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Autore: Lady1990    23/10/2016    4 recensioni
[Questa storia è il seguito di "Nell", di cui si consiglia la lettura per un'adeguata comprensione.]
Sono trascorsi poco più di vent'anni dalla scomparsa di Ysril. Nell, dopo aver atteso invano il suo ritorno, ha lasciato la valle di Mesil e si è messo sulle sue tracce. In compagnia di Reeven, un improbabile ladro che somiglia in modo inquietante al suo amato demone, e altri compagni, dovrà scoprire cosa è successo a Ysril e salvarlo da una minaccia ancor più grande della guerra che incombe sul mondo intero. E se una strega arriva a complicare le cose, la missione non si profila certo una passeggiata.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note autrice:
Salve a tutti! Allora, come avrete letto nell’introduzione, questa storia è il sequel di un’altra long dal titolo “Nell”, di cui consiglio la lettura per un’adeguata comprensione. Il rating per ora è arancione, ma forse, se mi andrà, lo alzerò.
Buona lettura ^^








Il cielo era nero, un fitto banco di nubi lo aveva preso in ostaggio dal mattino e non pareva intenzionato a veleggiare tanto presto per altri angoli di mondo. A tratti, un timido spicchio di luna si affacciava dalla prigione, ma tornava a nascondersi subito dopo, il tempo di un sospiro sconsolato.
Il ghetto era stranamente silenzioso, e la temperatura glaciale che era calata sui tetti malconci delle case subito dopo il tramonto non c’entrava niente. Raffiche di vento gelido frustavano le strade deserte ricoperte di neve, facendo dondolare le insegne di legno scrostato che penzolavano tristi sopra le porte delle bettole, appese a catenacci arrugginiti e cigolanti. Le lanterne poste ai principali crocevia tremolavano come derelitti prossimi alla morte, creando ombre sinistre che si allungavano sui muri delle case come gli artigli di un mostro. Persino gli insetti se ne stavano al riparo nelle loro tane, fossero esse dei buchi nella pietra o ragnatele intessute sul soffitto o dietro mobili tarlati. I cani, che spesso vagavano irrequieti a caccia di scarti, erano raggomitolati in branco sul retro delle poche osterie ancora aperte, nella speranza di muovere a pietà il proprietario per ottenere qualche osso, e magari pure un posticino accanto al fuoco. 
Quella zona, la più malfamata della capitale, di solito scoppiava di vita e rumore in qualunque stagione, mentre adesso era uno scenario desolante. I bordelli affollati, le locande prese d’assalto da criminali e ubriaconi, i marciapiedi assiepati da mendicanti e prostitute, i negozi adibiti al commercio di beni illegali o merce rubata, bambini cenciosi che giocavano a biglie sull’acciottolato, tutto sembrava solo un vago ricordo. Il gelo invernale non era mai stato una valida scusa per chiudere i battenti, ma in quei giorni alcune cose erano cambiate e il clima rigido aveva sferrato la stoccata finale. 
Infatti, il re aveva decretato di voler bonificare il ghetto per trasformarlo in un’area residenziale per la borghesia arricchita, con l’ovvia conseguenza che molti degli abitanti erano già stati invitati a sloggiare dove più gradivano, purché non rimanessero a insozzare le strade con la loro ancor più disgustosa presenza. Che andassero a vivere fuori dalle mura, nelle campagne, lì c’era tanto spazio. Così, la maggior parte delle case erano ormai vuote, le botteghe sprangate e le locande chiuse, perché confiscate dallo stato. Il degrado e la povertà, ora che la facciata di apparente allegria era stata tolta di mezzo, erano ancor più evidenti. La gente che era nata e vissuta in quelle viuzze sporche non le riconosceva più, apparivano estranee e spaventose. Di fronte a tale panorama, non si poteva fare a meno di sentirsi degli spettri, anime in pena che vagavano nel grigiore di una perpetua foschia, private persino del diritto di aspirare ad una condizione migliore.
Se invece si volgeva lo sguardo in alto, in direzione del palazzo reale, con le sue torri bianche che svettavano verso le stelle e i suoi vasti giardini abbelliti con statue e fontane, soffermando poi l’attenzione sulle lussuose costruzioni che lo attorniavano alla stregua di fedeli vassalli in ginocchio davanti al trono, la vista era assai diversa. Le ville degli aristocratici, scolpite nel marmo più raffinato da mani ancor più esperte, si stagliavano contro il cielo simili a monumenti sacri, e tali erano considerate dalla massa di poveri relegati nel ghetto. Le finestre illuminate di quelle magioni sfavillavano nel buio come schiere di piccole lucciole a guardia di un irraggiungibile mondo dorato, fatto di feste, gioielli e letti di piume con lenzuola di velluto. Camminare tra le vie della città alta durante il giorno era uno spettacolo per gli occhi, un toccasana per l’umore e una disgrazia per l’anima, se non eri un residente. Ma la notte, oh, la notte si trasformava: la magia pareva calare dalla volta celeste e ammantare ogni blocco di pietra, ogni porta, ogni tegola e ad un tratto diventava l’ingresso per un’altra dimensione, una culla di infinite possibilità che aspettavano solo di essere afferrate, una traboccante dispensa di sogni che non desideravano altro che venire esauditi. 
Erano tanti i giovani che si spingevano fino alle pendici del palazzo, salendo le scale di pietra che collegavano i vari livelli, attraversando i ponti sui fossati, percorrendo i viali lastricati che, passo dopo passo, si allargavano per ospitare alberi dalle fronde rigogliose allineati in file ordinate. Vi si recavano nella speranza di trovare un impiego presso una bottega di classe o una famiglia nobile, e godere, seppur indirettamente, di tutto quel fasto, dimentichi delle loro origini. E una volta lì, nessuno voleva più scendere, tornare a sguazzare nel fango, anche a costo di prostituirsi per vecchi bavosi con le tasche piene di soldi o morire per strada vestiti di stracci: meglio spirare nel modo peggiore lassù, dove il sole brillava più forte e si aveva l’illusione di trovarsi vicini agli dei, a portata dei loro occhi, piuttosto che quaggiù, dove l’aria sembrava un miasma tossico e, ovunque puntavi lo sguardo, non vedevi che orbite vuote su facce scarne e grottesche di fantasmi.
Nei meandri del labirinto di case fatiscenti, tutti erano immersi in un sonno profondo, eccetto una combriccola dall’aria losca radunata in un capanno abbandonato, probabilmente appartenuto a un fabbro, data la presenza di una fornace e un’incudine al centro della stanza, entrambe affogate nella polvere e nelle ragnatele. Il legno delle pareti era marcio e bucherellato, alcune travi erano rotte e il vetro delle finestre si mostrava leggermente annerito, come se una fiamma fosse divampata sopra di esse. Il soffitto malmesso minacciava di cedere da un momento all’altro, i cigolii che emetteva non erano affatto rassicuranti, ma a nessuno interessava ripararlo. Una candela solitaria ardeva su una panca, accanto alla fornace, anche se i presenti non avrebbero avuto bisogno di alcuna luce per orientarsi, conoscevano a mente l’ubicazione di ogni singola pagliuzza sparsa sul pavimento dissestato.
Un uomo alto e grosso, dalla carnagione scura e la testa rasata, si avvicinò all’entrata del capanno e accostò la faccia punteggiata di ispida barba agli spiragli lasciati dalle travi. Inspirò il tanfo di urina e muffa, divenuto familiare, e sbirciò in strada. La neve fresca aveva già coperto le tracce degli ultimi passanti ritardatari, che rincasavano veloci per accucciarsi davanti ai loro focolari - ancora per poco -, magari con la pancia piena di qualche brodaglia, se la giornata era stata fruttuosa. A quel pensiero il suo stomaco gorgogliò: non mangiava dal mattino e in quel momento qualsiasi cosa gli sarebbe sembrata squisita. Si costrinse a reprimere l’acquolina e concentrarsi sulla missione. Se tutto fosse andato come pianificato, l’indomani si sarebbe abbuffato di pane dolce, cinghiale arrosto e patate all’olio in una locanda di Koran, oltre i confini del regno, lontano da quello schifo di posto e dalla sua schifo di vita. 
Incrociò le braccia sull’ampio torace, sfregando i palmi sulle braccia scoperte per riscaldarle.
“Fai pensieri sconci?”
L’uomo sussultò come punto da una vespa. Poi, quando riconobbe la voce, si irrigidì, strinse i pugni e ringhiò, voltandosi di tre quarti per lanciare un’occhiataccia a Reeven. Come accadeva sempre da quando lo aveva conosciuto, circa otto anni prima, non lo aveva sentito arrivare. Quel ragazzo era silenzioso come un gatto, e altrettanto inquietante e molesto. Talvolta aveva l’impressione che non respirasse nemmeno.
“Veramente pensavo a quanto sarà bello non essere più obbligato a vedere il tuo brutto muso, dopo questa notte.”
“Bugiardo, so che in fondo mi adori.” chiocciò Reeven.
“Finiscila, o ti ficco la mia spada su per le retrovie.” sibilò minaccioso.
“Ah! Hai sempre avuto una fissazione per il mio sedere, ammettilo.” rise, prendendolo in giro.
“Cosa? Quelle mele rinsecchite?”
“Mele rinsecchite?!” scandì oltraggiato, “Sei solo invidioso!”
“Sì, certo, come no.”
Reeven gli assestò una pacca amichevole sulla spalla e sorrise: “Rilassati, Qolton. Godiamoci quest’ultima avventura insieme, ti va?”
“Solo se smetti di fare il coglione.”
L’altro finse di rifletterci, poi scrollò il capo: “Nah, impossibile. Comunque, dato che forse domani smembreremo la nostra famiglia, vorrei riprovare a sedurre Phyroe. Sai, magari questa è la volta buona.”
“Per riuscire a fartela, dovresti avere una vagina e un paio di tette.”
“Ecco, a proposito, ho sentito che esiste una pozione in grado di cambiare il sesso delle persone. Mi ci vedi come donna?”
Qolton sbuffò una risata divertita e sospirò sconsolato. Erano anni che Reeven sbavava dietro a Phyroe, senza successo. Quando avrebbe capito che non aveva speranze?
Lo scrutò di sottecchi, ammirando come la figura slanciata e muscolosa dell’amico risultasse armoniosa e invitante, come calamitasse la luce e le ombre quasi ne fosse padrona, come riempisse la stanza pur occupandone una minima parte. Sì, Qolton era invidioso: avrebbe desiderato una pelle più chiara e tratti più fini, invece era costretto a convivere con una corporatura troppo massiccia, sgraziata, una mascella larga e squadrata e un naso schiacciato, oltre ai colori scuri del sud, considerati “sporchi” nelle terre a ovest. Senza contare le rughe che gli erano comparse sulla fronte e sulle tempie, segnale evidente che la giovinezza era passata da un pezzo. Il suo aspetto non risvegliava il desiderio, piuttosto incuteva soggezione e timore reverenziale. Non che fosse un male, ma a volte sognava l’adolescenza perduta e le porte che solo essa poteva aprire, soprattutto quando Reeven si imponeva nel suo campo visivo in tutta la sua snervante gloria. Il suo viso dai lineamenti mascolini e al contempo delicati, il ghigno da cattivo ragazzo e l’aria da sbruffone gli avevano sempre garantito la zelante compiacenza di uomini e donne, tanto che nessuno poteva esimersi dal considerarlo una creatura affascinante, dotata di una potente carica erotica. Peccato che, insieme a tutta quella bellezza e prestanza, gli dei non gli avessero fatto dono anche di un cervello funzionante. 
Fece scivolare lo sguardo sui suoi capelli biondi e lisci, lunghi fino alle spalle, e sugli occhi azzurri, che si macchiavano del colore del sangue quando fiutava un pericolo o aveva voglia di sgozzare qualcuno. La prima volta che lo aveva visto succedere, si era spaventato a morte, ma poi la singolarità dell’evento lo aveva incuriosito e la paura era passata in secondo piano. Reeven non sapeva cosa fosse, aveva più volte ribadito che non ne aveva il controllo, e, in fondo, per Qolton non era mai stato un problema: avrebbe potuto avere gli occhi del colore che voleva, restava comunque un idiota. 
Qolton si concesse una rapida occhiata alla spada che gli pendeva su un fianco, forgiata con l’acciaio pregiato delle miniere dei monti Garah, più resistente di quello normale. L’elsa era intagliata secondo lo stile di Ferenthyr, ossia con foglie d’acanto intrecciate in fantasiosi ghirigori. Reeven l’aveva rubata ad un armaiolo della città alta due anni prima, assieme a una coppia di pugnali della medesima fattura, e da allora non se ne era mai separato. Poi gli guardò la lurida casacca di cotone, i bracciali di cuoio, i pantaloni di pelle marroni strappati sulle ginocchia e gli stivali sudici e consumati, constatando che gliene servissero di nuovi se non voleva rimanere scalzo. Anzi, Reeven necessitava di un intero guardaroba nuovo di zecca, pareva uno straccione. Uno straccione con un bel faccino.
Senza aggiungere altro, lo spintonò di lato per superarlo e raggiungere il resto della banda, intenti nei preparativi per il colpo. Suna stava ripassando la piantina della casa che dovevano svaligiare, Utros affilava i coltelli, Benial controllava che le funi fossero sufficientemente lunghe e regolava le corde della balestra, mentre Phyroe, la sola donna del gruppo, riempiva la bisaccia con le sue fialette colorate, contenenti veleni impronunciabili e letali. Qolton rabbrividì e distolse lo sguardo, rifiutandosi di immaginarne i raccapriccianti effetti. Aveva visto Phyroe all’opera molte volte, ma non era mai rimasto tanto a lungo da assistere al decorso dell’agonia che i poveri malcapitati dovevano subire, se l’era sempre svignata con dignità e la scusa di dover pisciare. 
Sospirò e si assicurò che la spada fosse ben legata al cinturone di cuoio che gli fasciava i fianchi robusti, e che i coltelli nascosti sotto la casacca di lana grezza non scivolassero dai foderi mentre si muoveva. Un brivido freddo gli causò la pelle d’oca e rimpianse di aver dimenticato alla locanda il mantello.
“Allora, ci siamo?” sbottò Reeven all’improvviso, impaziente e petulante, spezzando l’atmosfera carica di tensione.
Tutti rotearono gli occhi, esasperati. Phyroe schioccò la lingua, assottigliò minacciosa le palpebre e mimò di strappargli i genitali e azzannarli con violenza. Il ragazzo condusse le mani al pacco, deglutì e si esibì in un sorriso incerto.
Qolton soffocò l’ennesima risata, imitato dagli altri. Reeven gli sarebbe mancato, anche se non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura. Grazie a lui, spesso i lavoretti che avevano svolto si erano dimostrati più divertenti del previsto. Sì, lì per lì non erano mai divertenti, ma ripensandoci a posteriori non poteva che sbellicarsi. Soprattutto quando perdeva il senso dell’orientamento e li guidava dalla parte opposta rispetto alla destinazione iniziale, facendo perdere loro tempo prezioso, ma provocando anche una sequela di eventi assurdi e, in certa misura, esilaranti. Come quella volta in cui erano finiti in una fabbrica di sapone invece che nel palazzo del conte che dovevano derubare. Avevano preso le gallerie sotterranee, utilizzando un passaggio segreto consigliato da Reeven, e si erano fidati come dei novellini: avrebbero dovuto sapere ormai che non era saggio riporre nel ragazzo le proprie speranze, ma nessuno conosceva il percorso tranne lui. Nel cercare una via d’uscita, Reeven si era avvicinato a una botola accanto a un barile pieno d’acqua, ma sembrava incastrata. Così aveva attinto alla forza bruta per fare bella figura con gli amici, specie con Phyroe, col risultato che il coperchio si era scardinato e lui era caduto addosso al barile, che si era rovesciato sulle saponette allineate sul tavolo lì accanto, che erano cadute sul pavimento, che era diventato scivoloso. E Reeven non aveva potuto restare fermo come gli avevano intimato i colleghi, no: si era alzato, era inciampato ancora e aveva poggiato uno stivale su una saponetta. Aveva spiccato un volo pazzesco, precipitando addosso a Phyroe, che a sua volta era andata a sbattere su Benial, che aveva urtato Utros e la situazione era degenerata. Qolton sorrise quando ricordò come, alla fine dell’effetto domino, Reeven si era ritrovato a gambe spalancate sulla faccia di Phyroe, che lo squadrava dal basso livida di rabbia e le vene in rilievo sulla fronte. Bei tempi.
L’unico motivo per cui non lo avevano accoppato dopo le prime missioni era che conosceva a menadito ogni angolo della città, quasi l’avesse progettata lui. Eppure, non appena si metteva in testa al gruppo, chissà come imboccava la strada sbagliata. Era colpa dell’emozione, si giustificava, non lo faceva apposta, ma questo non gli aveva mai risparmiato urla e pestaggi da parte di Phyroe. La ladra, normalmente calma e algida come un pezzo di ghiaccio, non riusciva mai a trattenersi con Reeven e, in un modo o nell’altro, il ragazzo finiva sempre con un occhio nero e l’inguine dolorante.
Qolton sospirò nostalgico.
Sì, mi mancherà.
Raccolsero in fretta i rispettivi fagotti e si scambiarono un cenno d’intesa, seri e determinati a portare a termine la missione. Quindi Suna si fece avanti e aprì la porta del capannone, lasciando che il vento gelido gli accarezzasse i corti capelli neri, insinuandosi poi sotto i loro abiti e nella stanza, divorando in un batter d’occhio la timida fiammella della candela. L’accesso alle gallerie era giusto dietro l’angolo.

Sotto la capitale si estendeva un intricato reticolo di tunnel, scavati poco dopo la sua fondazione per permettere ai soldati di far evacuare i civili durante gli assedi. Poi, in tempi di pace, erano stati usati dai contrabbandieri per smerciare armi, vino pregiato e pietre preziose allo stato grezzo. Commerciavano persino pozioni magiche, prima che venisse emesso il divieto di vendita al di fuori dei templi. Alla fine erano state abbandonate dopo che un re aveva deciso di trasformarle in fogne, per evitare che i regali escrementi di altrettanto regali dignitari e ospiti illustri finissero nei canali di scolo ai lati delle strade in discesa, verso la città bassa, appestando l’aria. E poi si chiedevano da dove venisse quell’olezzo tremendo che si respirava nel ghetto! Ormai la pietra aveva assorbito le regali urine, cosa si aspettavano? Acqua di rose? 
Mancava un’ora alla mezzanotte, quando la testa di Reeven sbucò cauta dalla porta di un’elegante bottega di stoffe, dirimpetto alla villa del duca di Oswort. Sorrise raggiante e si girò a fronteggiare i compagni, rimasti dentro il passaggio segreto nel retro della bottega, pronti a udire le scuse del giovane per aver, di nuovo, sbagliato bivio. I loro stivali erano impregnati di sostanze organiche non ben identificate fino alla caviglia, ma l’effetto del miasma tossico era attutito dai fazzoletti che si erano legati sulla bocca e sul naso.
“Allora?” domandò Qolton, spazientito.
Reeven si rese conto che non potevano vederlo sorridere se indossava il fazzoletto, così lo tolse e si mise le mani sui fianchi.
“Meta raggiunta!” dichiarò pavoneggiandosi.
“Al primo tentativo?”
“Sì.” rispose orgoglioso, annuendo con enfasi e gonfiando il petto.
“È la prima volta…”
“Volevo mettermi in mostra per la nostra ultima missione.”
“Non potevi deciderti prima?” grugnì Phyroe, scavalcando il bancone e affiancandolo.
“Mi merito un premio, eh?”
“Hai ragione.” assentì la donna.
“Sul serio?!”
“Sì. Ti regalerò un afrodisiaco così potente, che alla fine mi supplicherai di tagliartelo.”
“Ragazzi, concentratevi.” si intromise Suna, “Benial, hai le funi a portata di mano?”
“Sì.”
“Bene, andiamo.”
Mentre si incamminavano, Reeven attirò l’attenzione di Phyroe. Indicò lei, poi se stesso, e mentre chiudeva pollice e indice di una mano per formare un cerchio, infilò in esso un dito dell’altra mano, mimando un atto inequivocabile. 
Utros, che stava smangiucchiando dell’uva, come faceva sempre prima di entrare in azione - diceva che la frutta lo metteva di buon umore -, li guardò di sfuggita e corrugò le sopracciglia scure e cespugliose. Un ricciolo castano gli cadde sulla guancia e lo scostò con un soffio. Approfittando di quella infinitesimale distrazione, Phyroe, con una mossa fulminea, gli rubò due acini e ignorò le blande rimostranze di Utros, che, imbronciato, fissò il grappolo vuoto avvertendo un acuto senso di perdita. 
La donna portò il bottino davanti al naso di Reeven, che sbatté le palpebre perplesso.
“Questi sono i tuoi amati ciondoli.” disse, per poi schiacciare gli acini, facendo schizzare il succo da tutte le parti.
“Ugh.”
“Ragazzi! Per favore.” li richiamò all’ordine Suna, dato che erano arrivati, “Benial,  tocca a te.”
La strada era deserta e di certo nessuno si sarebbe avventurato all’aria aperta con quel clima. Qolton aveva le dita dei piedi congelate e brividi freddi gli scorrevano sulla pelle senza sosta. Il suo fiato, come quello dei compagni, si condensava in piccole nuvolette bianche davanti alla faccia. Se fossero rimasti qualche minuto di troppo fermi lì, senza muovere un muscolo, sarebbero morti assiderati.
Benial raddrizzò le spalle, scrocchiò teatrale il collo e sfilò la balestra con un gesto fluido e assolutamente calcolato. Reeven inarcò un sopracciglio e storse la bocca, ma non commentò. Ora doveva lavorare e guadagnarsi la pagnotta. 
Benial legò una cima della fune a una freccia con movimenti esperti, prese la mira e scoccò. Il dardo si conficcò nel tronco robusto di una quercia dentro le mura della villa. Sapevano che le guardie del duca non li avrebbero scorti da lì, perché un fitto muro di vegetazione copriva la visuale. Si arrampicarono con destrezza e scavalcarono a turno il muro di cinta, per poi atterrare sull’erba e acquattarsi dietro i cespugli per analizzare la situazione, silenziosi come ombre. Per fortuna la neve si era sciolta, altrimenti avrebbero lasciato le impronte, palesando la loro presenza alle sentinelle.
Il piano era, tutto sommato, abbastanza semplice: sottrarre dei documenti importanti dallo studio privato del duca e squagliarsela alla velocità della luce senza farsi scoprire. Il loro mandante, di cui non conoscevano neanche l’identità poiché li aveva assoldati tramite un intermediario, non aveva specificato di che tipo di documenti si trattasse e loro non l’avevano chiesto, era un dettaglio irrilevante. Per confondere le acque, avrebbero dovuto sgraffignare pure qualche gioiello o oggetto di valore, che avrebbero tenuto come pagamento.
Sgattaiolarono lesti fuori dalle frasche, in fila indiana, attenti a non incrociare le guardie di ronda.
“Mi si stanno ghiacciando le palle…” borbottò Reeven.
“Shhh!” fecero gli altri in coro, voltandosi a guardarlo seccati.
Il biondo li scimmiottò in silenzio, contraendo il viso in una smorfia buffa.
Girarono attorno agli alloggi della servitù e si fermarono sotto una terrazza del primo piano, nell’ala est. La villa si innalzava su tre piani in un unico blocco compatto: da quel lato, il primo presentava un terrazzo per ogni finestra, il secondo solo un balcone, che dava proprio sullo studio del duca, per questo non fu difficile localizzarlo. 
Benial legò un sasso all’estremità della stessa fune usata per intrufolarsi e la lanciò, facendola avvolgere alle colonnine di pietra che delimitavano il bordo della terrazza prescelta. Nell’ala est c’erano soltanto le camere degli ospiti, quindi non era molto frequentata. 
Entrare fu una passeggiata, ormai avevano esperienza. Il problema, semmai, era uscire indisturbati con la refurtiva, soprattutto se scattava l’allarme o se qualche guardia deviava dal suo percorso senza alcun preavviso. Avevano trascorso giorni a studiare i sistemi di sorveglianza, gli orari dei turni di ronda, le abitudini dei servi e del padrone di casa, ma poteva capitare di incappare nel classico imprevisto.
Scivolarono lungo il corridoio del primo piano, badando a non far riecheggiare i propri passi sul pavimento di marmo. Le pareti erano spoglie, dipinte con complicati ghirigori dorati, orribilmente pacchiani. Delle lampade ad olio erano state inchiodate alla pietra a uguale distanza l’una dall’altra e la loro luce proiettava ombre identiche e ripetitive, vagamente sinistre.
Giunsero davanti a una rampa di scale e salirono al secondo piano, dove si trovava lo studio del duca di Oswort. In quel momento il nobile avrebbe dovuto essere a cena con un paio di dignitari di corte, quindi potevano agire in totale tranquillità, almeno per un’oretta. 
Utros, Benial e Qolton, i più grossi, erano in testa al gruppo, per assicurarsi che ci fosse via libera e, nel peggiore dei casi, fare da scudo umano agli altri. 
Benial era quello che sembrava più a suo agio. Si capiva che era stato addestrato nell’esercito dal modo in cui si muoveva, come se fosse parte integrante dell’ambiente. Per essere precisi, era stato una spia, uno di quei soldati che di solito si mandano in avanscoperta alla ricerca di un passaggio nelle roccaforti o a distruggere le provviste negli accampamenti nemici. Carne da macello, insomma. Adesso era solo un disertore. Nessuno, eccetto Suna, conosceva il motivo dietro il suo tradimento. A quanto pareva, i due vantavano un’amicizia di vecchia data, però il moro non aveva mai combattuto per sua maestà. Non era dato sapere come avessero legato, né quando e in quale occasione. Non parlavano mai del passato, era la regola della loro banda: ognuno badava ai fatti suoi e tutti erano felici. 
I capelli di Benial, intrecciati alla bell’e meglio, così chiari da sembrare bianchi, rilucevano sotto i tenui raggi lunari che filtravano attraverso le finestre del corridoio e la barba bionda gli sfiorava il colletto della casacca nera, un po’ logora sui gomiti. I muscoli guizzavano nervosi, all’erta, e i suoi occhi vigili erano puntati dritti davanti a sé.
Suna e Phyroe stavano al centro a dare direttive, sia perché più intelligenti e predisposti al comando, sia perché erano gli unici ad aver memorizzato la pianta dell’edificio, mentre Reeven chiudeva la fila, guardando loro le spalle. Sapevano che il biondo aveva dei riflessi stranamente parecchio sviluppati e nulla sfuggiva ai suoi sensi, neanche il minimo rumore. Perciò, se ce ne fosse stato il bisogno, sarebbe intervenuto mettendo a tacere eventuali “ostacoli” prima ancora che gli altri si accorgessero del pericolo. 
Reeven era divenuto famoso nella loro cerchia per essere letale come pochi assassini professionisti. Era freddo e distaccato, quasi fosse nato per uccidere. Non concedeva mai alla vittima il tempo di emettere un fiato, elargiva una morte rapida e indolore, e spesso il malcapitato non si rendeva nemmeno conto di essere stato colpito. In quei frangenti cambiava totalmente atteggiamento, come se due persone diverse abitassero il suo corpo, due coscienze diametralmente opposte: il ragazzo impudente e scanzonato, incline al gioco e stupide risse, e il sicario spietato e calcolatore. 
Tuttavia, adesso era concentrato su ben altro. Il sedere di Phyroe, splendidamente fasciato da un paio di pantaloni di pelle attillati, ondeggiava di fronte a lui, ipnotizzandolo, ed era davvero difficile distogliere lo sguardo. Si umettò le labbra secche e immaginò di affondarci la faccia.
“Reeven, piantala! Sento i tuoi viscidi occhi addosso.” sibilò tra i denti la donna, senza voltarsi.
“Scusa! È che il tuo culo oggi è più bello del solito e se penso che non lo rivedrò più…”
“Reeven, resta lucido. Se mandi tutto all’aria come l’altra volta, giuro che ti castro.” lo minacciò Suna in un sussurro carico di promesse.
Reeven si inalberò, punto sul vivo: “Senti, non capita tutti i giorni di assistere a una cosa a tre, come potevo lasciarmi sfuggire l’occasione?”
“Se la cosa a tre non avesse incluso la baronessa che dovevamo derubare, non ci sarebbe stato alcun problema.”
“E come potevo sapere che quella gnocca tutta forme abbondanti era la baronessa? E poi non ho mica partecipato.”
“Sì, ma ti sei fatto scoprire a spiarla dalla finestra e ha dato l’allarme! Ora chiudi quella bocca.”
Il ragazzo sbuffò imbronciato e trasse un respiro profondo per scacciare i pensieri poco casti che gli affollavano la mente. Il sesso era sempre stato un’ossessione, ma non era colpa sua. Era davvero più forte di lui, sebbene avesse già ampiamente superato la fase della pubertà. Si sentiva perennemente eccitato, persino quando non v’erano stimoli di sorta. Non aveva alcun controllo sui suoi appetiti, sin dai tempi in cui si era sviluppato, pure abbastanza precocemente. La questione, poi, si aggravava quando dopo un’intera notte passata a letto in compagnia, continuava a rimanere ben desto e insoddisfatto. I suoi amici lo chiamavano “bestia in calore” e avevano ragione, non riusciva a farne a meno. Non capiva se fosse una malattia, un effetto collaterale della sua iperattività o soltanto la sua natura. Molti di coloro che avevano condiviso una camera o un vicolo con lui gli avevano detto che era fatto per essere un amante, quindi chissà, forse era vero. Magari, dopo quell’ultimo lavoro, con il malloppo che si sarebbe guadagnato avrebbe pagato decine di prostitute e ragazzi per sollazzarsi per settimane, se non per mesi, finché non si fosse sentito finalmente sazio. 
Represse l’impulso carnale a fatica, impresa non facile con il corpo di Phyroe così vicino e il suo odore intossicante che gli stuzzicava i nervi sensibili. Visualizzò il sangue che scorreva nelle vene e si focalizzò sulla sensazione di stabilità che gli spediva l’elsa della sua spada stretta nel palmo. Poi zittì il rumore dei passi dei compagni, lo sfregamento degli abiti sulla loro pelle, i loro respiri accelerati per via dell’adrenalina, i battiti dei loro cuori, il lieve sferragliare delle armi nei foderi e il cozzare delle fiale di veleno nella borsa di Phyroe. Alla fine isolò i suoni che gli arrivavano alle orecchie da lontano e bandì tutto il resto. 
Udì il chiacchiericcio dei domestici nelle cucine, dall’altra parte della villa, gli ordini perentori della cuoca, il fracasso di piatti e pentole, lo scroscio dell’acqua, le risate dei commensali, un cane che abbaiava nel cortile interno, il ruminare dei maiali nel recinto, i nitriti annoiati dei cavalli nelle stalle; pochi secondi dopo gli arrivò il tintinnio di bicchieri di cristallo, un brindisi tra il duca e gli ospiti, seguito dalle risatine complici di una coppia di serve al piano di sotto, che spettegolavano su uno degli invitati, un certo conte di Rajan, a detta loro avvenente come un dio. 
Dilatò le narici e inspirò gli odori, tutti quanti. C’era quello del fuoco nel camino, quello della legna bruciata, del cibo, un ottimo arrosto di cervo, quello del vino e del sidro… verdura bollita, patate rosolate nel grasso animale… frutti di bosco, mele candite, zucchero, una torta. 
Il cicaleccio delle serve lo distrasse e in un attimo gli parve di essere lì, accanto a loro, mentre camminavano fianco a fianco nel corridoio, le gonne nere che frusciavano sul marmo e le braccia avvolte attorno a lenzuola fresche di bucato. Poteva quasi vederle col naso.
Una era mora, conosceva l’odore delle more. La sua pelle profumava di terra bagnata, pane appena sfornato, sapone e… sangue. Aveva le mestruazioni. Disegnò nella fantasia il profilo del suo viso, le guance paffute, i riccioli scuri che le ricadevano sul collo, sfuggiti alla cuffietta bianca, il naso un po’ a patata, le labbra carnose e seducenti, il seno prosperoso. L’altra era più giovane, di sicuro rossa. Le rosse avevano un odore pungente, asprigno. Il suo corpo emanava profumo di adolescenza. Una fragranza in particolare lo colpì, tanto potente da sopraffare le altre: latte materno. La ragazza era incinta, probabilmente tra i quattro e i cinque mesi. Fiutò le sue lentiggini, gustò sulla lingua il sapore delle labbra sottili - aveva da poco mangiato delle fragole -, leccò il sudore salato sul suo collo e si immerse nel suo seno pieno di latte, che lui non avrebbe mai assaggiato, toccando i capezzoli turgidi che premevano sotto la stoffa della camicetta inamidata. Accarezzò il suo ventre appena rigonfio, provando tenerezza, e scese fra le sue cosce annusando il suo calore, umido e inebriante.
“Reeven, senti qualcosa?” domandò Suna.
Mancavano solo pochi metri, lo studio del duca si stagliava in fondo al corridoio. Le pareti erano tappezzate di affreschi di scene di guerra. Reeven inalò l’effluvio oleoso dei colori.
“Oh, sento tante cose…” sospirò con un sorriso allusivo.
Phyroe levò gli occhi al cielo e borbottò un insulto.
“Gelosa?”
“Ti piacerebbe.”
Reeven abbandonò le serve e incanalò i suoi sensi nelle stanze che si affacciavano sul corridoio. Lo scalpiccio delle zampette di uno scoiattolo, che correva sul ramo di un albero nel giardino per raggiungere la sua tana nel tronco, penetrò le sue difese, ma lo scacciò in un attimo. All’improvviso, si impietrì sul posto a occhi chiusi. 
Gli altri, giunti a destinazione, lo notarono e lo osservarono circospetti, in silenzio, attendendo trepidanti il responso. 
Udiva il battito di un cuore provenire da dentro lo studio. C’era qualcuno. Conosceva quel battito, lo aveva già sentito, però non ricordava né dove né quando. Sapeva solo che gli era familiare. Provò una sorta di nostalgia, che si palesò con un tuffo al petto e un dolore sordo alla bocca dello stomaco.
“Reeven. Tutto a posto?” indagò Qolton con apprensione.
“Non siamo soli. C’è qualcuno oltre la porta.”
“Un domestico?”
Annusò l’aria e scosse la testa: “No… qualcun altro.”
“Un ladro?”
“Non lo so. Sta… frugando tra i libri.”
Annusò ancora. Odore di pane e dolci, terra, legno, foglie, neve, fuoco. 
Scavò più a fondo, senza riuscire a scrollarsi di dosso l’impressione di conoscere quella persona, immagazzinando e cercando di dare un ordine al caos di informazioni che assorbiva rapidamente. 
Profumo di carta pergamena, inchiostro, cera. Capelli biondi, grano, fiori di campo. Argento… una collana? Stivali incrostati di fango e neve. Maschio, giovane, forse sui vent’anni. Pelle lattea, vellutata. Calli sulle mani. Denti piccoli e bianchi, naso all’insù, sudore. 
Le note olfattive si fecero più marcate, delineando ansia, disagio, determinazione, tristezza, angoscia. 
Catalogò tutto, per poi riaprire gli occhi confuso, preda di un’emozione indecifrabile, un misto di aspettativa, gioia e timore.
“È un ragazzo. Non so che intenzioni abbia.”
“D’accordo, toglilo di mezzo.”
“Non voglio.” replicò di getto.
I compagni di immobilizzarono e Suna sgranò gli occhi, interdetto. Era la prima volta che Reeven si rifiutava di eliminare un ostacolo.
“Non vuoi?”
“No.”
“Oh, beh. Speriamo non ci sia d’intralcio, allora.” disse facendo spallucce, accantonando la questione con un gesto annoiato della mano.
Phyroe lanciò una lunga occhiata penetrante al biondo, ma quando Suna diede l’ordine di entrare decise di rimandare le domande a dopo. 
Qolton e Utros, invece, continuarono a squadrare Reeven, sulle spine. Non gli avevano mai visto quell’espressione in faccia, non era da lui. Lo conoscevano da anni, da quando non era che un ragazzo arrogante, irriverente e spavaldo che partecipava a risse clandestine nei seminterrati delle osterie, vincendole pure; un ragazzo disilluso che campava alla giornata, bravo a fare a botte, con un che di animale nelle movenze e una luce disperata nello sguardo carico di solitudine. Era capitato che a volte si incupisse o si trincerasse dietro un muro di mutismo, forse rivangando un passato di cui non aveva mai parlato, ma poi tornava l’imbecille di sempre e l’atmosfera si alleggeriva, quasi non fosse accaduto nulla di speciale. Stavolta, però, percepivano che era diverso. C’era qualcosa di veramente strano nei suoi occhi, una luce ignota, tale da far loro accapponare la pelle per quanto era intensa.
“Conosci l’intruso?” lo interrogò Utros, le sopracciglia aggrottate e le iridi nere puntate sul suo viso, alla ricerca di indizi.
Reeven storse le labbra in una smorfia incerta, alternando il peso da una gamba all’altra: “Forse. Credo. Non lo so. È che non voglio fargli del male.”
“Ragazzi, non c’è tempo. Ne riparleremo più tardi.” li interruppe Benial, facendo loro cenno di seguirlo dentro lo studio.
Suna e Phyroe si erano già introdotti all’interno e stavano rovistando nei cassetti della scrivania di ciliegio, davanti alla finestra ad arco che aggettava sul cortile. Nessun segno della presenza del giovane ladro. 
La testa impagliata di un cervo troneggiava sulla parete nord, in cima alla libreria in noce, mentre un ritratto del padrone di casa, incastonato in una cornice di legno laccata in oro, si esibiva in tutta la sua tronfia indolenza accanto all’ingresso. Se avessero dovuto descrivere il duca in una parola, essa sarebbe stata “grasso”. Era un ammasso di adipe, le sue dita sembravano delle salsicce. Gli abiti eleganti in cui era stretto, su di lui apparivano ridicoli e sottolineavano in maniera spropositata le sue forme abbondanti, tanto da far dubitare che fosse in grado di spostarsi sui propri piedi. Forse usava una lettiga persino per andare in bagno. Oppure rotolava.
Il ritratto era affiancato da due tavolini, con sopra un vaso ciascuno, dipinto a mano. Le orchidee ivi raffigurate lasciavano intuire che quei vasi provenissero dal regno di Wennadyr, famoso per decorare tutto quanto, dalle opere d’arte ai vestiti, con i fiori più comuni che crescevano in quelle terre, cioè le orchidee. Non sembravano dei falsi, di sicuro valevano una fortuna. 
Per il resto non c’era granché di interessante, eccezion fatta per il tappeto orientale che faceva sfoggio di sé sul pavimento: vi erano cucite sopra tutte le specie di predatori esistenti, in un tripudio di colori talmente vivace da risultare seriamente pacchiano. Il duca di Oswort avrebbe avuto bisogno del consiglio di un esperto, perché a quel punto era evidente che non ci capiva nulla di arte o arredamento. Tutta la villa era un inno al cattivo gusto.
Qolton occhieggiò in direzione di Reeven, la cui attenzione era tutta concentrata su una porta chiusa, dal lato opposto alla finestra.
“È lì.” disse il biondo, privo di inflessione.
“Finché ci resta, non è un nostro problema.” sbuffò Suna, “Ora state zitti e aiutateci. I documenti che cerchiamo sono conservati in un panno di velluto rosso e recano il sigillo reale.”
“Metà di queste scartoffie hanno il sigillo reale.” commentò Benial.
“Sono avvolte in un panno rosso?” chiese Suna in tono sarcastico.
“Uhm, no.”
“E allora taci e continua a cercare.”
Qolton si accostò all’amico, gli posò una mano sulla spalla e strinse.
“Stai bene?”
“Sì, io… sto bene.” rispose Reeven, fallendo miseramente nel nascondere l’esitazione.
“Dai, al lavoro. Pensa che tra poco sarà finita.”
Mentre gli altri mettevano a soqquadro la stanza per trovare quei dannati documenti, Reeven, sordo ai consigli di Qolton, rimase impalato innanzi alla porta, fissandola come se potesse vederci attraverso. La tentazione di aprirla era forte, irresistibile, ma correva il rischio di farsi beccare e mandare a rotoli l’operazione. Era combattuto. Da un lato c’era la lealtà verso il suo gruppo e la prospettiva di intascarsi un bel po’ di gioielli per rifarsi una vita, dall’altro la curiosità e la voglia di scoprire l’identità di quel ragazzo, che con il suo odore e il suo battito cardiaco era capace di gettarlo in confusione, come se tutti i pilastri che tenevano insieme la sua esistenza stessero tremando sotto le scosse di un terremoto.
“Reeven.” lo richiamò Suna, per l’ennesima volta.
Si girò, in tempo per vederlo trasalire e arretrare. Assunse un’aria perplessa e piegò il capo.
“Che c’è?”
“Hai gli occhi rossi. Pericolo in avvicinamento?”
“Eh?”
Sbatté le palpebre, fece una breve ricognizione nei dintorni con i suoi sensi e scrollò la testa.
“Allora che ti prende?”
“Voglio andare di là.”
“Il ragazzo?”
Reeven annuì.
“Troviamo i documenti e ce la squagliamo, non si ammettono deviazioni. Se proprio vuoi, ti lasciamo qui. Te la caverai da solo.”
“Suna!” provò ad obiettare Qolton.
“Abbiamo una missione e la garanzia di uscirne ricchi. Non accetto errori.” dichiarò l’altro lapidario.
“Non possiamo abbandonarlo! È uno di noi.”
“Abbassa la voce, Qolton.” lo rimproverò Benial, tendendo le orecchie per captare rumori nel corridoio.
“Se lo desideri, puoi restare anche tu. Muoviamoci.”
“Eccoli!” esclamò Phyroe trionfante, estraendo un panno di velluto rosso da un cassetto segreto sotto la scrivania.
“Reeven, andiamo.” lo pregò Qolton, teso come una corda.
Reeven raggrumò le labbra, strinse i pugni e rilasciò un sospiro: “Avviatevi, vi raggiungo dopo.”
“Sei impazzito?”
“Libreria, terzo scaffale dal basso, al centro. Libri finti, un baule nascosto. Gioielli. Diamanti e rubini. Perle del sud. Tenetene da parte un po’ per me.” disse sbrigativo, con voce monocorde, per poi appoggiare una mano sulla maniglia.
“Sei inquietante quando fai così.” borbottò Utros, affrettandosi a seguire le indicazioni del biondo.
Tirò verso di sé i libri centrali e uno scatto risuonò nel silenzio. Un baule di legno di faggio, di modeste dimensioni, venne fuori dal muro. Era sigillato con un pesante lucchetto, ma Utros non si lasciò scoraggiare. Lo scassinò in un paio di minuti e lo aprì.
“Cavolo.” fischiò, “Con questi potrei comprarmi un palazzo.”
I compari diedero una sbirciatina da sopra le sue spalle e ghignarono vittoriosi.
Ma Reeven aveva smesso di ascoltare, tutti i sensi focalizzati sulla presenza oltre quella sottile barriera di legno. Aveva deciso, sarebbe andato fino in fondo. Abbassò la maniglia e spalancò la porta, superandola senza indugio. 
Prima che riuscisse a fermarlo, Qolton lo vide sparire nel buio e masticò un’imprecazione.
“Filiamocela.” ordinò Suna.
“Qolton, tu cosa fai?” gli domandò Phyroe.
“Io… dannazione! Resto con lui.” sbuffò, grattandosi la testa rasata con crescente frustrazione.
La donna annuì. Dopo un attimo di incertezza, infilò una mano nella borsa e ne estrasse una fialetta contenente del liquido ambrato. La tirò a Qolton, che l’agguantò al volo.
“Per una fuga veloce, nel caso qualcuno vi scoprisse.” spiegò.
“Grazie.”
Infine, Utros, Benial, Suna e Phyroe sgusciarono di nuovo nel corridoio, carichi del bottino. 
Qolton esalò un sospiro stanco, maledicendo l’affetto fraterno che lo legava a Reeven e che lo spingeva a fargli da balia. D’altronde, era stato lui a reclutarlo, si sentiva responsabile. Senza ulteriori indugi, imboccò la porta e corse dietro al compagno, pregando che si astenesse dal commettere stupidaggini. Speranza vana, ormai l’aveva imparato.

Reeven avanzava lentamente tra gli scaffali ricolmi di libri rilegati e rotoli dall’apparenza antica, molto antica. A giudicare dall’odore, potevano risalire a circa cinquecento anni prima. Di sicuro erano manoscritti preziosi, data la cura con cui erano conservati e l’ordine alfabetico in cui erano stati organizzati. I rotoli erano disposti a piramide al centro di ogni mensola, in una successione ripetitiva che rendeva difficile orientarsi. 
Reeven non si sarebbe mai aspettato che accanto alla studio del duca ci fosse una biblioteca privata così ben fornita. Sul serio, era enorme. Non così enorme quanto la biblioteca del Grande Tempio, però. C’era stato una sola volta, sette anni addietro, per rubare un ricettario magico per conto di un cerusico, ma lo spettacolo gli si era impresso nella memoria in ogni dettaglio. In confronto, il luogo in cui si trovava ora era parecchio più angusto e mediocre. Ciononostante, vantava una collezione notevole. Il soffitto a cassettoni era opera di un falegname provetto, i fregi erano fatti con tanta dovizia di particolari da sembrare vivi. Anzi, creavano un vero e proprio effetto ottico agghiacciante, dando l’idea di venire risucchiati in un buco.
Proseguì, inoltrandosi nel reticolo di stretti corridoi. Ci passava a malapena, le sue spalle sfioravano gli scaffali ad ogni passo. Era tutto immerso nell’oscurità, tanto che sembrava deserto, ma l’odore di cera e fuoco gli solleticò le narici, informandolo che qualcuno stava leggendo a lume di candela. Seguì la traccia come un segugio, ignorando l’ingombrante mole di Qolton a poca distanza da lui, celato da un muro di grossi libri. Perché era rimasto? Senza sapere il motivo, si sentì profondamente infastidito, come se l’amico gli avesse sottratto la possibilità di vivere un momento importante, prezioso, intimo. Qolton era involontariamente diventato il terzo incomodo e Reeven lo avrebbe eliminato con piacere, se i suoi sensi non avessero captato ancora quegli odori, che gli spedivano impulsi incontrollabili direttamente al cervello. 
Il bisogno di scoprire chi era quel ragazzo si stava facendo sempre più pressante, spasmodico, necessario alla sua sopravvivenza. Ondate di energia si riversavano nei suoi muscoli e nelle sue vene, spronandolo ad accelerare l’andatura, a raggiungere il traguardo, a esplodere. Non era un attacco di iperattività, era più come se volesse saltar fuori dalla sua stessa pelle, liberandosi da una prigione di carne che gli impediva di respirare, rendendolo troppo goffo, pesante. Il tempo sembrava non voler scorrere, era lento in modo estenuante.
Quel particolare battito cardiaco si insinuò di nuovo nelle sue orecchie, più forte, più nitido, e una scarica elettrica gli risalì su per la schiena, facendogli drizzare i peli sulla nuca. Era vicino, ma ancora non riusciva a distinguere nel buio l’alone aranciato della candela.
“Reeven.” lo chiamò Qolton in un bisbiglio ringhiante, segno che era arrabbiato.
Digrignò i denti irritato e non rispose. Svoltò in un corridoio laterale, superò altri scaffali e, dopo quella che gli parve un’eternità, finalmente lo scorse. 
Una figura incappucciata, esile e abbastanza bassa, era china su un tomo dalle pagine ingiallite, adagiato sopra un tavolo di legno al centro di una stanzetta circondata da pile di libri. La candela bruciava lì accanto, la fiammella che ondeggiava appena al ritmo del respiro del giovane. Una ciocca di capelli biondi come il grano penzolava perpendicolare al tomo, muovendosi assieme al capo, mentre le mani dalle dita affusolate carezzavano gli angoli delle pagine, sfogliandole con cautela, quasi avesse paura che potessero sbriciolarsi. Di fianco allo spesso volume, c’erano delle mappe.
L’emozione che lo pervase rischiò di fargli perdere l’equilibrio. Adesso era certo di conoscere quel ragazzo, sebbene non ricordasse in quale occasione lo avesse incontrato, né il suo nome o la sua voce. Desiderava toccarlo, inalare il suo profumo, affondare nel suo abbraccio, consapevole che solo lì avrebbe trovato ciò che cercava da sempre: una casa. Era forse stato uno dei suoi amanti? No, non avrebbe potuto dimenticarsi di una persona con cui era andato a letto, imparava a memoria sia i nomi che i loro odori. Men che mai si sarebbe dimenticato di un adolescente in grado di risvegliare in lui sensazioni tanto prepotenti. Quindi non se l’era scopato. Magari lo aveva incrociato per strada, al mercato, o in una locanda. Forse lavorava come domestico nella dimora di uno dei nobili che aveva derubato.
Non vedeva il suo viso, nascosto dal cappuccio del corto mantello di lana lisa che gli sfiorava i polpacci, ma poteva benissimo indovinarne i lineamenti delicati, come quelli di una donna, anche se il suo corpo spigoloso era chiaramente mascolino. Avvertiva una forza invisibile attirarlo verso di lui, come una corda troppo tesa che rischiava di spezzarsi se non avesse assecondato la spinta. 
Mise un piede davanti all’altro, trattenne il fiato e si arrestò nervoso alle spalle del giovane. Si piegò in avanti di qualche centimetro, accostando il naso alla stoffa, in prossimità del collo. Inspirò a pieni polmoni. Inspiegabilmente, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Non aveva idea del perché, ma quell’odore gli era mancato in maniera terribile. 
In quel momento, realizzò di essere sempre stato sprovvisto di una parte fondamentale di sé, una parte di cui finora non aveva mai ipotizzato l’esistenza, e quella parte era rappresentata proprio dal ragazzo. Era destabilizzante, spaventoso, e al contempo bellissimo. Le forme delle cose, i suoni e i colori si sfaldarono e si riassestarono, cessando di essere sfocati, indefiniti. Ora poteva vedere e sentire tutto con estrema precisione, come se fino a quell’istante non avesse fatto altro che osservare e ascoltare il mondo attraverso un vetro appannato e spesso. Ora il vetro non era solo trasparente, era proprio scomparso. La caotica e violenta cacofonia di rumori che di solito lo assaliva era mutata in una melodia soffusa, che si irradiava dal suo cuore, spargendosi nell’aria; il miscuglio di odori si era trasformato in una fragranza con una sua ragion d’essere, i contorni degli oggetti e della natura in un dipinto sublime, dove ogni cosa era al suo posto. L’universo era divenuto perfetto, meraviglioso, e Reeven era a casa. 
Il tempo si fermò, si mantenne in stallo, e infine, come una deflagrazione, ricominciò a scorrere bruscamente, veloce, molto veloce, in un’unica direzione. 
Fu allora che il ragazzo, quasi avesse percepito la sua presenza, si girò. Lo fece di scatto, terrorizzato, ritrovandosi quasi schiacciato dal corpo del ladro. Entrambi sgranarono gli occhi in simultanea e, per interminabili istanti, si studiarono scioccati, il respiro bloccato in gola insieme alle parole. 
Reeven si perse nella contemplazione del suo volto, dei suoi occhi azzurri abbelliti da ciglia lunghe e arcuate, della bocca piccola e carnosa, delle guance rosee e morbide. Lo vide assumere un’espressione stranita, incredula e sbalordita, boccheggiare e infine impallidire. Le ciglia si inumidirono e le membra si irrigidirono, iniziando a tremare, mentre il suo odore si acuiva e li avvolgeva entrambi in un bozzolo soffocante. 
Reeven intuì che anche lui lo conosceva, altrimenti non si spiegava quella reazione.
“Ysril…?” esalò il giovane con un filo di voce.
Il ladro si corrucciò, confuso: “No, io mi chiamo Reeven. Chi è Ysril?”
Evidentemente quella non era la risposta giusta, perché all’improvviso il biondino eresse un muro fra di loro e lo scrutò con sospetto e timore.
“Chi sei?” domandò Reeven, impaziente di recuperare terreno e riempire il misterioso mosaico con i tasselli mancanti.
“Potrei chiederti la stessa cosa.” ribatté ostile.
“Sono un ladro. Io e i miei compagni abbiamo svaligiato lo studio del duca. Tu perché sei qui? Cosa cerchi?”
“Non sono affari tuoi.”
“Qual è il tuo nome?”
“Ripeto: non sono affari tuoi.”
“Posso aiutarti.”
“Non ho bisogno di aiuto.”
“Beh, io credo di sì, dato che il duca sta per arrivare. Sta salendo proprio adesso le scale del primo piano, fra tre o quattro minuti sarà qui. Fidati di me, non voglio farti del male.”
“Oh, capisco. Sei un ladro generoso.” sbuffò sarcastico.
“Quanto ti ci vuole a finire?” indagò, ignorando deliberatamente la frecciatina.
“Di sicuro più di tre o quattro minuti.”
“Bene. Prendi tutto e diamocela a gambe.”
“Perché mi stai salvando?”
“Non lo so.” rispose sincero, poi ricominciò ad esortarlo, “Forza, spicciati.”
Il biondino, seppur scontento, dopo un secondo di esitazione obbedì e riempì la borsa che portava a tracolla sotto il mantello con il tomo che stava sfogliando e le mappe. Non si fidava del ladro, ma non aveva scelta: se stava dicendo la verità, era meglio evaporare alla velocità della luce.
Reeven soffiò sulla candela e le tenebre piombarono su di loro in un denso strato compatto.
“Reeven?” chiamò una voce da baritono, dispersa nei meandri della biblioteca.
“Qolton, sto venendo a prenderti. Dobbiamo uscire, il duca sta tornando!”
“Merda.”
“Ragazzino, dammi la mano.”
“È buio pesto, come pensi di orientarti?” lo interrogò dubbioso, intrecciando comunque le loro dita.
Il contatto spedì a Reeven una sequela di brividi. Li avvertì trafiggergli il braccio e penetrargli nel sangue, per poi attaccare il torace, i polmoni, lo stomaco, le viscere e scivolare nelle gambe, fino alle punte dei piedi.
“Uh! Che cavolo…? Caspita… meglio di un orgasmo.” farfugliò intontito.
“Come?”
“Nulla. Andiamo, dobbiamo recuperare il mio amico.”
Rifecero la strada all’indietro e, dopo un po’, si scontrarono con un omaccione grosso quanto un toro e armato fino ai denti. Il biondino sussultò impaurito e si nascose dietro Reeven.
Qolton lo fissò con espressione assorta, ma decise di rimangiarsi qualunque commento. Il tempo stringeva, dovevano sparire prima che il duca li cogliesse in flagranza di reato. Qualcosa gli diceva che non sarebbe stato tanto magnanimo da lasciarli andar via alla chetichella con un sorriso bonario.
Tornarono nello studio, Reeven spalancò la finestra e guardò giù, individuando le vie di fuga.
“D’accordo. Se saltiamo, atterreremo su un terrazzino. Il terreno dista circa tre metri da esso. Il cortile sembra sgombro.”
“E da qui al terreno quanto c’è?”
“Otto metri, più o meno.”
“Sei pazzo! Ci sfracelleremo!” esclamò il giovane sconosciuto e squadrò allibito Reeven.
“Qolton, sali sulla mia schiena.” ordinò secco e il compagno eseguì, come se l’avesse fatto un milione di volte, “Ragazzino, aggrappati a me. Non preoccuparti, ti tengo io.”
“A-ha.” scosse furiosamente il capo, “Te lo sogni!”
“Non hai scelta. O me, o la morte.”
“Chi mi dice che le due non siano la stessa co- wah! No, no, no, fer-”
Reeven, senza preavviso, cinse con un braccio i suoi fianchi magri, salì sul balcone, si diede lo slancio e saltò, pochi secondi prima che la porta dello studio si aprisse. Atterrò agile come un felino sul terrazzo, poi scavalcò la ringhiera di pietra e spiccò un altro balzo. Sembrava che trasportare due persone non lo scalfisse. 
In una manciata di attimi erano fuori. Il biondino senza nome era stato a tanto così dall’avere un infarto, mentre Qolton sembrava a suo agio. Misero i piedi a terra e subito corsero verso la macchia di alberi e cespugli da cui erano entrati. La fune di Benial era ancora lì, segno che l’aveva lasciata per permettere loro di scappare.
“Grazie, Beni! Ti offrirò una fiasca di vino.” borbottò Reeven tra sé e sé.
Qolton si arrampicò sui rami della quercia e usò la corda per calarsi oltre il muro di cinta. Reeven, senza abbandonare la presa sul ragazzo, lo imitò e in un battibaleno furono al sicuro sulla strada. Tuttavia, il loro sollievo ebbe vita breve, perché l’allarme risuonò nella villa e le guardie si catapultarono alle loro postazioni.
“Forza, correte!” li spronò Qolton, precipitandosi verso il negozio di stoffe di fronte alla magione.
“Muoviti, ragazzino!” lo incoraggiò Reeven, trascinandolo sgraziatamente per un polso.
Quello puntò gli stivali e fece resistenza: “Perché mai dovrei venire con voi?”
“Ti prenderanno!”
“No, invece. So cavarmela.”
“Ti ho salvato la vita.”
“E ti ringrazio, ma non ho alcuna intenzione di- e che diamine!” sbottò risentito, poiché Reeven se lo caricò in spalla senza tante cerimonie, tipo sacco di patate, sfrecciando in direzione del negozio.
“Sta’ fermo!”
“Sei un bruto! Lasciami!”
“Dannato ragazzino…” bofonchiò scocciato, seguendo Qolton dentro il passaggio segreto.
“Non mi chiamo ‘ragazzino’!”
“E allora come ti chiami?”
“Reeven, da che parte?” li interruppe Qolton, fermo davanti a un bivio.
“Destra. Poi sinistra, sinistra, destra.”
“Nell.”
“Mh?” Reeven lo guardò di sbieco, con aria interrogativa.
“Mi chiamo Nell.” grugnì offeso e da quel momento non proferì più parola.










 
  
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