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Autore: gattina04    23/10/2016    5 recensioni
Tanti personaggi nuovi, le cui storie non sono mai state raccontate, sono arrivati a Storybrooke. E se tra questi si celasse qualcuno legato al passato di Hook? Come potrebbe reagire se una persona che credeva ormai perduta per sempre si aggirasse tra le vie di Storybrooke? E oltre a tutto questo cosa faranno Hyde e la Regina Cattiva?
Storia ambientata tra la quinta e la sesta stagione, cercando di immaginare ciò che sarebbe potuto accadere all'inizio di questa nuova stagione di OUAT.
Dal testo: "Non sapevo più chi guardare, non ci stavo capendo più nulla. Avrei voluto rassicurare Killian ma non sapevo neanche da cosa fosse turbato. Chi diavolo era quella donna?"
"Non era il solito bacio; sapevamo entrambi che aveva un significato diverso. Era un gesto disperato di due amanti costretti a lasciarsi troppo presto, era una atto di due innamorati separati dal destino"
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Nuovo personaggio, Regina Mills, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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18. Insostenibile realtà
 
Camminai lentamente dietro Mary Margaret ed il dottore, anche se con la mente ero rimasto ancora in camera insieme ad Emma. Non era stato tanto il suo aspetto a colpirmi, quanto il fatto che per la prima volta si fosse mostrata completamente senza difese. Nonostante avessi fatto crollare tutti i suoi muri, rimaneva spesso un velo a coprire le sue più profonde emozioni; anche se intuivo quasi sempre cosa si celava sotto, non significava che non ci fosse. Invece poco prima si era mostrata completamente nuda: era così spaventata, così disperata, era tornata ad essere la bambina atterrita che doveva essere stata molti anni prima. Vedendola così riuscire a farle trovare la forza per sperare era stata davvero un’impresa ardua, soprattutto quando dovevo riuscirci per primo io stesso.
Il fatto che il dottor Frankenstein volesse parlare con noi, o meglio con Mary Margaret, in privato non prometteva niente di buono. Anche se aveva promesso di rivelarle tutto in seguito, ero certo che avrebbe omesso dei particolari che era meglio per lei non ascoltare, almeno per il momento. Temevo le sue notizie almeno quanto le desideravo conoscere.
Quando giungemmo nel suo studio mi chiusi la porta alle spalle e aspettai in piedi accanto a Mary Margaret che lui ci rivelasse le novità.
«Come temevo la situazione di Emma non sta affatto migliorando», iniziò. «Per quanto adesso possa essere cosciente e lucida, il suo corpo sembra non rispondere come speravo alle cure. Se non fosse continuamente monitorata e senza i farmaci a cui la sto sottoponendo, non credo che sarebbe ancora viva». Rabbrividii a quelle parole, ma non mi ero aspettato niente di diverso. Nessuno aveva mai creduto che lui potesse salvarla, la sua salvezza non era mai dipesa dalla medicina, bensì dalla magia. A lui spettava soltanto il compito di farla sopravvivere per il tempo necessario a trovare la soluzione; bastava che la mantenesse in vita fino a quando Henry e gli altri non sarebbero tornati vincitori con la cura.
«Quanto tempo le rimane Whale?», domandò Mary Margaret in un sussurro. «Se continui a fare ciò che stai facendo, quanto può sopravvivere ancora?».
Whale sospirò, abbassando le spalle. «Un giorno non di più». Quello era davvero poco tempo, visto che non avevamo la benché minima idea di come poterla salvare. Sperai con tutto il cuore che gli altri avessero fatto già qualche passo in avanti e che le loro ricerche stessero dando qualche risultato.
«E non puoi fare di più?», ringhiai.
«Ci sto provando, credimi. Purtroppo non credo di poter fare di meglio».
«È per questo che ci hai portato qui?», continuò Mary Margaret la voce incrinata dal pianto. «Per dirci che se non ci sbrighiamo non c’è più speranza?».
«Non volevo dirlo davanti a lei, la situazione è già abbastanza grave di per sé senza contare il carico emotivo di una notizia del genere».
All’improvviso nel corridoio, al di fuori della porta, esplose un certo frastuono. Frankenstein corse fuori dalla stanza precipitandosi a vedere cosa diavolo fosse successo. Noi lo seguimmo come due automi, ormai fin troppo abituati ad essere colti di sorpresa da qualche imprevisto.
«Dottor Whale! Dottor Whale la prego venga subito». Un’infermiera stava chiamando a gran voce il dottore, attirandolo lungo il corridoio che avevamo percorso pochi minuti prima. Soltanto quando ci avvicinammo di più a lei, iniziammo a sentire uno strano rumore, come dei “bip” anomali che dovevano provenire da macchinari simili a quelli a cui era collegata Emma. Solo quando fui a una decina di metri dalla sua stanza capii che in realtà quei rumori provenivano proprio dalla sua camera.
«Emma!», gridai iniziando a correre più forte. Whale, davanti a me, entrò nella stanza accorrendo subito vicino al letto, io invece mi paralizzai sulla porta. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla mia dolce Swan, inerme sul letto, circondata da paramedici, ma così insolitamente immobile, i palmi delle mani rivolti verso l’alto in una posizione del tutto innaturale.
«No, no, no, no, no, no!». Iniziai a ripetere quella parola come un mantra cercando di avvicinarmi a lei, nonostante gli infermieri. Fui bloccato da qualcuno ma me ne liberai, cercando in tutti i modi di raggiungere il mio cigno.
Fu allora che sentii la voce del dottor Whale, autoritaria come non l’avevo mai udita. «Fuori! Buttatelo fuori di qui». Il mio corpo reagì lasciandosi trascinare indietro, come se volesse in qualche modo obbedire a quell’ordine; il mio sguardo e la mia mente però erano ancora là, sul corpo inerme della mia Emma.
«Non sei morta, non sei morta», mi ritrovai a sussurrare a me stesso, prima che mi sbattessero la porta in faccia. Iniziai a tremare senza neanche accorgermene, lo sguardo puntato su quel pezzo di legno che mi impediva di vedere la mia Swan. Il mio cervello non riusciva a reagire e l’unica cosa a cui potevo pensare era che doveva per forza trattarsi di un falso allarme; Whale l’avrebbe salvata, in fondo ci aveva promesso un giorno, ce lo doveva.
All’improvviso delle dita afferrarono le mie cercando di farmi voltare. Fu solo quando scorsi dei profondi occhi uguali ai miei che capii che si trattava di mia madre. Vedendola squadrarmi piena di preoccupazione, mi ricordai che lei era con Emma fino a pochi attimi prima. Cosa le era accaduto? Cosa era cambiato da quando io e Mary Margaret avevamo lasciato la stanza?
«Cosa diavolo è successo?», le domandai forse con un po’ troppa enfasi. Non volevo rifarmela con mia madre, ma c’era lei con Emma prima che la situazione degenerasse ed io dovevo assolutamente capire cosa diavolo le fosse accaduto.
«Non lo so Killian», mi rispose adombrandosi.
«Come non lo sai?», ringhiai, senza neanche darle il tempo di continuare. «C’eri tu con lei, quando l’ho lasciata lei stava bene. Cosa lei hai fatto?». Non avevo l'intenzione di accusarla, ma ero troppo sconvolto; dentro di me sapevo che lei non poteva averle fatto niente, ma in quel momento ero accecato dalla rabbia. Ero arrabbiato non con mia madre, ma più con me stesso per averla lasciata.
«Non le ho fatto niente Killian», rispose in un sussurro, abbassando lo sguardo. «Io le stavo parlando quando all’improvviso ha perso conoscenza e quelle strane macchine hanno iniziato a suonare». Quando rialzò lo sguardo, potei scorgere nei suoi occhi una strana espressione: forse si trattava di compassione? Ero così patetico che anche mia madre avrebbe presto cominciato a trattarmi con condiscendenza; ma non mi importava. Sapevo qual’era la mia priorità, Emma lo era, e non mi interessava se ciò mi faceva risultare uno stupido uomo così innamorato da non pensare o volere altro.
«Killian», sussurrò accarezzandomi la guancia con l’altra mano cercando di placarmi. «Bambino mio, andrà tutto bene, te lo prometto. Emma starà bene vedrai». Il suo tono era così carico di certezza che per un attimo dissolse tutte le mie inquietudini. Tuttavia lei non era nessuno, non era un medico, né una strega e non era nemmeno in possesso di una cura; le sue parole, per quanto potessero suonare convincenti, valevano meno di zero. Non era nessuno per dirmi che Emma si sarebbe salvata, era solo una madre che tentava di consolare il figlio strappando promesse che neanche poteva mantenere.
«Emma è forte, starà bene». La voce di Mary Margaret scossa dai singhiozzi mi fece voltare. Era accanto a me e la sua espressione era una copia della mia. La disperazione, la necessità di sperare, erano così palesi nei suoi profondi occhi, ormai completamente arrossati. Se io stavo rischiando di perdere l’amore della mia vita, lei stava rischiando di perdere sua figlia: era lo stesso dolore anche se si trattava di un amore diverso.
Tornai a fissare la porta, notando che l’immenso frastuono di quando eravamo arrivati si era trasformato in un inquietante silenzio. L’uscio era ancora chiuso, Frankenstein e gli infermieri erano ancora dentro e noi restavamo ad aspettare come degli stupidi senza poter far nulla. L’impossibilità di aiutare Emma, l’inutilità della mia posizione, fecero crescere la collera dentro di me. Non ero arrabbiato con Emma perché mi aveva impedito di andarmene, anzi tutt’altro; era riuscita in questo modo a mostrarmi anche l’ultima parte di lei. Non avrei mai biasimato la sua disperata richiesta perché sapevo che forse avrei fatto altrettanto a posizioni invertite. Era più il sentirmi inutile che mi faceva arrabbiare: ce l’avevo con me stesso perché ogni istante mi sembrava di perdere del tempo prezioso. Ogni secondo che passava era un secondo in meno che avevamo, ed io li stavo sprecando solo per fissare sconsolato e atterrito quella inutile porta.
Proprio quando pensavo di dover entrare con la forza per riuscire a strappare qualche informazione, l’uscio si spalancò e il dottor Whale uscì con espressione da mettere i brividi. Sentii la gola seccarsi mentre il mio cervello realizzava ciò che stava accadendo.
«Mi dispiace», disse a conferma, come se il suo volto non fosse stato più che sufficiente. Ci fu un urlo strozzato ai margini della mia mente, ma non ci feci caso perché mi stavo sforzando di realizzare ciò che era appena avvenuto. L’unica cosa che non avrei mai potuto sopportare era proprio quella che era appena accaduta.
«No!», gridai non riconoscendo neanche la mia voce. «Non è vero». Strappai le dita da quelle di mia madre e spinsi il dottore da un lato in modo da entrare nella stanza, frapponendomi tra gli infermieri che stavano uscendo.
Corsi al lato del suo letto, con l’unico pensiero che fosse impossibile, che si trattasse solo di uno scherzo di cattivo gusto. Invece lei era lì indifesa, pallida come non l’avevo mai vista, gli occhi chiusi, il suo corpo immobile, la sua posizione del tutto innaturale.
«No Emma». Doveva esserci un’altra spiegazione, un’altra soluzione, un’altra possibilità. Quella non poteva essere la realtà.
«Emma ti prego rispondimi tesoro». La presi tra le braccia, sperando stupidamente in una sua minima reazione. L’abbracciai stringendola a me e passandole la mano sulla guancia. Il suo corpo era del tutto inerme, le sue braccia mi ricadevano addosso prive di vita. La strinsi più forte avvicinando il mio viso al suo.
«Emma piccola». Le scostai una ciocca di capelli dalla fronte, un gesto che avevo compiuto ormai milioni di volte. Osservai le sue palpebre e le sue folte ciglia e continuai a sperare che da un momento all’altro schiudesse gli occhi. Bastava un minimo movimento, un piccolo tremito, un qualcosa che mi dicesse che mi stavo sbagliando, che quella non era la verità. Avrei dato di tutto per vedere quei suoi meravigliosi occhioni verdi squadrarmi con una qualsiasi espressione.
«Ti prego Emma». Appoggiai le mie labbra sulle sue in un ultimo disperato tentativo. Le avevo già dato un bacio del Vero Amore, in fondo quella situazione era tutta colpa di quel primo bacio, forse un secondo dettato dalla mia profonda disperazione avrebbe riequilibrato le cose.
Ma come volevasi dimostrare, non accade assolutamente niente e quando staccai la mia bocca dalla sua ciò che restava era soltanto il suo corpo senza vita tra le mie braccia.
«Non puoi farmi questo Swan», gemetti. «Non puoi». Non puoi distruggermi ed annientarmi in questo modo. Non poteva essere accaduto nuovamente: non potevamo essere costretti di nuovo a lasciarci, senza nessuna possibilità di futuro; non potevo aver perso tutto di nuovo per colpa del coccodrillo.
Eppure quella era la verità; per quanto potessi negare l’evidenza niente cambiava la situazione. Ero tornato ad essere lo stupido uomo innamorato che stringe tra le braccia il corpo senza vita della sua amata; ero solo un uomo disperato che tenta in tutti i modi di restare a galla quando ogni cosa sta tentando di portarlo a fondo. Il problema principale era che l’unica cosa che mi avrebbe permesso di riemergere era sapere che c’era un’altra possibilità, che c’era ancora speranza. Purtroppo il corpo inerme di Emma era la prova che ormai ogni speranza era morta e sepolta. Potevo solo sperare che lei si trovasse in un posto migliore adesso, mentre io sicuramente ero appena stato catapultato all’inferno.
Le accarezzai di nuovo la guancia, adagiandola sui cuscini. Passai l’uncino tra i suoi capelli, pensando alle centinaia di volte in cui avevo compiuto quel medesimo gesto; era un movimento così automatico che ormai non ci facevo più caso. Quando era stata la prima volta che l’avevo fatto? Forse sull’Isola che non c’è? O a New York? O nel nostro viaggio nel tempo? E soprattutto quando era stato l’ultima volta che l’avevo fatto? Non riuscivo a ricordarlo; in quel momento non riuscivo a rammentare neanche quale fosse stata l’ultima cosa che le avevo detto pochi minuti prima. E lei cosa mi aveva detto? Perché era successo proprio quando mi ero allontanato per un secondo? Non sarei mai dovuto andare col dottore. Adesso capivo perché non aveva voluto lasciarmi andare, perché il solo pensiero di non essere stato lì con lei, anche se ero a pochi metri di distanza, adesso mi distruggeva.
«Emma…», gemetti, accarezzandole la guancia con il pollice. «Mi dispiace. Non ho mantenuto la mia promessa». Non ero riuscito a salvarla; le avevo detto di sperare, che ce l’avrei fatta ed invece non ero stato capace di sottrarla alla morte. Non avevo mantenuto la mia parola; lei mi aveva salvato in passato innumerevoli volte, ma io non ero stato capace di fare altrettanto.
«Mi dispiace», mormorai ancora non riuscendo a staccarmi, non riuscendo a smettere di accarezzarla. Ero completamente sotto shock e non mi rendevo neanche conto di star coccolando o di star parlando ad un corpo senza vita. L’unica cosa che riuscivo a comprendere era che se mi fossi allontanato mi sarei frantumato in mille pezzi. L’unica ragione che mi avrebbe impedito di crollare era quella che usavo sempre, quella che avevo usato anche con Milah. La voglia di vendetta era stata l’unica realtà che mi aveva permesso di andare avanti quando il coccodrillo si era portato via una parte del mio cuore oltre alla mia mano. Anche se non volevo commettere gli stessi errori del passato, anche se Emma non avrebbe voluto, non vedevo altra via d’uscita. Non volevo rivivere quello che avevo già vissuto, però sapevo che non conoscevo altro modo per reagire. Ed era per questo che non volevo lasciarla, perché restare lì significava che non ero ancora ricaduto nel baratro.
«Killian». Una voce si fece strada ai margini del mio mondo. «Killian ti prego».
All’improvviso due mani si posarono sul mio braccio, tirandomelo indietro e costringendomi così a staccare le dita dalla sua guancia. Non mi girai a guardare chi mi stesse prepotentemente allontanando dal mio cigno, ma restai a guardare la mia dolce Swan, bella anche senza vita.
«Killian tesoro, vieni via». C’era solo un’altra persona che poteva chiamarmi così oltre ad Emma: mia madre. La sua presenza mi fece notare come l’aver ritrovato lei avesse comportato la perdita del mio vero amore; non che le due cose fossero collegate, ma in quel momento mi sembrava come se il destino si stesse prendendo gioco di me. Non avevo chiesto di avere mia madre indietro, in fondo la credevo morta da tempo e non ne avrei sentito la mancanza, avrei preferito rimanere un orfano piuttosto che perdere Emma.
«Killian», continuò prendendomi per le spalle. «Non puoi fare niente per lei adesso, lasciala andare». Scossi la testa negando ciò che mi aveva appena chiesto di fare. Non avrei mai potuto lasciarla andare, era impossibile.
«Killian ti prego», insistette ancora. «Non serve più a nulla restare qui».
«Serve a me», gemetti stentando a riconoscere la mia voce.
La sentii sospirare e poi posarmi la mano sotto il mento in modo da farmi voltare. Incrociai il suo sguardo, trovandolo più deciso di quanto mi fossi aspettato. Nonostante i miei occhi fossero simili ai suoi, le nostre iridi non potevano essere così diverse come in quel momento: le mie piene di disperazione, le sue estremamente calme, le mie svuotate di ogni certezza, le sue talmente sicure da sembrare anche troppo fredde e distaccate; le mie che non riuscivano ad allontanarsi dal corpo di Emma, le sue che non riuscivano ad allontanarsi da me.
«Killian, bambino mio, so che fa male, ma dobbiamo andare di là. Devi lasciarla adesso». Mi accorsi in quel momento che la mia mano era tornata a stringere il braccio della mia Swan. Per quanto detestassi l’idea di abbandonare quella stanza, mi ritrovai inspiegabilmente ad obbedire a mia madre. Senza capirne il perché, visto che il mio cuore – ne avevo ancora uno? – mi diceva di rimanere là, mi alzai e segui mia madre fuori da quella maledetta stanza, lontano dalla persona che amavo più della mia stessa vita.
«Non è giusto», mormorai una volta fuori dalla porta. Senza aspettare nessuna replica tirai un pugno al muro con tutta la forza che avevo. Il dolore alla mano fu un piacevole diversivo rispetto al vuoto che avevo al posto del cuore. Mia madre mi bloccò subito il braccio, impedendomi di rifarlo di nuovo; probabilmente se non mi avesse trattenuto avrei potuto distruggere l’intero ospedale.
«Non doveva finire così», ringhiai. «Ci aveva promesso un giorno. Whale ci aveva dato un giorno». Ai margini del mio campo visivo scorsi il dottore che stava parlando con alcuni infermieri. Reagii impulsivamente spingendo via mia madre e caracollando verso di lui. Lo afferrai per il colletto e lo scaraventai contro il muro, stringendo il suo camice nel mio pugno.
«Avevi detto che avevamo più tempo», ruggii. «Dovevi darci più tempo».
«Hook… calmati», tentò di giustificarsi. «Non è sempre possibile prevedere una cosa del genere».
«Dovevi solo farla resistere ancora un po’». Lo scaraventai ancora contro il muro facendolo gemere di dolore. Sapevo che lui non era il vero colpevole, ma era il primo della lista che mi fosse capitato sottomano.
«Killian che stai facendo?». Mia madre mi si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla. «Lascialo andare». Senza rendermene neanche conto, allentai la presa che avevo su di lui e feci un passo indietro, in modo tale che il dottore potesse riprendere fiato.
 «Dovevamo avere un altro giorno per riuscire a salvarla, per trovare la soluzione. Non doveva finire così, dovevo riuscire a salvarla», ripetei voltandomi verso Sylvia.  Lei mi accarezzò la guancia, scrutandomi con il suo sguardo preoccupato.
 “Devo riuscire ancora a salvarla. Non posso pensare che sia finita così”, pensai. Non diedi voce a quell’idea, sapevo che era ridicolo oltre che impossibile. Non potevamo certo inscenare una nuova missione verso l’Oltretomba, non dopo ciò che era successo con la prima; forse lei non sarebbe neanche stata lì. Eppure non riuscivo a concepire come in un istante fosse potuto terminare tutto.
«Tesoro non potevi fare niente», mi disse accarezzandomi.
«Non è vero, potevo fare di più. Forse se…».
«No», mi interruppe. «Killian non potevi fare niente di più per lei».
«Non è giusto», ribadii di nuovo.
Mia madre mi abbracciò stringendomi forte e facendomi appoggiare la testa sulla sua spalla. «Andrà tutto bene Killian. Starai bene, ne sono sicura».
«Io potrò anche sopravvivere», sussurrai, «ma lei non ci sarà più». Iniziai a piangere non riuscendo a fermarmi; ero riuscito a non esplodere davanti al suo corpo, ma adesso non riuscivo più a tenermi tutto dentro. Sfogarmi non mi avrebbe fatto stare meglio, come invece si sarebbe potuto pensare, non era un dolore che poteva scemare con delle semplici lacrime. Tuttavia piangere era davvero l’unica cosa che in quel momento mi sentivo di fare, in alternativa alla mia rabbia distruttiva; in più per una volta avevo anche una persona con cui sfogarmi. Forse la presenza di mia madre mi avrebbe evitato di ricadere nel baratro dell’oscurità; forse sarebbe stata lei a fare la differenza. Non lo sapevo, però capivo che dovevo farlo per Emma. Ero cambiato tanto per lei, non potevo buttare tutto all’aria perché lei non c’era più, anche se era certamente il dolore più grande che avessi provato in tutta la mia lunga vita.
Senza neanche rendermene conto mi ritrovai seduto a terra, con la schiena appoggiata alla parete, la testa sulle ginocchia. Mia madre si era accucciata accanto a me, mi stava passando le dita nei capelli. Io non riuscivo più a muovermi da quella posizione; sebbene avessi lentamente smesso di piangere, non avevo ancora la forza per alzare la testa e affrontare il mondo circostante. Restarmene rannicchiato lì era, per un certo senso, davvero confortante. Era un modo come un altro per non affrontare l’immediata realtà.
«Mi dispiace Killian», sussurrò continuando ad accarezzarmi. «Mi dispiace tanto».
«Non mi serve la tua compassione», risposi bruscamente. Sapevo che lei non lo faceva di proposito, che era solo un vano tentativo per consolarmi, e che quindi non avrei dovuto trattarla in quel modo; tuttavia era un istinto più forte di me.
«Non è compassione», ribatté. «So quanto fa male».
«No, non lo sai. Non sai cosa c’è tra me ed Emma, non sai niente di noi. Non mi conosci abbastanza per capire quanto lei sia importante per me. Inoltre, francamente non credo che tu abbia mai provato lo stesso né con mio padre né con Jekyll né con nessun altro». Era una cosa cattiva da dire, però non riuscivo a sfogarmi in altro modo.
«Va bene Killian», acconsentì facendo un profondo respiro. «Vuoi ferirmi, e mi sta bene. Capisco che è il dolore a farti agire in questo modo; so che in questo momento non pensi davvero quello che dici». Non risposi, e lasciai perdere. Non era facile prendermela con lei quando era così accondiscendente, non mi aveva neanche fatto notare che avevo continuato ad usare il tempo presente.
«So che non mi credi adesso», continuò, «ma sarai felice di nuovo Killian, supererai tutto. Avrai il tuo lieto fine».
Mi alzai di scatto non volendo più ascoltare le sue parole. Non volevo piangermi addosso, ma trovavo piuttosto difficile pensare a una mia futura felicità, non proprio quando avevo appena perso tutto. Fu in quel momento, quando alzai la testa di scatto tirandomi in piedi, che li vidi arrivare: David, Regina ed Henry seguiti da Belle; qualcuno doveva averli avvisati. Vedendo le loro espressioni mi ricordai che quello non era solo il mio dolore: c’erano due genitori che avevano appena perso una figlia, ritrovata da troppo poco tempo, c’era un ragazzino che aveva perso una madre ed io sapevo bene cosa significava. Contava poco il fatto che ne avesse un’altra, perdere un genitore restava comunque un’esperienza terribile.
Le lacrime di Henry, la devastazione ed il dolore sul volto di David e Mary Margaret mi fecero venir voglia di scappare. Mai come in quel momento mi parve evidente quanto in realtà non facessi parte della loro famiglia; loro erano uniti, si sostenevano a vicenda ma era sempre stata Emma ad unirmi a loro. Se non fosse stato per lei, loro avrebbero continuato a considerarmi un semplice pirata. Mi apparve palese la differenza tra noi: loro potevano contare sulla loro famiglia, mentre la mia famiglia era Emma e in quel momento era stata completamente spazzata via.
«Hook… mi dispiace tanto». Belle mi si era avvicinata e mi aveva toccato un braccio, ridestandomi dai miei pensieri. Guardandola non potei evitare di pensare che Emma era morta al suo posto, per salvare lei c’era andato di mezzo il mio cigno.
«Lasciami stare», le dissi scostandomi dalla sua presa. «Devo andarmene da qui».
«Killian!». Sentii mia madre inseguirmi e corrermi dietro. Non mi fermai, neanche quando percepii lo sguardo di Henry fisso su di me. Avrei dovuto pensare a lui, ma stentavo anche a badare a me stesso.
«Killian dove stai andando?». Mi afferrò il braccio fermandomi e riuscendo a farmi voltare.
«Mamma ti prego ho bisogno di stare da solo. Lasciami andare». Non sapevo neanche dove sarei fuggito, ma ero certo di non poter più rimanere là.
«Ma…», fece per ribattere, ma la fermai con un gesto della mano.
«Ti prego, lasciami andare; non posso restare ancora qui». Non so cosa la convinse, se le mie parole o il mio tono che non ammetteva repliche; fatto sta che lasciò andare il mio braccio.
«Promettimi che non farai niente di stupido o di impulsivo», mi supplicò.
«Cosa vuoi che faccia?», dissi alzando le spalle. «Ho soltanto bisogno di starmene da solo».
«Promettimelo», insistette scrutandomi attentamente. Probabilmente sarebbe riuscita a capire una mia eventuale bugia, ma per una volta non nascondevo niente sotto. Le avevo detto la verità: volevo soltanto restare da solo con i miei pensieri; in fondo dovevo pensare ad un piano prima di poter passare all’azione. Non avrei lasciato perdere, qualcuno l’avrebbe pagata cara: era una certezza.
«Te lo prometto mamma». Mi girai e mi allontanai da lei e da quel maledetto ospedale. Ogni passo sembrava portarmi sempre più lontano dal mio stesso cuore, ma restare là sarebbe stata una tortura ben peggiore.
Camminai per un po’ per le vie di Storybrooke ma ogni angolo mi ricordava lei. C’era Granny dove ci eravamo scambiati il nostro primo vero bacio, dove mi aveva confessato di aver paura di perdermi, dove mi aveva detto che mi amava senza nessun’altra pressione. Lì davanti c’era il suo maledetto maggiolino giallo, dove avevamo vissuto tanti momenti e tante avventure. C’erano la piazza e le vie principali dove mi aveva detto di amarmi per la prima volta, prima di venire risucchiata dall’Oscurità, e dove me l’aveva ripetuto come Signora Oscura. C’era la centrale di polizia, dove ci eravamo baciati tante volte, e qualche volta avevamo anche litigato; c’era il ristorante del nostro primo appuntamento, il loft dei suoi genitori. E poi c’era la Jolly Roger, la mia nave, ma anche un’imbarcazione piena di una valanga di ricordi. Non c’era posto dove non riuscissi ad immaginarla, dove il suo volto non mi comparisse davanti agli occhi.
Senza rendermene conto mi ritrovai a camminare verso quella che era diventata casa nostra, anche se da poco. Anche se era un luogo più recente, non voleva dire che non fosse altrettanto pieno di ricordi, anzi forse quelli erano i più vividi di tutti.
Appena varcai la soglia, fui invaso dall’immagine della mia dolce Swan. I ricordi della sera in cui ci eravamo ricongiunti, subito dopo essere tornati dalla Terra delle storie mai raccontate e da New York, mi tornarono alla mente come se fossero accaduti solo poche ore prima. Emma che mi stringeva e che mi abbracciava, le sue labbra così calde che cercavano senza sosta le mie; la perfezione del suo corpo, la sua reazione quando la mia bocca aveva passato in esplorazione ogni centimetro della sua pelle. Noi due che facevamo l’amore e che non riuscivamo a staccarci neanche per un secondo, Emma che mi sussurrava di amarmi mentre mi muovevo dentro di lei, io che le dicevo altrettanto.
Mentre salivo i gradini e mi avvicinavo a quella che era la nostra camera, i ricordi si fecero più prepotenti: il sorriso che mi aveva rivolto la mattina appena sveglia, quella fossetta sotto il mento che compariva quando rideva, la ruga di preoccupazione che le si disegnava sulla fronte quando pensava a qualcosa che aveva paura di rivelarmi. Il suono della sua voce quando pronunciava il mio nome, la prima volta che l’aveva fatto per necessità a New York e quando invece mi aveva chiamato così perché lo voleva davvero. I suoi meravigliosi occhi verdi che all’inizio erano solcati da un velo capace di coprire tutti i suoi sentimenti ma che alla fine io avevo imparato a conoscere e a leggere come un libro aperto. Ormai riuscivo ad interpretare con un semplice sguardo ogni sua espressione, dalla più preoccupata alla più felice; intuivo quando mi nascondeva qualcosa e capivo solamente osservandola quando fosse il caso di insistere o meno.
Aprii la porta di camera ricordando il suono della sua risata cristallina, quella che mi rivolgeva quando aveva voglia di giocare e di scherzare con me, quella che mi faceva letteralmente impazzire. Appoggiata sul letto c’era la sua giacca di pelle rossa, non mi rammentavo neanche quando l’avesse lasciata là o per quale motivo non l’avesse riposta nell’armadio. L’afferrai e, con quella stretta nel pugno, mi accasciai ai piedi del letto, ficcandovi la faccia dentro. Inspirai il suo odore, un profumo così inebriante da farmi perdere la testa; sulla pelle il suo profumo era ancora più intenso di quanto riuscissi ad immaginare. Solamente tenendo in mano quel ridicolo pezzo di stoffa, mi sembrò di stringerla ancora tra le braccia e di averla così vicino da riuscire a ficcare il viso nei suoi meravigliosi capelli.
La prima volta che l’avevo vista nella foresta incantata indossava proprio quella giacca; mi era sembrato un indumento strano, ma anche con quella addosso avevo trovato la mia Swan bella fin da subito, oltre che forte e combattiva. Era per questo che avevo deciso di conquistarla all’inizio, fino a quando non avevo capito che in realtà era stata lei a conquistare me, rendendomi completamente suo.
Emma aveva definito la sua giacca di pelle come “la sua armatura”, un’armatura che io ero riuscito a toglierle sia metaforicamente che letteralmente parlando. Quando l’avevo lasciata andare nell’Oltretomba le avevo fatto promettere di non indossare di nuovo quel suo pesante scudo e lei l’aveva fatto, mostrandosi fragile e vulnerabile per la mia perdita. Era mio dovere adesso fare altrettanto, solo che nel mio caso la mia armatura non era altro che oscurità. Volevo vendetta, lo sapevo e sapevo anche che non mi sarei arreso fino a che non l’avessi trovata. Hyde, la Regina Cattiva, il coccodrillo: dovevano pagarla tutti quanti per quello che le avevano fatto, per aver spezzato la sua giovane vita così presto.
La domanda principale restava una sola: sarei riuscito a vendicarmi comportandomi in qualche modo da eroe? Non volevo ripercorrere gli errori del passato, ma d’altro canto non potevo lasciar perdere. Avrei sconfitto tutti quanti e non mi sarei fermato fino a che tutti e tre non avessero pagato per le loro azioni, solo dovevo trovare il modo per farlo senza compromettere di nuovo me stesso. Non era proprio quello che Emma avrebbe voluto, ma sapevo che anche lei non sarebbe rimasta con le mani in mano a parti invertite. L’unica differenza era che lei, che era così profondamente buona, la Salvatrice, avrebbe trovato il modo di sconfiggere i cattivi mantenendo la sua purezza. Come avrei fatto io a salvare la mia anima senza la mia Salvatrice?
Dei passi lungo le scale mi fecero ridestare dai miei pensieri. Alzai la testa dalla sua giacca, stringendola più forte al petto, e puntai lo sguardo verso la porta. Non volevo che nessuno invadesse il mio spazio, lo spazio mio e di Emma, ed ero pronto a cacciare in malo modo chiunque si trattasse.
Quando però vidi chi era venuto ad invadere la mia intimità, i miei propositi si sbriciolarono completamente. Era davvero l’ultima persona che mi sarei aspettato di vedere e anche l’unica che non avrei mai cacciato via.
Mi scrutò per un secondo vedendomi lì seduto per terra ai piedi del letto e poi venne a sedersi accanto a me, appoggiando la schiena al materasso come avevo fatto io.
«Sa della mamma?», disse in un tono di voce appena udibile. Annuii e gli passai la giacca, lasciando che Henry la stringesse e l’annusasse, come avevo fatto io fino a quel momento.
«Che ci fai qui?», domandai, buttando indietro la testa e chiudendo gli occhi. «Non dovresti essere con Regina?».
«Diciamo che sono scappato, un po’ come te. Non volevo restare con gli altri, non volevo stare con nessuno».
«Ed io sarei nessuno?», cercai di sorridere, fallendo miseramente.
«Tu non sei come gli altri, tu lo sai…». Non finì la frase, ma capii a cosa si riferisse. Sapevo cosa stava provando, quale fosse il dolore che lo stesse straziando, lo stesso dolore che provavo io. Gli posai un braccio sulle spalle e gli feci appoggiare la testa sulla mia spalla. Non aggiunsi altro perché sapevo che non c’erano parole che potessero consolare nessuno dei due.
«Non è giusto», sussurrò dopo un po’. Non era per niente giusto. «Non doveva finire così».
«Non abbiamo avuto abbastanza tempo». Era un modo carino per dire che eravamo stati troppo lenti. Dovevo cercare di censurarmi, non potevo dare voce a tutti i pensieri che mi affollavano la testa, almeno non davanti ad Henry.
«Sono così arrabbiato», mormorò stringendo i pugni.
«Lo so ragazzino, lo so. Sto tentando in tutte le maniere di non agire di impulso, altrimenti inizierei a spaccare tutto ciò che ho intorno senza riuscire a fermarmi».
«La mamma non lo vorrebbe», mi fece notare.
«Già, probabilmente Emma non mi direbbe niente ma mi guarderebbe con quel suo sguardo contrariato che vale più di mille parole». Riuscivo perfino a vedere la sua espressione accigliata come se fosse stata proprio davanti a me. Il fatto che mi trattenessi non significava che però non ribollissi di rabbia: non potevo pensare al fatto che non l’avrei più vista, non le avrei più parlato, non l’avrei più toccata né baciata. Avevo tutto, lei era il mio tutto, e all’improvviso quel tutto mi era stato strappato via.
«Killian…», mi chiamò dopo un’altro momento di silenzio. «Promettimi che la pagheranno, promettimi che chi le ha fatto questo non la passerà liscia».
«Henry la vendetta non è la soluzione». Era davvero un ipocrita a parlare in quel modo, ma non volevo che il desiderio di rivalsa distruggesse Henry per sempre; era un passo che portava troppo vicino all’oscurità ed io non potevo permettere che lui si rovinasse.
«Davvero?», rise amaramente. «Dimmi che gliela farai passare liscia? Dimmi che non hai già pensato ad un modo per fargliela pagare a tutti quanti?». Colpito ed affondato.
«Sì certo che gliela farò pagare. Ma sarò io a farlo, non tu. Tu non dovresti pensare ad una cosa del genere».
«Basta che alla fine tutti paghino per avercela portata via».
«La pagheranno te lo prometto». Era una promessa che avrei mantenuto anche a costo della vita.
«Ed io ti aiuterò, anche se non vuoi». Era testardo esattamente come sua madre.
«Henry…», iniziai ma lui mi fermò.
«Non ti sto chiedendo il permesso Hook, io lo farò comunque che tu voglia coinvolgermi o meno. Non puoi chiedermi di restare in disparte, come io non posso chiederti di fare altrettanto. Emma era la mia mamma, tu lo sai cosa significa perdere la propria madre».
Lo sapevo e capivo il perché di tanta testardaggine. Non si sarebbe arreso ed io non gli avrei più chiesto di farlo; non ero nella posizione di impormi, né avrei potuto dissuaderlo in nessun modo. In fondo capivo esattamente le sue motivazioni ed ero completamente d’accordo con lui.
«La chiamiamo operazione vendetta?», gli domandai alla fine.
«Pensavo più operazione cigno nero, sai per mascherare un minimo le nostre reali intenzioni».
«Che operazione cigno nero sia». Sospirai e, con il braccio sempre appoggiato sulla spalla di Henry, mi preparai a mettermi all’opera. «Che la battaglia abbia inizio».


 
Angolo dell’autrice:
Buongiorno a tutti e buona domenica!
Come già vi aspettavate, o almeno credo, questo capitolo non è dei più allegri, anzi tutt’altro. So che rispetto allo scorso, dove avevo davvero messo tanta carne al fuoco, quello di oggi è un capitolo dove non accade un granché, però volevo davvero esplorare i sentimenti di Killian nel perdere il Vero Amore, o almeno nel credere di averlo perso. So che è triste – ho pianto mentre lo scrivevo – ma mi farò riscattare nelle prossime settimane con molti più momenti allegri ;)
Come sempre ringrazio chi legge silenziosamente e chi recensisce. Le recensioni stanno diventando più numerose e mi fa davvero piacere confrontarmi con le vostre opinioni.
Un bacione e alla prossima settimana!
Sara

 
  
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