all’abitazione, più la protezione delle mura domestiche sembrava la cosa migliore che avesse a disposizione.

Non aveva replicato alle parole di Jonathan, onestamente non avrebbe nemmeno saputo come rispondere a tali insinuazioni, ma negare che queste avessero lasciato il segno su di lui sarebbe stata una immensa e vergognosa menzogna.

Raggiunse il bagno di casa e lasciò cadere in terra i propri indumenti, uno dopo l’altro, con noncuranza.

Doveva lavarsi.

Forse non avrebbe cancellato la paura che aveva provato nei confronti di una persona di cui pensava di potersi fidare, magari non avrebbe cancellato i segni lasciati dalle sue dita intorno al suo collo e, forse, nemmeno lo scrosciare impietoso dell’acqua avrebbe potuto coprire il suono delle sue parole che ancora gli si ripetevano nella testa, ma ora tutto quello che voleva era lavarsi e provare a dimenticare.

Non era da lui rimandare i problemi, lui era il tipo di persona che affrontava le situazioni, ma quanto accaduto in quelle ore era di una vastità tale da averlo lasciato incapace di pensare lucidamente.

Scivolò in degli abiti più comodi, caldi per la temperatura invernale di quei giorni, scendendo in cucina solo per preparare la cena al padre, in modo che potesse scaldarla al proprio ritorno senza venire a picchiare alla sua porta e accusarlo di non aver fatto un cazzo tutto il giorno.

Suo padre era un qualcosa che, in una giornata del genere, non avrebbe proprio saputo affrontare.

Si chiuse in camera molte ore prima del solito, quella sera, a doppia mandata, lasciandosi ricadere sul letto che, prima di quel momento, non gli era mai sembrato più comodo e accogliente.
Di tanto in tanto guardava il cellulare, diviso nella speranza di ricevere un suo messaggio e combattuto nell’essere certo di non voler assolutamente avere sue notizie per lungo tempo.

Avrebbe solo voluto addormentarsi e porre fine a quella giornata interminabile, ma per quanto ci avesse provato e riprovato a prendere sonno quella sera, per quanto i suoi tentativi fossero stati più che benintenzionati, la sua mente proprio non voleva saperne di placarsi.
Continuava a ripensare a quanto accaduto quella giornata, a quanto Jonathan fosse stato strano.
Era evidente che non dormisse da un numero di ore consistente, ma... poteva davvero giustificare un tale comportamento? Chiudendo gli occhi poteva sentire ancora la presa delle sue dita sul collo... se non l’avesse fermato quanto sarebbe andato oltre?

Tutte le parole che aveva detto continuavano a vorticargli nella mente. Aveva continuato a parlare di qualcuno, Jonathan. Qualcuno che non avrebbe più avuto bisogno di lui e di cui lui stesso si sarebbe sbarazzato? Aveva detto qualcos’altro, quella mattina, quando tutto era cominciato. Qualcosa che Edward sapeva di aver ignorato sul momento, ma che ora gli dava l’idea di essere un elemento fondamentale.

Ci pensava e ripensava, rimuginava su quanto accaduto, rivivendo quell’orrenda situazione ogni volta con più angoscia dell’istante precedente.
Mani fredde, unghie troppo lunghe e mal curate per essere di un ragazzo, no, questi erano dettagli, a lui servivano i fatti. Vi erano stati due ragazzi e tre ragazze tra i presenti, quella mattina, no, di nuovo no.
Chiuse gli occhi e si concentrò sui suoni che ricordava, erano le sue parole. Qualcosa che aveva mormorato al suo orecchio, strascinando le parole con calma dilaniante appena un istante prima di stringergli le dita alla gola. Sembrava così distante, ora, così lontano dalla sua percezione e memoria, come se davvero avesse provato a dimenticare il tutto con successo.

Poi, però, la consapevolezza lo colpì. Gli gelò il sangue nelle vene e gli fermò il respiro, costringendolo a spalancare gli occhi verdi dalla sorpresa.

Ricordava, ora, cosa il ragazzo gli avesse detto in quello stentato e indecifrabile mormorio che ora l’aveva colpito con una violenza indescrivibile.

Jonathan è mio.




End
Cadaveria†Ragnarsson

  
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