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Autore: taisa    25/10/2016    3 recensioni
Per quanto possa essere complicata, rotta o distrutta, la famiglia resta sempre la famiglia.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bra, Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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FAMILY


Figliol prodigo


“No! Puoi scordartelo. Assolutamente NO!” stava urlando Vegeta, camminando avanti e indietro per l’ufficio di Piccolo che a braccia conserte lo stava osservando con sguardo indecifrabile da dietro la propria scrivania. Vegeta sembrava un leone selvaggio rinchiuso in gabbia. “Allora trovamela tu un’altra soluzione” mormorò l’altro con con voce pacata e seria al tempo stesso.

Vegeta si fermò per un istante, osservando il collega con rabbia, “È il tuo lavoro, non il mio!” gli ricordò ringhiando. “Vedo che te ne ricordi, quando ti fa comodo” mormorò Piccolo con sarcasmo, guadagnandosi l'ennesima occhiataccia, prima che l’altro ricominciasse a camminare nella sua gabbia immaginaria.

Con lo sguardo seguì i suoi movimenti per alcuni istanti, “Senti, questo è sempre stato il piano. Lo abbiamo incastrato con qualcosa di piccolo, ora possiamo approfittare che sia rinchiuso e trovare le prove per le cose più gravi” gli rammentò, ma Vegeta non parve tranquillizzato dalla prospettiva. Fissò l’altro di sbieco per una frazione di secondo, senza mai smettere di camminare. “Abbiamo due anni per prendere ciò che ci serve” continuò Piccolo.

Infine l’altro si fermò, additando l’interlocutore con visibile rabbia, “Due anni un cazzo! Non intendo aspettare due anni in cui te la puoi prendere comoda” si avvicinò a grandi passi alla scrivania “Trova un modo per incastrarlo” “Ti ho detto da dove possiamo cominciare, ma tu mi hai risposto di no” gli rammentò Piccolo, sempre con la più assoluta calma.

“Fanculo!” sbottò Vegeta, tirando un calcio al tavolo che lo separava dell’interlocutore. Poi chinò il capo e serrò i pugni, parve essersi calmato, ma Piccolo lo conosceva abbastanza bene da non illudersi. “Dovevo passare la settimana con Bra” mormorò “Invece l’ho dovuta riportare da sua madre” ci fu un istante di silenzio, l’altro ispettore attese con pazienza. “Non rischierò di passare due anni senza mia figlia!” tornò ad urlare.

Piccolo si alzò, le braccia ancora incrociate, “Vegeta, non posso incastrarlo se non ho le prove” con un pugno Vegeta fece tremare la scrivania, “Se avessi avuto le prove te le avrei date anni fa!” “Questo lo so benissimo”. Ci fu un breve silenzio teso nella quale i due si fissarono.

Il momento fu interrotto da un secondo pugno dato alla superficie di legno che li separava. Piccolo si limitò ad osservarlo, poi sospirò, “Sei proprio un testardo” questo era un eufemismo “Sai bene che se qui c’è qualcuno che può aiutarmi a rinchiuderlo per il resto della sua vita, quello sei tu. Eppure ti rifiuti di collaborare” disse con tutta calma, attendendo un responso che non parve voler arrivare.

“Che cosa vuoi da me?” mormorò Vegeta, la mano stretta a pugno ancora immobile sulla scrivania. Piccolo continuò a parlare con parsimonia “Te l’ho già detto. Ha chiesto di parlare con te… vai a fargli visita” gli ripeté “Sei un poliziotto, è il tuo lavoro riuscire ad estorcere informazioni dai criminali” in silenzio attese che le sue parole lo raggiungessero. “Mi rendo conto che per te è dura, ma se non vuoi che…” “Stai zitto!” lo interruppe Vegeta. L’altro attese.

Dopo un infinito silenzio, Piccolo comprese di essere riuscito a portarlo dal lato della ragione “Allora Vegeta, parlerai con tuo padre?”. Per tutta risposta Vegeta uscì dall’ufficio sbattendo la porta.


***


Come si può spiegare ad un bambino che l’attività lavorativa di suo padre non era delle più pulite? Che la legalità non era ciò che gli dava da mangiare. Che suo padre aveva le mani sporche di sangue e che il destino voleva far sì che il figlio ne seguisse le orme.

Vegeta era quel bambino.

Non aveva mai capito molto di ciò che faceva suo padre, era sempre avvolto nel mistero e fin dalla più tenera età Vegeta intuì che doveva essere qualcosa di grosso e segreto, ma l’innocenza dei suoi anni gli permisero di non comprendere.

Ogni volta che a scuola qualcuno gli poneva la domanda “Che lavoro fa il tuo papà?” lui aveva imparato a rispondere che era un uomo d’affari. Tuttavia quando gli venivano chiesti più dettagli era solito mandare tutti al diavolo dicendo che non erano affari loro. Così come si sentiva rispondere a sua volta quando poneva le medesime domande a casa.

Un giorno, stufo e frustrato dall’essere sempre messo in disparte, pretese risposte da un gruppo di colleghi di suo padre che di sovente si fermavano a parlare di affari con lui. Uno di questi, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo, gli rispose con un ghigno “Tuo padre ha un’attività di famiglia. Vende medicine ci fu un momento di silenzio nella stanza, in cui tutti gli adulti avevano guardato l’uomo con sguardi che andavano dallo sgomento all’ostile e Vegeta comprese che gli era appena stato detto qualcosa di scioccante, ma era ancora troppo piccolo per capire.

Non aveva mai più visto quell’uomo, scomparso nel nulla senza nessuna spiegazione. E se in un primo momento si scoprì incuriosito da quel peculiare dileguarsi senza apparente ragione, notò ben presto che tutti erano più reticenti del solito a rispondere alle domande di un bambino. Non solo quelle che erano seguite alla spartizione di quell’individuo, ma anche qualsiasi altra. Poco tempo dopo tutti i dipendenti di suo padre cominciarono a non presentarsi più così spesso a casa. Tutti ad eccezione di Nappa, che al contrario sembrava essere diventato l’ombra di suo padre.

Quello fu il momento in cui Vegeta comprese che era meglio non fare più nessuna domanda.

Era sempre stato un bambino particolare, crescendo in una casa in cui i dialoghi erano pochi e misteriosi, aveva imparato anche a scuola a tenersi alla larga da tutti. Non aveva amici e non socializzava con i coetanei. Di conseguenza non si era mai accorto di quegli sguardi pieni di paura che lo seguivano per i corridoi da parte di chiunque avesse la sventura d’imbattersi in lui. Dai propri compagni di scuola ai loro genitori e persino da parte degli insegnanti.

A sette anni decise di intraprendere uno sport. Scelse di dedicarsi alle arti marziali, un’attività che non richiedesse alcuna interazione di gruppo e che gli consentisse di restare più a lungo a scuola, evitando di tornare a casa dove stava cominciando a respirare un’atmosfera pesante.

Affacciandosi dalla finestra della palestra, un giorno, si accorse di un uomo seduto su una delle panchine appena fuori dall’ingresso della propria scuola. Aveva attirato la sua attenzione perché, a discapito della calura dei primi giorni di giugno, l’uomo indossava una giacca pesante. Per il resto non aveva nulla di particolare, sembrava una persona qualsiasi immersa nella lettura di un giornale.

Tuttavia all’uscita dagli allenamenti, alcune ore più tardi, l’uomo era ancora lì. Vegeta prese la propria bici e come faceva ogni giorno cominciò a pedalare in direzione di casa. Incontrato un semaforo rosso si fermò e, guardandosi casualmente attorno, riconobbe lo stesso uomo in una macchina poco distante. Si appuntò il tipo e la targa dell’auto, per poi individuarla di sovente nei giorni successivi.

Non comprese appieno l’attività dell’uomo fino a quando lui stesso non avrebbe scelto la stessa carriera, per il momento tuttavia ritenne importante riferire al padre la sua scoperta. Il genitore gli aveva rivolto un sorriso nefasto e gli aveva suggerito di non preoccuparsi di nulla.

Quando il giorno dopo Vegeta rincasò, tutti i documenti dall’ufficio di suo padre erano spariti, lasciando solo cassetti vuoti e una libreria polverosa che nessuno toccava da anni.

Sebbene fosse tenuto all’oscuro dei particolari, all’età di sedici anni aveva ormai da tempo compreso in cosa consistesse davvero il lavoro di suo padre e si promise di tenersene alla larga. Tuttavia, lo shock più grande doveva però ancora arrivare.

Entrando in classe, un giorno in particolare, Vegeta notò diverse espressioni scure che lo fissarono da dietro i banchi, e persino da parte dell'insegnante. In un primo momento non diede troppo peso a quello che per lui era diventata la norma. Le cose precipitarono ben presto, quando si scoprì ad ascoltare una conversazione tra alcuni ignari compagni di scuola.

I due ragazzi erano sicuri che non ci fosse nessuno nei paraggi e cominciarono a discutere di una ragazza dell’ultimo anno. Secondo i pettegolezzi il fratello maggiore della giovane era deceduto la notte precedente, a causarne la morte era stata un eccesso di stupefacenti. I due non si premurarono nemmeno di nascondere il sospetto che la fonte fosse il clan della zona. Vegeta comprese subito che era tutto vero.

D’un tratto tutti gli abiti che indossava, il cibo che mangiava e persino i suoi studi cominciarono ad emanare una sensazione di sporcizia.

Nei due anni che seguirono, Vegeta prese tutte le misure possibili per creare una distanza tra sé e suo padre. Al compimento dei diciotto anni annunciò di voler abbandonare quella casa maledetta. La lite che seguì echeggiava ancora per i corridoi della magione e Vegeta udì suo padre urlargli che se voleva tornare sarebbe dovuto tornare strisciando.

Vegeta non strisciava, non l’aveva mai fatto. Aveva imparato fin troppo bene a badare a sé stesso. Orfano di madre e con un padre evasivo era inevitabile che cominciasse a mostrare segni d’indipendenza fin dalla più giovane età. Gli tornò molto utile quando ormai da solo aveva deciso di intraprendere la strada opposta a quella di suo padre, entrando nell’accademia di polizia e trovando lavori part-time per mantenersi.

Con il distintivo sul petto, cominciò a lavorare in vari dipartimenti della grande città, ma le sue origini continuarono a fluttuare nefaste nella sua memoria. Non aveva mai dimenticato il potere di suo padre e per evitare di essere rintracciato si era abituato a chiedere il trasferimento ogni paio d’anni, con la scusa che sempre nello stesso posto si annoiava.

Dopo diversi lavori e diversi compagni di squadra con la quale non aveva nessun legame, fu assegnato al suo attuale collega. Non avevano cominciato con il piede giusto, Vegeta era troppo sboccato ed irritabile e Goku sembrava prendere la vita con tutt’altra filosofia. Fu lo stesso interesse per le arti marziali a dare a Vegeta qualcosa che non aveva mai avuto prima, un amico.

Tuttavia Goku, o Kakaroth come Vegeta lo aveva ribattezzato a seguito di una qualche stupida battuta, non era la sola cosa che servì ad incatenarlo in quel posto. La simpatia che il nuovo collega provava per lui lo costrinse a presentargli Bulma. E se in un primo momento neanche con lei le cose erano state delle migliori, il tempo aveva cambiato anche quello.

Bulma aveva qualcosa di diverso e l’attrazione che provava per lei non era soltanto una cosa passeggera. Si era scoperto innamorato di lei e per quanto avesse cercato di dimenticarsene in diverse occasioni, Bulma era una forza della natura e sembrava avere un vero talento per ricordarglielo.

Che diavolo! Aveva pensato al tempo, era passata più di una decade da quando aveva lasciato urlando la casa paterna. Valeva ancora la pena preoccuparsene? Suo padre era fuori dalla sua vita e Vegeta decise che se proprio doveva scegliere un posto dove restare era lì, in quel momento. Suo padre non l'avrebbe mai più cercato.

Quello era stato un errore.


***


Per lavoro Vegeta aveva messo piede in diversi carceri. Avevano tutti le loro regole, ma le prassi erano sempre abbastanza standard. Gli incontri tra carcerati e ospiti avvenivano in luoghi più o meno privati a seconda dell’importanza del posto. In alcune prigioni c’era il divario di un vetro, in altre a separarli c’era soltanto un tavolo.

Quello che ospitava suo padre era organizzato in piccole sale. Non c’era molto all’interno a parte un tavolo e un paio di sedie. In un angolo una telecamera mostrava la conversazione ad un paio di dipendenti seduti in uno stanzino alla fine del corridoio diviso nelle apposite stanzette.

C’erano due ingressi, uno dei quali era l’uscita per il visitatore che doveva passare attraverso le solite procedure per la sicurezza. L’altra porta si affacciava alle carceri, dalla quale entravano i prigionieri. Accanto ad entrambe un secondino restava vigile per monitorare da vicino gli eventi nella stanza.

Vegeta era rimasto in piedi, ignorando la sedia che era assegnata ai visitatori. Le braccia incrociate e lo sguardo che di tanto in tanto si scostava sulla telecamera che silenziosa lo stava guardando.

Naturalmente per motivi di sicurezza la pistola gli era stata sequestrata all’ingresso assieme alla giacca, tuttavia il distintivo era rimasto ancorato alla sua cintura in una silenziosa ammonizione per chi osasse dimenticarsene.

Una persona qualunque non si sarebbe mai accorta della sua impazienza e del suo nervosismo, nella sua posizione stoica. A tradirlo c’era solo il continuo tamburellare di un dito sul proprio bicipite.

Quando si aprì la porta che dava alle prigioni, Vegeta lasciò cadere le braccia, stringendo forte i pugni per contenere una calma che non aveva. Nel momento in cui rivide il viso di suo padre, invecchiato dall’età, ringraziò di non avere a disposizione la propria arma da fuoco.

L’uomo era accompagnato da due carcerieri, che al suo fianco lo seguivano con espressioni serie e concentrate. Le mani del carcerato erano legate insieme dalle manette. Vegeta lo osservò mentre si avvicinava con lentezza nella tuta arancione che indossava sulla quale aveva stampato un numero.

Il genitore si avvicinò al tavolo, gli sorrise con quello sguardo nefasto che Vegeta ricordò di odiare con ogni fibra del suo essere. “Ah…” gli disse, “Il ritorno del figliol prodigo”. Quelle parole gli bastarono.

Prima che chiunque potesse rendersene conto, il pugno di Vegeta si posò con tutta la sua forza sul viso del padre che, a causa delle manette, dell’età e della sorpresa, finì al suolo. “Bastardo” sibilò l’agente, mostrando all’uomo la mano ancora stretta e ora sanguinante sulle nocche a causa dell’impatto.

Impreparati, i secondini che lo avevano condotto fin lì restarono a fissare la scena per un secondo. Infine il più anziano dei due si chinò accanto al prigioniero per aiutarlo ad alzarsi. L’altro custode, di molto più giovane ed inesperto, cercò invano un suggerimento dal collega, che però non arrivò.

L’uomo guardò terrorizzato Vegeta, rendendosi conto ben presto che sembrava intenzionato a ripetere il gesto. Gli poggiò le mani sulle spalle per spingerlo indietro, ma quando lo fece capì subito che se l’ispettore avesse voluto colpire, lui sarebbe sbalzato via come un fuscello. Era un ragazzo alto e mingherlino, l’esatto opposto dell’uomo che avrebbe dovuto fermare.

Suo padre tornò ad alzarsi, sputò al suolo un grumo di sangue, senza mai smettere di guardare il figlio. “È questo il modo di trattare tuo padre? Io sono la tua famiglia” gli ricordò. Vegeta fece un passo in avanti e vedendo il collega in difficoltà, anche il secondo carceriere si prodigò nel tentativo di trattenerlo. “Figlio di puttana!” sbraitò il poliziotto, “Mio figlio è morto per colpa tua!” tuonò pronto a tirare un altro pugno all’espressione divertita del padre.

Dopo aver visto gli sguardi supplichevoli degli altri agenti, uno dei guardiani davanti alla porta decise di intervenire. Più grosso e muscoloso degli altri due riuscì quantomeno ad evitare una nuova collisione, ma anche con il suo aiuto non fu affatto facile trascinare l’incollerito agente verso l’uscita. Sebbene fosse più basso di tutti e tre i custodi, Vegeta sembrava avere ancora la meglio su di loro.

“È tutta colpa tua, bastardo! Trunks aveva solo tredici anni!” stava ancora urlando a squarciagola, quando riuscirono a trascinarlo oltre la soglia. L’ultima cosa che vide di suo padre fu un ghigno ricoperto di sangue su un viso che si stava già gonfiando.

“Lasciatemi!” ordinò Vegeta, quando l’uscio era stato richiuso e lui perse la visuale del genitore. In un gesto si liberò di tutti e tre gli agenti che stavano cercando d’immobilizzarlo. Quello grosso fu solo sobbalzato all’indietro, il più anziano ringraziò di avere la parete alle proprie spalle che gli evitò la caduta, il più giovane fu meno fortunato, trovandosi gambe all’aria.

Girandosi, Vegeta incrociò lo sguardo con Piccolo che appoggiato sul muro dall’altra parte del corridoio a braccia conserte commentò “Un perfetto esempio di professionismo” senza nemmeno premurarsi di nascondere il sarcasmo. “Chiudi quella cazzo di bocca” gli rispose, camminando con passo pesante verso l’uscita. Sul tragitto si prese il tempo di tirare un violento calcio ad un cestino che con un frastuono si schiantò al suolo. Vegeta voltò l’angolo sparendo dalla vista.

Tutti, ad eccezione di Piccolo, restarono sgomenti ad osservare la scena, udendo chiaramente un “Levatevi dai piedi” urlato a qualcuno lontano dai loro occhi, forse guardie accorse a controllare l’origine degli schiamazzi. Pochi secondi più tardi qualcos’altro andò in frantumi.


CONTINUA…



  
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