Storie originali > Generale
Segui la storia  |      
Autore: Schroeder    24/10/2016    0 recensioni
Atticus ha sette anni e vive da sempre in un collegio isolato dal mondo. I suoi genitori non lo vogliono con loro, gli altri bambini lo prendono sempre di mira, persino le maestre gli parlano alle spalle; insomma: così giovane e la sua vita non potrebbe andare peggio. Persosi tra i corridoi della scuola si ritrova improvvisamente di fronte ad una bambina estremamente particolare, diversa da qualsiasi persona che Atticus abbia mai incontrato. Non sa che si tratta di colei che stravolgerà completamente la sua esistenza, o meglio, la sua inesistenza.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il bambino inesistente

Jem stava percorrendo i corridoi deserti dell'ala abbandonata. O meglio: Atticus stava correndo per i corridoi, e non si trattava di corridoi qualsiasi, bensì di quelli in cui nessuno, teoricamente, entrava da trent’anni, perché, teoricamente, in pericolo di crollo. La realtà non rispecchiava per niente la teoria: la vernice sui muri, i quali non erano solcati neanche dalla più minuscola delle crepe, era brillante, come se fosse stata ripassata da solo qualche settimana, gli specchi lucidati, c’erano addirittura delle piante ad arredare i corridoi e sporadici mazzi di fiori freschi. Anche un bambino di sette anni come Atticus capiva che fosse impossibile che nessuno fosse passato di lì per anni. Bisogna però ammettere che Atticus era molto più sveglio dei normali bambini di sette anni, era dovuto crescere in fretta: i genitori lo avevano scaricato in collegio non appena era stato svezzato e quella era stata l’ultima volta in cui il bambino aveva interagito con loro. Non una telefonata o una visita, mentre tutti gli altri ragazzini tornavano a casa per Natale, per il proprio compleanno e per le vacanze estive, lui era costretto a rimanere in collegio tutto l’anno, forse una volta compiuti otto anni lo avrebbero portato in giro per vari campeggi estivi, o almeno così aveva sentito dire; Jake Morrison doveva pur passare l’estate da qualche parte d’altronde. Jake era l’unico bambino del collegio sottoposto alla sua stessa prassi, la quale consisteva in una busta piena di soldi che arrivava ogni compleanno e nel pernottamento in quell’enorme edificio, che ormai Atticus chiamava “casa”, 365 giorni l’anno, 366 negli anni bisestili. Giravano parecchie voci sul bambino di dieci anni alto, bellissimo, che riusciva a battere nella corsa persino i migliori atleti di quattordici anni, la più accreditata era che fosse il figlio illegittimo di una super modella e di un famoso giocatore di football, scaricato in quel collegio sperduto lontano dalla civiltà, per non suscitare scandali. Morrison, ovviamente, era un cognome totalmente inventato, ma almeno lui ne aveva uno: Atticus possedeva soltanto un secondo nome, Jeremy, che era stato scelto dai suoi genitori. Una volta a lezione di educazione civica avevano parlato delle carte di identità: la maestra, la signorina Thompson, aveva spiegato che ogni persona che si potesse definire esistente ne possedeva un e che una delle informazioni necessarie erano il nome e cognome; al che Missy Smith, una delle bambine più fastidiose di tutto il collegio, fece notare alla maestra che Atticus non possedeva un cognome, quella, dopo essere arrossita, le rispose che non era educato farsi gli affari degli altri. Quello stesso pomeriggio il bambino si recò nell’ufficio del rettore Donovan per chiedergli della sua carta d'identità; gli venne risposto che, sfortunatamente, i suoi genitori non avevano lasciato alcuno cognome o, perlomeno, una richiesta che gliene venisse assegnato uno, pertanto il collegio non aveva potuto fare richiesta di un documento che attestasse la sua identità. Atticus non riuscì più a togliersi dalla mente il fatto di essere inesistente, o, come preferiva chiamarsi dopo aver consultato un dizionario dei sinonimi e contrari, finto, fittizio, inventato. Quello fu il pomeriggio in cui cominciò a provare ancora più rancore nei confronti dei suoi genitori. L'unica cosa che gli avevano lasciato quei due erano due nomi scomodi e troppo lunghi e un senso di totale insicurezza provocato dall'abbandono in collegio, come aveva sentito sussurrare da un paio di maestre qualche settimana prima. Ovviamente il bambino sapeva di essere insicuro, ma di certo la colpa non era da dare totalmente ai suoi genitori: era preso di mira da quasi tutti gli altri bambini. Fra i tanti motivi uno era la sua secchezza: per quanto riguardava l’altezza Atticus rientrava ampiamente nella media, tuttavia era, come lo chiamavano tutti gli altri bambini, “secco”, e questo sembrava essere esilarante per tutti gli altri. Ma la ragione principale per cui veniva preso di mira era il suo essere “speciale”: le mamme degli altri bambini, vedendo che Atticus non era né bello, né prestante e benché meno muscoloso, erano giunte alla conclusione che, per i suoi genitori, doveva trattarsi di un mero incidente di percorso, insomma, non si trattava di un caso come quello di Jake Morrison; ovviamente i loro figli, sentendo i discorsi di quelle comari che avevano donato loro la vita, si divertivano particolarmente a ripeterli a chiunque incrociasse il loro cammino. Il peggiore tra questi era Owen Sullivan: alto, grasso, estremamente ricco, convinto che tutto gli fosse dovuto e che nessuno fosse migliore di lui, provava un immenso piacere a prendersi gioco del “secco” compagno di giochi, ed era proprio a causa sua che Atticus era fuggito in lacrime nell’ala abbandonata. Ma ormai aveva smesso di piangere, distratto dalla singolarità di quel luogo. I suoi passi rompevano la quiete immobile dei corridoi deserti. Quando poi spostò la sua attenzione al soffitto, quella fu una vera rivelazione: quelle che ad un primo sguardo sembravano essere semplici righe blu su uno sfondo bianco, erano, in realtà, parte di un testo scritto a caratteri piuttosto piccoli, che, per quanto si sforzasse, Atticus non riusciva a decifrare; di certo non aiutava il fatto che, mentre tentava di leggere, continuasse a camminare, inoltre bisogna ricordare che aveva solo sette anni, e le sue capacità di lettura erano limitate, soprattutto per quanto riguarda il latino, lingua di cui non conosceva neanche l’esistenza. Con gli occhi alzati al soffitto il bambino non vide il gradino appena prima della porta, che si aprì quando, inevitabilmente inciampato, ci andò a sbattere contro. Prima del dolore si rese conto del freddo: l’aria all’esterno era molto più fresca di quella viziata che girava per i corridoi dell’ala abbandonata, inoltre il metallo bucherellato era congelato. Atticus non aveva idea da dove fosse spuntata quella scala di metallo, non ne aveva mai viste di così prima di allora; anche la porta, che gli pareva più una finestra, era piuttosto singolare. A questo punto gli si ponevano due scelte: percorrere le scale per andare ai piani superiori, oppure andare a quelli inferiori; tornare indietro non era un’opzione, poiché la porta si era chiusa e di maniglie all’esterno non ce n’erano. Tuttavia il bambino non sembrava per niente preoccupato, forse lo sfogo di emozioni che aveva avuto prima lo avevano reso totalmente indifferente a qualsiasi altra cosa, neanche una lacrima era scesa per il ginocchio che si era sbucciato durante la caduta. Cominciò a scendere qualche gradino, sperando di riuscire a trovare una strada per tornare in collegio: si trovava già nei guai perché non si era presentato alle lezioni dopo l’intervallo pomeridiano, se non si fosse trovato nel suo letto prima del coprifuoco gli sarebbero toccate almeno cinque settimane di punizione, il che significava pulire tutti i giorni tutti i bagni del collegio al posto dei bidelli. Questa prospettiva lo rendeva lo rendeva nervoso a tal punto che prese a giocherellare con la sua monetina portafortuna, come sempre nella tasca sinistra della giacca della sua uniforme. Si trovava tra due edifici dall’aspetto piuttosto vecchio: uno grigio sbiadito, che una volta doveva essere stato bianco, e uno di mattoni a vista intervallati da semplice muro grigio di un arancione brillante che era stato però preso di mira dalla muffa. Primo pianerottolo. Mancava circa un piano e mezzo per arrivare al suolo. Il secondo pianerottolo era grande circa il doppio del primo, perché si univa una seconda scala, identica, proveniente dall’edificio arancione e grigio. Terzo pianerottolo. Stava tremando talmente tanto che la monetina scivolò fuori dalla tasca sinistra e cominciò a rimbalzare. Panico totale: Atticus non poteva permettersi di perderla. Si inginocchiò e, dopo un paio di frenetici tentativi andati a male, riuscì a rientrare in possesso del suo portafortuna. Non si era accorto di aver smesso di respirare. Fece un respiro profondo. Rimase qualche secondo immobile prima di prendere in considerazione l’idea di alzarsi. Lentamente alzò lo sguardo e si rese conto che una una bambina stava scarabocchiando qualcosa su una lavagna bianca, di spalle, proprio davanti alla finestra aperta.

“Ciao!”

Quel saluto uscì fuori dalla sua bocca ancora prima di rendersi conto di cosa stava facendo.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Schroeder