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Autore: Silver Shadow    25/10/2016    1 recensioni
Si tratta di una piccola One Shot su questo videogioco che ho amato, che si ambienta due mesi dopo la fine del gioco stesso. Era un'idea che avevo in mente da tempo, ma ho deciso di realizzarla solo ora.. Come potrete immaginare, si tratta di una sorta di avventura riguardante Ellie e Joel. Purtroppo, sarà l'ultima.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ellie, Joel
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non doveva finire così.

Erano passati due mesi, da quella tragica, sfortunata concatenazione di eventi. Non ricordavo granché dell'ultima parte del nostro viaggio, per cui avevo dovuto affidarmi alla memoria di Joel. Erano passati due mesi, da quando avevamo trovato le Luci, e avevamo scoperto che esistevano altre persone come me, altri immuni, e nonostante tutto non era stata trovata una cura. Perché avevano semplicemente smesso di cercarla.
Per due mesi, avevamo continuato a condurre la stessa vita da superstiti di molto tempo prima, fuggiaschi di un fatale destino, prigionieri di un mondo che si era spento, prosciugato fino al midollo della vita che ospitava. Tutto per colpa di quel maledetto morbo, che ci aveva decimati, ci aveva messi in ginocchio, aveva preso tutto ciò che era nostro, tutto ciò che era stato costruito. Ora capivo come ci si sentiva in guerra: passavi anni, secoli costruire un regno, a mantenerlo saldo e forte, e un giorno arrivava un esercito nemico, con regole diverse, ovvero nessuna regola, e rovesciava tutti i mattoni che avevi riposto con cura gli uni sugli altri. Avevo sempre pensato che il modo in cui quella malattia si era comportata nei nostri confronti fosse stato scorretto. E due mesi dopo aver trovato le Luci, ne ebbi la conferma.
Io e Joel avevamo continuato a viaggiare, a combattere, a trovare rifugi temporanei dove accamparci e munirci di nuove provviste. Avevamo dovuto fuggire spesso, perché assaliti dagli infetti che si trovavano nelle vicinanze, ma non avendo conosciuto mai una vita diversa da quella, non me ne lamentai mai. Joel, dal canto suo, aveva accolto quella battaglia da tempo, e l'aveva fatta sua come solo un vero guerriero sapeva fare. Ma solo un guerriero che abbia una ragione per tornare sano e salvo dalla guerra combatte con tanto ardore, e io sapevo che Joel resisteva per me. E non potevo che essergli silenziosamente grata.
Quel viaggio ci aveva portato in una cittadina sull'oceano, che sembrava estendersi per parecchi chilometri, difatti, pur muovendoci di continuo, riuscimmo a vedere la spiaggia per molti giorni. Fu allora che accadde.
Una sera, dopo un lungo giorno di viaggio, durante il quale avevamo depredato una farmacia dalle poche medicine rimaste, ci accampammo in una piccola casa vicino alla costa, la meno danneggiata – addirittura, la porta si manteneva ancora salda sui suoi cardini. Joel, naturalmente, entrò per primo, munito di torcia, e ispezionò il posto da cima fondo, lasciandomi sulla soglia per non espormi ai pericoli. Sbuffai, e alzai gli occhi al cielo, ma non mi opposi quando mi lanciò un'occhiata torva, che indicava chiaramente che non volesse essere contraddetto.
Aspettai pazientemente che riemergesse dalla porta, sedendomi sui gradini di fronte, intagliando qualche rametto con il mio coltello.
- Tutto a posto, possiamo entrare.
Confermò un'inconfondibile voce baritonale e atona alle mie spalle. Mi alzai dai gradini, e senza una parola entrai in casa.
Era piccola, ma accogliente. Forse la tragedia non aveva toccato quell'abitazione, o lo aveva fatto da così poco tempo che sembrava un vero e proprio paradiso rispetto ai tuguri che ci avevano accolto nei giorni precedenti. L'ambiente era pulito, profumava vagamente di lavanda, e c'era addirittura del cibo nel frigo non andato a male.
- Joel, guarda qui, della carne! Non mi sembra vero!
Esclamai, su di giri, mettendo a soqquadro la cucina, cercando in tutti gli spazi disponibili, tirando ogni maniglia. Joel roteò gli occhi, davanti alla mia esuberanza, ma era evidente che fosse contento di quella scoperta. Avremmo passato la notte in un posto confortevole, e ci saremmo anche rimpinzati, come non succedeva da anni. Come probabilmente non era mai successo – almeno a me.
Mi spostai nella stanza adiacente, un largo salotto, le cui parete erano ingombre di sontuosi e antichi mobili contenenti oggetti e servizi pregiati. L'ambiente centrale, invece, era quasi interamente occupato da tre divani foderati di velluto rosso, rivolti verso quello che mi pareva un miracolo.
Un camino. In ottime condizioni, peraltro! Probabilmente avremmo potuto accenderci un fuoco per scaldarci un po'.
Joel dovette notare il mio sguardo trasognato e la mia espressione estasiata, perché abbandonò sul pavimento alcune provviste e si diresse verso la porta.
- Vado a cercare della legna da ardere. Se siamo fortunati, non solo potremo riscaldarci, ma anche cucinare quella carne.


Joel tornò con la legna mezz'ora dopo, circa. Sembrava rilassato ed intatto, segno che probabilmente non aveva avuto nessuno spiacevole incontro, lì fuori.
Nel frattempo, io avevo fatto un giro della casa, e avevo scoperto un bagno e due camere da letto molto invitanti. Avevo tastato il materasso per verificare che fosse soffice quanto sembrava, e i miei sospetti si erano rivelati fondati. Non avevo potuto resistere alla tentazione di mettermi a saltarci sopra, ma non ritenevo fosse necessario che Joel lo sapesse.
Senza che me lo chiedesse, gli andai vicino e lo aiutai a portare un po' di legna nel camino, sistemandola per bene. Poi, con l'aiuto dell'acciarino che eravamo riusciti a procurarci, dopo diversi tentativi una piccola fiamma prese vita nel centro del mucchio, cominciando ad espandersi, fino a creare un vivo, ardente fuoco.
Mi accovacciai subito davanti al camino, allungando le mani verso le fiamme, e godendomi finalmente il piacere del loro calore, dopo giorni di insopportabile gelo. Joel mi raggiunse dopo aver trovato una padella e averci riposto le fette di carne. Si sedette accanto a me, una gamba piegata e un braccio appoggiato su di essa, mentre teneva steso l'altro verso il fuoco, attento a non avvicinarsi troppo. Con il mento sulle ginocchia, mi godevo il calore e l'odore della carne che cominciava a cuocersi, sfrigolando e ritirandosi nella padella.
- Sembra quasi una cena normale.
Mi azzardai a dire. Io e Joel non parlavamo spesso, ma quando lo facevamo era per dire cose che avevano senso. In un tempo in cui la nostra esistenza aveva completamente perso il suo senso, non ci piaceva dare semplicemente aria alla bocca, comprensibilmente. Joel si voltò verso di me, il volto inespressivo, come sempre.
- Lo sarebbe con dei fornelli funzionanti. Ma i cavernicoli se la sono cavati per un sacco di tempo, in questo modo, per cui non ci lamenteremo.
Sorrisi alle sue parole. Non parlavamo molto di quello che era successo prima di esserci conosciuti, né di come era il mondo prima che quella piaga lo colpisse, per cui non sentivo spesso la parola “fornelli”. Dal canto mio, ero troppo giovane per conoscere un mondo diverso. Per me quella vita era sempre stata.. Normale. Probabilmente avevo conosciuto qualcosa di diverso, da piccola, perché conservavo sporadici ricordi, ma niente che mi consentisse di averne nostalgia. Per Joel era diverso. Lui aveva vissuto una vita vera, piena, prima di tutto questo, e si era visto portare via tutto, anche la figlia. Non ne parlava mai, era una ferita ancora aperta. E gli leggevo negli occhi che non si sarebbe mai rimarginata.
- Certo che no, mi piace fare la cavernicola. Era un periodo in cui potevi sbraitare parole senza senso, e nessuno ti dava per matto. Doveva essere bella, la vita, a quei tempi.
Commentai, osservando le fiamme che salivano verso l'alto, crepitando.
- Una volta, molto tempo fa, anche in casa mia c'era un camino simile. E' uno dei pochissimi ricordi che ho del periodo precedente alla pandemia, sai, quei rari ricordi di quando eri troppo piccolo anche per articolare una frase sensata, ma che stranamente ti restano in testa per anni. Mio padre mi teneva in braccio, seduto sulla poltrona, e mi raccontava delle storie, fino a che non mi addormentavo. Sempre lì, davanti alle fiamme, stretta nel suo abbraccio.
Al sicuro, pensai, ma non lo dissi. Joel rimase in silenzio, a quella mia confessione: non doveva essere facile nemmeno per lui affrontare il discorso padre e figlia. Non mi sorprese, infatti, il fatto che si mise semplicemente ad impiattare la carne, una volta cotta, senza dire una parola. O almeno, così credevo.
- Mia figlia aveva un peluche. Un elefantino viola, che portava sempre con sé. Non voleva che nessuno lo toccasse. Lo teneva sul seggiolone durante i pasti, lo portava nella vasca quando faceva il bagnetto, e lo teneva abbracciato tutta la notte. Un giorno, mentre sedeva vicino al camino, si avvicinò per riscaldarsi meglio, ma non si accorse che il peluche era troppo vicino alle fiamme. La sua proboscide prese fuoco, ma riuscii a spegnere il fuoco in tempo perché non si facesse male. Lei non sembrava aver pensato minimamente ai danni che avrebbe potuto subire: era disperata per la proboscide del suo povero peluche. Pianse per giorni.
Mi raccontò, alla fine, tenendo lo sguardo fisso sulle fiamme, come me. Era raro che mi confidasse ricordi del genere, ma a quanto pareva un semplice camino aveva risvegliato in noi ricordi ed emozioni sopite da tempo, tanto che ci dimenticammo della carne tanto agognata fino a qualche minuto prima.
- Mi manca molto.
Confessò, dopo qualche secondo di pausa, sorprendendomi. Mi voltai verso di lui, ma lui non mi guardò. Non si lasciava andare molto spesso, tendeva a nascondersi quanto più possibile, per cui rimasi interdetta per qualche secondo. Se si era permesso di aprirsi così, mi sentivo più sicura a farlo anche io. Era come se entrambi stessimo cercando di sostenere il macigno dell'altro, pur di non farlo pesare sulle sue spalle.
- Mancano anche a me. Ogni giorno. A volte maledico di essere immune. Avrei dovuto andare con loro, quando se ne sono andati.
Continuai, destando l'interesse di Joel – e forse alimentando la sua preoccupazione.
- Mi domando che senso abbia essere immuni alla malattia, se non è utile al mondo. Non sono riusciti a trovare una cura pur sperimentando su altre persone come me. E' una specie di maledizione che ci costringe a vedere gli altri morire.
Sputai fuori, amareggiata, alla fine, il volto contratto in un'espressione affranta. Ora sentivo chiaramente lo sguardo greve di Joel su di me. Sapevo che non voleva dicessi queste cose, e mi aspettavo che mi contestasse con parole ancora più dure, da un momento all'altro. Ma non lo fece. Restò in silenzio. Un silenzio eloquente, forte che mi raccontava dei pensieri che si stavano affollando nella sua testa. Quando lo guardai, il suo sguardo era rivolto verso il basso, e l'espressione del suo viso era di.. Dispiacere. Non un dispiacere per la mia sofferenza, per la sofferenza dell'umanità, ma un dispiacere che potrebbe essere dovuto a un pentimento, come di un assassino che sta confessando il suo crimine. Aggrottai le sopracciglia: non capivo perché si dovesse sentire così. Era forse perché non era riuscito a salvare la figlia? Il rimorso continuava ad attanagliarlo? O..
- Ellie, c'è qualcosa che devo dirti.
Proferì, con la sua voce più profonda del solito.
- Riguarda le Luci, e la cura.
A questo punto alzò lo sguardo su di me, ma proprio quando stava per proferire parola mi accorsi di un'ombra alle sue spalle.
- Joel, dietro di te!
Gli urlai, e i suoi riflessi fecero il resto. Joel rotolò di lato, evitando che il Clicker lo colpisse in pieno volto. Sfoderò il pugnale che portava al fianco e lo conficcò direttamente nella sua testa, tenendolo saldo fino a che l'infetto non stramazzò a terra, morto.
Ma ce n'erano altri. Sentii un fruscio vicino a me, e mi allontanai quanto bastava per non diventare il pasto di un altro di quegli esseri immondi e disgustosi. Mi mossi in fretta, estraendo il mio coltello e conficcandolo nella gamba dell'infetto, che emise un suono stridulo e acuto, più simile a quello di un animale che di un umano – cosa che ormai non era più; subito dopo, Joel lo colpì in piena faccia con il fucile, e le rosse, purulente escrescenze che avevano preso il posto della sua testa schizzarono sul muro. Trattenni un conato di vomito.
Mi diressi verso Joel, che era intento ad affrontarne altri due, ma non mi ero accorta di un terzo intruso, che mi saltò praticamente addosso, facendomi cadere rovinosamente sul pavimento di faccia, e montando sopra di me. Durante la caduta, purtroppo, avevo lasciato andare il coltello, che era troppo lontano da me perché potessi recuperarlo. La bestia mi stava addosso con tutto il suo peso, tanto che cominciava a schiacciarmi i polmoni, e io non riuscivo a pronunciare parola per chiamare aiuto. Lanciai uno sguardo verso Joel, che aveva appena sistemato l'ultimo dei Clicker con un colpo ben assestato sulla spalla, e ritrovai la speranza quando lui si voltò verso di me, liberandomi di quel peso, scagliandosi sull'infetto e prendendolo per la testa, che gli sfasciò contro il muro.
Mi tenni una mano sulla gola, prendendo ampie boccate d'aria, riprendendo a respirare, mentre Joel si inginocchiava davanti a me, appoggiandomi una mano sulla spalla.
- Stai bene?
Mi domandò, premuroso come sempre, porgendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi dal pavimento.
- Si, ma non..
Non completai mai quella frase. Il volto di Joel si trasformò completamente. I suoi occhi si spalancarono, assieme alla sua bocca, in un'espressione di stupore e terrore mescolati insieme.
Non doveva essersi liberato dell'ultimo Clicker. Evidentemente, quel colpo alla spalla lo aveva semplicemente steso per un po'. In preda al panico, non appena lo vidi, presi il fucile di Joel – che intanto si era accasciato su di me – e colpii quell'affare in pieno petto. L'infetto barcollò per un po', fino a stramazzare sul pavimento.
Le mie mani tremavano. Tutto il mio corpo tremava. Lasciai andare il fucile, e strinsi Joel, cercando di consolarlo.
- Oh mio Dio.. Okay. Joel, è tutto okay. Stai tranquillo. Non è niente. Passerà. Abbiamo le medicine, e..
Ma le parole mi morirono in gola. Non capii il perché di quella espressione che aveva assunto prima di essere attaccati dal Clicker, fino a che non lo vidi.
Un graffio. Un graffio enorme, sulla schiena. Aveva squarciato la sua camicia, arrivando fino alla carne. Era stato l'infetto, sicuramente. Non c'era spiegazione altra. Non c'era via di fuga. Non c'era soluzione. Non c'era niente. Game over.
Joel alzò leggermente la testa verso di me, e mi guardò, semplicemente. Le sue mani, deboli, andarono a stringere le mie braccia, e fece leva su di esse per sollevarsi un po'. Non allontanò il suo sguardo dal mio nemmeno per un attimo.
Io non riuscii a far altro che stringermelo contro. Lui mi cinse con le braccia tremanti, senza dire niente, mentre le mie lacrime si versavano sulla sua camicia. Ero un fiume in piena, che gli argini non potevano più contenere, e così allagavo tutto ciò che era intorno a me. Nascosi la testa nella sua spalla, singhiozzando silenziosamente, mentre Joel teneva la fronte appoggiata alla mia testa, bagnando i miei capelli delle sue lacrime. Le sue rare lacrime.
Quando mi sentii di nuovo capace di proferire parola, mi allontanai da lui quanto bastava per inchiodarlo con lo sguardo.
- Non ti abbandonerò. Non lo farò. Io sono immune, potrei prendermi cura di te e..
Ma Joel mi fermò. Sapevo che lo avrebbe fatto.
- No, Ellie. Non posso condannarti a questa vita, e non voglio farlo. Non voglio vivere in quel modo, non voglio essere uno di loro. Per favore, Ellie, impediscimi di trasformarmi in quegli esseri che ti hanno portato via la tua famiglia, la tua migliore amica e tutti coloro che amavi. Impediscimi di diventare un ammasso di funghi, senza coscienza, senza vita, da cui tutti scappano, di cui tutti hanno paura. Finirei ucciso comunque, e voglio morire mentre sono ancora in possesso delle mie facoltà mentali. Ti prego, Ellie.
Mi implorò. Nonostante tutto, il suo tono di voce era così fermo, così deciso, che stentavo a credere che fosse stato appena ferito da un infetto. Non accettavo che finisse così. Avevamo passato tanti mesi a combattere, a difenderci, e sebbene avessimo dovuto separarci per un po', sebbene le difficoltà che avevamo incontrato fossero state tante, non ci eravamo mai arresi. Non riuscivo a concepire che lo facessimo adesso.
- No, Joel, non posso. Non posso lasciarti. Come farò senza di te? Chi mi guiderà? Chi mi insegnerà?
Sentivo le lacrime continuare a sgorgare dai miei occhi, copiose, ma Joel era così rilassato che quasi mi fece innervosire.
- Non hai bisogno di guide. Sai tutto quello che c'è da sapere e… Sei una ragazza in gamba, Ellie. Sei stata come una figlia per me, e io.. Sono fiero di te. Dimostrami che sei la persona che ti ho insegnato ad essere. Dimostralo.. A te stessa
Fu costretto a fare diverse pause. Era evidente che soffrisse, perché il taglio sulla schiena era lungo e moderatamente profondo.
Dovetti pensare in fretta. Tremavo, ero in preda al panico, e la mia vista era totalmente annebbiata dalle lacrime. Ero accecata dal dolore per un destino che ci aveva voltato le spalle, che mi aveva tolto l'unica cosa che mi era rimasta, l'unica a cui mi fossi aggrappata, l'unica in cui credevo.
- Per favore, Ellie.
Fu l'ultima cosa che disse Joel. Il suo sguardo era una richiesta di aiuto: era terrorizzato all'idea di diventare come loro, e io non potevo mettere il mio desiderio di averlo con me davanti alla sua necessità di morire come un uomo, e non come una bestia.
Senza dire una parola, e senza smettere di piangere, tirai fuori dalla fondina la mia pistola. Mi tremavano le mani, mentre la sollevavo e la puntavo verso Joel.
Lui mi sorrise. Si avvicinò a me, in modo tale che la pistola appoggiasse direttamente sulla sua fronte, e chiuse gli occhi.
- Almeno, sarò di nuovo insieme a Sarah.
Furono le sue ultime parole. Sapevo che erano le sue ultime parole, anche se non lo avessi fatto in quel momento. Io, invece, avrei voluto dire così tante cose, ma non riuscii a pronunciare neppure una parola. Sentivo il cuore scoppiarmi di dolore, la testa che pulsava, il corpo che si faceva molle. Ma probabilmente non c'era bisogno che dicessi niente. Non ci sarebbe stata nessuna parola che avrebbe retto, in quel momento, niente che avrebbe cambiato le cose come avrei voluto che fosse. Non c'era più niente da dire, perché non c'era più niente da salvare.
E non dirmi che sarei più al sicuro con qualcun altro, perché la verità è che avrei soltanto più paura.
Ed era ancora così. Sarebbe sempre stato così.
Premetti il grilletto.

  
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