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Autore: Ghevurah    25/10/2016    4 recensioni
Questa città è nata da un sogno e dei sogni possiede la materia: paure che trasudano dalle ombre, desideri che sfilano alle luci delle fiaccole. Così ci si perde e ci si trova in un riflesso capovolto, per poi perdersi ancora. Ancora e per sempre.
Dopo la rovina della Dagor Bragollach, Celegorm, Curufin e Celebrimbor si rifugiano in Nargothrond, ospiti di Finrod Felagund. Quest'è la storia della loro convivenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celebrimbor, Celegorm, Curufin, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro; personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.



Antefatto alla storia: Nell’anno 455 della Prima Era, Morgoth rompe l’Assedio ad Angband, scatenando un’eruzione vulcanica. Le fiamme bruciano la piana di Ard-galen e giungono fino alle creste degli Ered Wethrin e del Dorthonion. Con il fuoco si mostra anche Glaurung, Padre dei Draghi, seguito da eserciti di Orchi e Balrog.
Elfi e Uomini subiscono gravissime perdite e il conflitto viene ricordato come Dagor Bragollach (Battaglia della Fiamma Improvvisa).
Il Dorthonion, retto dai fratelli Angrod e Aegnor, cade e i due rimangono uccisi.
Finrod Felagund giunge da Nargothrond per prestare soccorso ai propri fratelli, ma viene bloccato dagli eserciti di Morgoth presso le Paludi di Serech. A prestargli soccorso sono gli uomini di Barahir, Signore della Casa di Bëor, che permettono alle schiere del re di mettersi in salvo. Come segno di gratitudine, Finrod dona l’anello della propria Casata a Barahir, giurando di prestare aiuto a lui e ai suoi discendenti in qualunque momento di bisogno.
Più a est, gli eserciti di Morgoth riescono a forzare anche il passo di Aglon, tenuto da Celegorm e Curufin, e a invadere lo Himlad. I due fratelli, assieme con Celebrimbor, ripiegano verso sud, rifugiandosi in Nargothrond.


Nomi Quenya con corrispondenze Sindarin (ordine di nomina nel testo):
Findaráto - Finrod
Turkafinwë (Turko) Tyelkormo (Tyelko) - Celegorm
Russandol - Maedhros
Ñolofinwë - Fingolfin
Moringotto - Morgoth
Curufinwë - Curufin
Arafinwë - Finarfin
Fëanáro - Fëanor
Aikanáro - Aegnor
Angaráto - Angrod
Artanis - Galadriel
Makalaurë - Maglor
Ambarussa - Amras
Carnistir - Caranthir
Artaher - Orodreth/Arothir
Tyelperinquar - Celebrimbor













La materia dei sogni








È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

Italo Calvino, Le città invisibili










Prologo






Solleva il capo e annusa un’aria stucchevole – incensi dolciastri e una nota di muffa –, la stessa da settimane. Persino Huan ha perduto quel suo odore acre, d’istinto fattosi carne.
Tyelkormo sospira, rigirandosi tra i cuscini del divano.
Sono giorni cupi, lunghissimi, come le ombre tese a sfida delle fiaccole; ombre da cui suo fratello osserva quella città tumulata.
E lui aspetta il momento in cui l’analisi si trasformerà in macchinazione, nella trama di un qualcosa, qualsiasi cosa, da cui venir assorbito.
Le ore senza tempo annegano nel vino che loro cugino dispensa in alternativa alla bevanda amara e schiumosa di cui i Naucondi gli hanno fatto dono.
“Birra,” aveva sillabato Findaráto, dorato come il liquido che offriva, ma Tyelkormo l’aveva già assaggiato nel Thargelion e non era intenzionato a ripetere l’esperienza.
Con un sospiro volge lo sguardo sopra di sé, verso le arcate e gli stucchi e i mosaici che vestono la carne di roccia. Pareti contratte, intente a fagocitare ciò che si muove al loro interno, a spingerlo in intestini sempre più bui. Giù e ancora giù, verso baratri in cui l’aria – quella vera – è solo un ricordo.
Socchiude le palpebre, controllando il proprio respiro.
Huan, accucciato sui tappati, solleva il muso e lo ruota verso di lui, rivolgendogli uno sguardo giallo e selvatico in cui balena una preoccupazione fraterna.
“Ho solo nostalgia del mondo,” mormora Tyelkormo scrollando le spalle.
Ed è così. Vorrebbe uscire, infischiandosene dell’Ombra che dilaga nel Beleriand, smaniosa di trovare pertugi in cui strisciare per insidiare un’illusione di salvezza. Vorrebbe uscire e prendersi la propria rivincita, sanando ferite dell’orgoglio.
Ricorda ancora il fetore sulfureo trasportato dal vento dell’Himlad; spirava sempre da nord e il suo mugghio echeggiava lungo il valico dandogli voce.
Così la gola di Aglon aveva potuto raccontare loro delle fiamme, improvvise quanto il destino di morte che si compie in Endórë.




Gli Orqui non arrivarono a drappelli – manciate d’unità sfuggite alle maglie della cavalleria di Russandol o a quella di Ñolofinwë –, giunsero in massa. Un’orda che alle proprie spalle aveva solo la desolazione della cenere.
Si riversarono nel passo come l’ondata d’una piena, infrangendosi sulle pareti rocciose, sbattendo e arrancando e mordendo. E Tyelkormo abbracciò la consapevolezza d’essere l’ultimo argine all’avanzata di Moringotto nelle terre libere del Beleriand.
Avvertì il sangue ribollire, quasi stesse attendendo a una grande caccia nel Valinor e si scagliò sui nemici con foga.
Alcuni consideravano gli Orqui come mostruose emanazioni dell’Avversario, ma per lui erano mera carne e sangue; materia viva che s’apriva alla lama della sua spada, alla punta delle sue frecce. Annusava il loro fetore – sudore acido, zolfo ed escrementi di lupo –, così come annusava l’odore della loro paura, si sfamava di essa, calando fendenti nella moltitudine di corpi.
Ben presto la sua razionalità affogò in un istinto che aveva colori diversi, più corposi e ammorbanti, di quello in cui aveva imparato ad annullarsi nel Valinor, al suono erratico del Valaróma. E lui non udì richiami; non vide la sconfitta.
Solo la presa gelida di Curufinwë che si chiudeva sul suo polso lo richiamò alla realtà.
Aveva il volto pallido, suo fratello. Le labbra erano livide e gli occhi mercurici accesi di trepidazione. Tyelkormo non lo vedeva così da anni, ma gli ci volle il tempo del distacco per rendersene conto.
“Che cosa stai facendo?” Chiese Curufinwë – una domanda che fendette l’istinto, raggiungendo il cuore della ragione. “Dobbiamo andarcene. Subito. Il passo è preso.”
Tyelkormo guardò prima le proprie mani bagnate di sangue, poi l’orizzonte di cadaveri e rocce che vomitava altri nemici.
“Vuoi fuggire?” Domandò come se fosse la più surreale delle ipotesi.
Suo fratello gli strinse il polso. Una presa che Tyelkormo, ancora preda degli echi dello scontro, non avrebbe neppure notato se non fosse appartenuta a Curufinwe.
Alzò lo sguardo per trovare il viso di suo fratello a una spanna dal proprio. Il respiro di Curufinwe era intriso d’una rabbia gelida e si mischiava al suo, bollente e ferino.
“Non dimenticare il Giuramento,” soffiò suo fratello con voce ben più tagliente della spada brandita da qualsiasi Urco.
Tyelkormo corrugò la fronte, infastidito da un simile monito. Ma quando fece per ribattere un cavaliere li superò al galoppo, travolgendo l’avanzata di un Nauro.
Era Nármaitë, a capo delle schiere di Curufinwë, e proveniva dalla retroguardia.
“Quel’è il responso?” Chiese, tornando verso di loro.
Tyelkormo sentì le dita di Curufinwë liberargli il polso – rispetto al suo tocco l’aria del nord sembrò fuoco.
“Ce ne andiamo,” rispose suo fratello, indirizzando un’occhiata seccata ai fianchi montani, ormai brulicanti di nemici.
Nármaitë gli tese una mano, Curufinwë l’afferrò e montò dietro di lei. Poi si voltarono entrambi verso Tyelkormo.
Lui guardò il passo. La notte possedeva la materialità dei cadaveri e lungo il valico le rocce ghiacciate brillavano, sinistre, assieme alle corazze dei morti. La neve posatasi sul sentiero era un impasto di fango e sangue rimestato dagli Orqui che ancora avanzavano, quasi nudi rispetto ai guerrieri Ñoldor, ma animati da una volontà oscura che trascendeva la ragione e si faceva rabbioso istinto. E c’era qualcosa di terribilmente affascinante in tutto quello, un appello all’indole ferale che abitava l’animo di Tyelkormo.
“Turko.”
La voce di Curufinwë raggelò ogni suo pensiero.
Con un impeto di stizza piantò la propria spada nel cranio del Nauro travolto da Nármaitë. Un grido di frustrazione gli lasciò le labbra, vibrando lungo il passo del tutto simile all’ululato di un animale.
In lontananza, alcuni Orqui alzarono il capo, allarmati. Poi Huan emerse dalla notte – uno spettro evocato da quel clamore –, e con il muso nero di sangue raggiunse il proprio compagno.
“Andiamocene,” ringhiò Tyelkormo.




Sospira di nuovo. Le volte del soffitto sembrano sempre più incombenti, l’odore di umido e muffa, mescolato a quello degli incensi dolciastri, sempre più nauseante.
Da oltre le pareti di roccia proviene un brusio: il vociare secco, duro dei Sindar e di quei Ñoldor che hanno saputo sottostare con tanto zelo all’ordine di un re straniero.
Lui afferra un calice con un gesto stizzito, ma appena avverte l’aroma mielato del vino storce il naso e sbatte il bicchiere sul tavolo.
Il vino ondeggia, i fogli sparpagliati lì attorno vengono bagnati da alcune gocce. Tyelkormo le guarda espandersi, divorare la carta, e pensa alla macchia dell’Ombra dilagata su Endórë.
Nessuna voce è giunta da nord, nessuna dai suoi fratelli. Findaráto e il suo consiglio sostengono che per ora sia troppo incauto inviare ricognitori nelle Marche, esponendo il passaggio segreto che conduce a Nargothrond. Meglio crogiolarsi in una serenità fallace, pagando il prezzo dell’ignoranza.
Tyelkormo stringe le mani a pugno. La melodia di un’arpa attraversa le aule di pietra e oro; una risata risuona da qualche parte, tra le arcate.
La pelle pizzica, un sentore di fastidio permea il suo corpo ed esplode nella mente sotto forma d’immagini, di visioni.
Una piena del Narog che sfonda i propri argini, irrompendo nelle gallerie di Nargothrond. Acqua e fango a spazzare l’arroganza dell’oro. O forse un terremoto: corridoi e sale collassati in una tomba di roccia.
Tyelkormo serra gli occhi. Devo uscire, scoprire cosa sta accedendo fuori. Respirare aria, aria vera.


_______



Lascia correre l’indice sulla superficie del tavolo, sopra le venature del legno lucido di vernice. Gli anelli che indossa riflettono le luci corpose delle fiaccole, sistemate a ogni angolo della sala e sorrette da lumiere decorate con motivi floreali. Alcune gemme brillano tra le corolle scolpite, e lui riconosce facilmente la lavorazione dei Casári degli Ered Luin – linee nette e particolari minuziosi – abbinata a soggetti tipicamente eldarin.
Poi la sua attenzione si rivolge a quelle torce caduche, preferite ai cristalli delle Lampade: un’altra beffa all’ingegno dei Ñoldor, alla memoria di suo padre.
Muove qualche passo nella sala, le suole degli stivali a rintoccare sul pavimento mosaicato.
Gli altorilievi che sporgono dalle pareti dialogano con la roccia smaltata d’oro e calano la sala in un’atmosfera opprimente. Raffigurano intrecci di serpi a memoria dello stemma di Arafinwë, e sopra di loro un’euritmia di volte prende forma nella pietra, culminando in cimase scultoree.
I Sindar dicono che Nargothrond sia una novella Menegroth, una sua suggestione; Curufinwë non ha mai visto la città delle mille caverne, ma è certo che Findaráto abbia preso spunto dalla sua ampollosità per poi arricchirla con il proprio, pacchianissimo, gusto. Un retaggio vanyarin, forse, che di certo esula dall’estetica ñoldorin. Perché non sembra esserci misura in Nargothrond, così come non sembra essercene nelle apparenze del suo sovrano.
Ed eccolo, l’ennesimo sfavillo d’oro e gemme. L’ennesimo eccesso.
Edrahil, il consigliere, è un’ombra alle sue spalle. In mano tiene alcuni fogli arrotolati: progetti della città che Curufinwë stesso ha richiesto. Ed è forse sapendo questo che il consigliere gli rivolge uno sguardo indagatore a cui lui non si sottrae: lascia che si rifletta nella trasparenza gelida dei suoi occhi e torni ad abbassarsi.
“Curufin,” lo saluta Findaráto con un sorriso; ma quel nome consonantico, pungente, è un oltraggio al più prezioso regalo di suo padre.
“Finrod,” si costringe a ribattere Curufinwë. Sillabe atone, prive di qualunque inclinazione: così suona e sempre suonerà il Sindarin sulle sue labbra.
Con la coda dell’occhio scorge il viso di Edrahil irrigidirsi: forse non è ancora abituato alle omissioni dei Fëanárioni riguardo al titolo di Findaráto. Ha uno sguardo circospetto, tipico dei Moriquendi privi di aspirazione che non sia la mera sopravvivenza. Lo sguardo d’un cerbiatto nato in territorio di caccia.
E quando Findaráto lo richiama a sé, Curufinwë sa che lo sta facendo per tutelarlo.
“Puoi andare, amico mio.”
Una gentilezza affettata echeggia nella sua voce – fresca, quasi giovanile – e impregna persino la sua gestualità: i movimenti con cui prende i progetti portigli da Edrahil paiono artefatti come quelli di un danzatore, come Nargothrond stessa.
Quando Edrahil lascia la sala, il sorriso di Findaráto si fa incoraggiante, quasi complice. Un sorriso che riaccende l’irritazione di Curufinwë, perché loro, cugini per un quarto di sangue, hanno ben poco da spartire.
Findaráto veste il verde della propria Casata e al collo porta memorie del Valinor ingabbiate nell’oro di Endórë. La Nauglamír con le sue maglie pesanti, intricate, è un ricamo pretenzioso sulla sua pelle, eppure lo bagna di quella luce ineluttabile che Fëanáro stesso evocava nelle sue fucine. Ed è come se fosse lui, ora, a custodire l’eredità d’un simile splendore. Lui che ignora il nome, il taglio, la lavorazione delle gemme che indossa.
Findaráto appoggia i progetti ancora arrotolati sul tavolo e l’aggira con passo leggero – svolazzo di velluto e oro – per sedersi su una delle sedie sistemate lì attorno.
“Curufinwë,” chiama, e il suo è uno scoprire le carte e al tempo stesso dare il via a un nuovo gioco. “Sono profondamente onorato dal tuo interessamento nella costruzione di Nargothrond.”
La rotondità della loro lingua è respiro di casa, ma viene trattenuta in un sussurro, in un bisbiglio segreto, quando potrebbe levarsi a scuotere le fondamenta di quello stesso regno. Curufinwë sa che si tratta di un’arma, una carta vincente che suo cugino ha giocato contro di lui.
Inarca un sopracciglio, senza rispondere al sorriso di Findaráto. Conosce la sua strategia: assecondare il prossimo, vezzeggiandolo con complimenti ben poco velati. Complimenti che, nel suo caso, non hanno presa facile. Per questo l’accortezza della lingua, il tentativo di calarlo in un’atmosfera conciliante. Ma Curufinwë è ben lungi dal lasciarsi giocare.
“È il tuo architetto che dovrebbe essere onorato dal mio interessamento.”
“Immagino lo sarebbe,” mormora Findaráto, la voce colorata da un divertimento sottile. “Ti avviso, però, che i Casári sanno essere anche più scostanti di certi Ñoldor.”
Curufinwë sciocca la lingua, riducendo le propria risposta a un sibilo sommesso: “E chiacchierano meno di certi altri.”
Non guarda Findaráto: il suo mezzo cugino ha già ricevuto troppe attenzioni, e lo sbuffo basso, compiacente, che sente provenire dalla sua direzione gliene dà la certezza.
Srotola i progetti abbandonati sul tavolo. Tra i disegni meticolosi dei Casari, dalle linee spesse e dai particolari finemente illustrati, ne emergono alcuni leggerissimi, simili a schizzi, in cui il segno si perde nel biancore della carta. Spazi e colonne abbozzati, accenni di decorazioni che troppo lasciano all’immaginazione. Una pretesa d’astrazione imposta a costruttori e stuccatori.
“Questi disegni sono tuoi,” osserva, lasciando correre le dita sui fogli dispiegati.
Findaráto, dall’altra parte del tavolo, sospira e – lui lo sente, lo sente senza bisogno di vederlo – riprende a sorridere. “Solo alcuni,” dice. “Ma non posso credere che siano le mie velleità di progettista a interessarti.”
Curufinwë avverte gli occhi di Findaráto sulla pelle, insistenti come un tocco, ma continua ad ignorarli. “Ci sono svariate cose, di me, che non crederesti.”
“È così. Non avrei mai creduto che saresti stato disposto a contribuire al tesoro di Nargothrond con il tuo lavoro.”
Sono quelle parole a far sollevare il capo a Curufinwë, a indurlo a cercare lo sguardo di Findaráto. E forse lo guarderebbe, lo vedrebbe veramente, se la Nauglamír non calamitasse la sua attenzione, splendendo d’un retaggio che non può accettare.
I suoi pensieri divengono un’incrinatura in quel gioco di tattiche e menzogne. Cos’hai dato in pegno ai Casári per avere quel gioiello? Cos’hai portato da Tirion, ignorando gli ordini di mio padre?
Ma non importa. Non fintanto che il livore rimane controllato – una spina a raschiare la gola – e i quei pensieri muti.
“Questa resta pur sempre una città ñoldorin,” dice, pronunciando quell’ultimo aggettivo con finta casualità.
Findaráto non concorda né obietta. Lo guarda, come ha fatto prima, quasi stesse cercando d’avere dal suo corpo quei segreti che le parole non svelano.
Infine sospira la peggiore delle risposte: “Ma io non avrei mai creduto d’averti qui.”


_______



È un gelo arido, vitreo, quello intrappolato nello sguardo di Curufinwë. E Findaráto riscopre i brividi di notti infinite, scandite dallo stridore dei ghiacci.
“Sono state le più sfavorevoli circostanze a portarmi in questa città,” sibila suo cugino.
E lui sa di essere inciampato sulle sue stesse parole: la caduta dell’Aglon, la costretta ritirata a Nargothrond, sono una ferita ancora aperta nell’animo Curufinwë.
Decide di non ribattere; rimane a guardarlo studiare i progetti della città, a cercare qualcosa che – n’è certo – diventerà politica, arma diplomatica.
Le mani di Curufinwë sembrano assaporare il contatto con la carta, ne carezzano la superficie e s’inabissano tra le sue pieghe.
Veste solo di nero, la stella a otto punte – memento trapuntato sul cuore – è l’unica nota di colore. Il suo viso è di un pallore affilato, accentuato dai capelli, lisci e scuri come ali di corvo. E a volte, quando le ombre ne incidono gli zigomi e incupiscono lo sguardo, è difficile ricordare che si tratta di lui, di lui e non di Fëanáro.
Findaráto non sa se sia sempre stato così, non ricorda com’era alle luci degli Alberi: il ricordo appartiene a suo padre, a sua madre. Ad Amarië. Ciononostante sa che al di là del Mare tutto sarebbe stato più facile, perché i malintesi, i dissidi, persino le liti erano argomenti di politica quanto di famiglia. E c’era chi lo ricordava loro anche quando avrebbero voluto che fosse altrimenti.
Ha pensato a lungo al modo in cui guardare Curufinwë ora – un cugino, un rivale, un’opportunità –, ma tutte le opzioni si sovrappongono e annullano nel presente immobile. Nell’incertezza che l'attanaglia.
Fuori da Nargothrond, Yrch e Gaurhoth irrompono dalle trincee del nord, e mentre i suoi ospiti vorrebbero informazioni, i suoi sudditi necessitano protezione.
Le perdite alle Paludi di Serech sono una responsabilità che mai smetterà di tormentarlo: accecato dal desiderio di prestare soccorso alle Marche del Nord, ai suoi fratelli, aveva dimenticato ogni accortezza tattica, dando in pasto le proprie genti alle orde del Nemico.
Immaginava di spingersi a est, verso le pendici delle montagne, e di trovare ancora dispiegate le forze del Dorthonion. Immaginava di arrivare prima del fuoco, delle mostruosità rigettate dagli intestini di Angband. Ma quando gli strepiti degli Yrch sovrastavano lo scrosciare del Sirion, e l’odore di putridume e sangue giungeva a lui, si rendeva conto di essere ancora a piedi di distanza, l’acqua stagnante delle Paludi ad ancorarlo alla realtà: Aikanáro e Angaráto erano perduti. Non aveva potuto fare nulla per loro, nonostante ciò che aveva promesso ai loro genitori, ad Artanis. A se stesso.
Un frusciare di carte lo distoglie da quei pensieri. Curufinwë sta ancora osservando i progetti e Findaráto, per un attimo, si rivede in lui: si è lasciato il passo dell’Aglon – violato – alle spalle, le corone montane del nord arse dalle fiamme. Non ha notizie dei fratelli che presidiavano quelle regioni; Findaráto stesso non ha permesso a di lasciare il Nargothrond per raccogliere informazioni.
Ed ecco il punto di contatto che credeva perduto: la tragedia tesa sul loro destino. La sofferenza, la privazione che tutti loro hanno provato.
“Mi dispiace di avervi impedito di avere notizie da nord,” mormora sondando le reazioni di Curufinwë: il minimo irrigidimento della mascella, lo schiarirsi dello sguardo. Unici e preziosi indicatori dei suoi sentimenti.
“Avrò notizie quando gli Orqui verranno a bussare alle porte di Nargothrond.”
La risposta di suo cugino è come il morso d’un animale a cui si stava mostrando fiducia, ma Findaráto condivide con lui l’ostinazione ñoldorin, e quando Curufinwë si volta per raccogliere i progetti, allunga una mano sul suo braccio.
Il tessuto della casacca che suo cugino indossa è morbido, tiepido, ma sotto di esso il suo corpo irradia una sensazione di gelo e s’irrigidisce al suo tocco.
Findaráto cerca i suoi occhi – cristalli di fumo –, concentrando nella proprie parole quel sentimento che sente unirli. “Spero stiano bene. Lo spero davvero.”
Pensa a Russandol, Findaráto, a Makalaurë, ad Ambarussa; persino a Carnistir. Curufinwë deve intuirne la sincerità, sentirla vibrare in quelle parole, eppure il suo volto non muta espressione. Oltre il ghiaccio del suo sguardo sembra attizzare una fiamma corrosiva.
“Non sarebbero i primi fratelli che perdo,” dice e nella sua voce non c’è alcuna inflessione.


Curufinwë lascia la sala, portando con sé i progetti della città, e Findaráto s’abbandona sulla sedia.
Una mano corre a massaggiare il collo. Le dita indugiano sul reticolo d’oro e gemme che indossa: una morsa improvvisamente soffocante. Ma la Nauglamír, per quanto finemente lavorata, non ha peso. È tutto il resto ad averlo.
A volte gli sembra di trovarsi sulle spiagge frastagliate di Falas, o forse su quelle bianchissime di Alqualondë, e stringere un pugno di sabbia. Eccola nel mio pugno, si dice. Ma alcuni grani scivolano tra le dita, lentamente. E ognuno di essi è prezioso perché, assieme agli altri, forma la stessa manciata di sabbia.
Un lungo sospiro gli lascia le labbra.
Alza lo sguardo, soffermandolo sull’altorilievo della sua Casata: i serpenti che mutano pelle, pur rimanendo fedeli alla propria indole.
Ricorda la voce bassa e musicale di suo padre, le sue labbra premute tra i capelli: “Findo, diceva, “il serpente non ti morderà mai se saprai prenderlo nel modo giusto.”
L’eco del ricordo si perde tra le volte, e lui le guarda schiudersi, protettive, sopra il proprio capo. I costoloni sono venature di foglie, le colonne steli che sbocciano nelle corolle degli intradossi: una fantasia arborea scolpita nella roccia.
Eremo nostalgico, così Angaráto chiamava Nargothrond, preferendogli ogni volta l’asprezza del Dorthonion.
“Vorrei stare il più vicino possibile ad Artaher,” si giustificava. Ma Findaráto sapeva che a richiamarlo erano anche le vette oscure degli Ered Engrin, un dovere che raccontava di vendetta e orgoglio.
“Tu non vedi le nubi che avvolgono il Thangorodrim,” diceva Aikanáro. “Non senti il ribollire della terra.” Il pensiero sempre rivolto al Nemico per non incespicare nel ricordo d’un amore doloroso.
Parla di morte, l’ultima lettera che si sono scambiati. E Findaráto ricorda ancora le frasi conclusive di Aikanáro, vergate con quella sua calligrafia nervosa: Non so se esserti grato o odiarti per avermelo rivelato. Non so se sentirmi sollevato o disperato. Non so se l’agonia finirà ora o ne inizierà una nuova, peggiore. Quel che so è che mai, la mia vita, m'è apparsa più vuota.
Lui non aveva avuto il tempo di rispondergli, di scrivergli quanto avrebbe voluto abbracciarlo, asciugare le sue lacrime. E raccontargli di lei, se l’avesse permesso, ancora e ancora.
È rimasto solo prima di rendersene conto. Ha perduto Aikanáro e Angaráto, non ha alcuna notizia di Artaher e dei suoi figli, mentre Artanis è lontana giorni di viaggio.
Artanis, l’unica con cui avesse condiviso il presagio che languisce nei suoi pensieri: la percezione di stare vivendo un’esistenza instabile, dai respiri contanti, com’è la vita mortale. Ma quando era stato certo di averla raggiunta, quella fine che non avrebbe dovuto appartenergli, proprio un Atan l’aveva sottratto a essa.
Barahir aveva il riflesso di Balan nello sguardo, il suo sangue – lo stesso di Andreth – in corpo. “Signore,” gli aveva detto, “non sei nato per morire in queste paludi.”
Eppure.
Eppure il presentimento è ancora lì. E grani delle sua vita sembrano scivolargli fra le dita, uno a uno, come quella manciata di sabbia.


_______



S’è convinto di poter chiamare casa lo spazio fra la forgia e l’incudine, per quanto le coordinate di questo luogo cambino in continuazione. L’ha ritrovato tra le tende d’un accampamento, sulle rive ventose del Mithrim; in una fortezza austera affacciata all’Aglon. E ora qui, nelle caverne di Nargothrond.
Le fucine sono state scavate nella parte più meridionale della città, affinché le canne fumarie che attraversano piedi e piedi di roccia sbuchino a sud del Narog, tra le colline di Taur en Faroth. Un sistema di intricate tubature opera dei Casári, abituati a lavorare sottoterra. Sono stati loro a modellare l’intera città, e lui ha notato che alcuni infissi e travi di Nargothrond riportano, a modo di contrassegno, caratteri della loro lingua segreta.
Da anni, Tyelperinquar, studia i grafemi di quella lingua – gli stessi che percorrono come un nastro di fitti arabeschi la lama di Angrist. È riuscito a decodificare una cinquantina di parole, quasi la metà di quelle che suo padre ha individuato in un unico contatto con i Casári, nel Thargelion.
Il Thargelion.
Le sponde dell’Ascar fanno capolino nella sua mente, e con loro il bacino dell’Helevorn. Un lago oscuro, come dicono sia colui che lì ha dimora.
Una memoria prende forma fra i suoi pensieri. Ricorda Carnistir, sempre torvo e diffidente, alla luce fioca di un camino. Suo zio sta discutendo con qualcuno – forse Curufinwë, forse Tyelkormo –, e la sua voce è il fragore di un tuono. È furioso, ma ad un tratto solleva lo sguardo e vede Tyelperinquar.
Gli occhi di Carnistir, quasi neri, si sgranano, schiarendosi appena. Tace, ora, e il volto arrossato s’abbassa in un gesto che può ricordare una richiesta di perdono.
Quando torna a parlare lo fa con un borbottio sommesso, trattenendosi dall’alzare la voce.
Tyelperinquar ricorda la risata vellutata di sua zia Aralótë risuonare al proprio orecchio: “Pensavo di essere l’unica in grado di contenerlo!”
E il sorriso di lei, sempre così bella e regale, quasi che le crudezze di Endórë le fossero passate attraverso come un rifratto, è una stilettata in pieno petto.
Le memorie si accavallano all’incertezza del presente: lui è in salvo, nelle caverne di Nargothrond, ma nulla sa dei propri zii.
Ha sentito l’odore di zolfo, ha visto il fumo sollevarsi da nord e insozzare la neve. Ha immaginato le pianure verdi dell’Ard-galen ridotte a un deserto di cenere, cenere che prima era vita. E la speranza è divenuta il filo sottile d'una ragnatela: appare e scompare in un gioco di luci.
Un brivido lo percorre, il martello che tiene in mano cade sull’incudine e poi a terra, producendo un rumore stridente. Per evitarlo, Tyelperinquar indietreggia all’improvviso, allentando la presa che ha sulla tenaglia.
Le ganasce si allargano, il metallo incandescente che trattenevano sfugge alla loro morsa e a lui sembra già di avvertirlo, bruciante, sul proprio piede, quando una mano inguantata l'afferra.
Solleva il capo giusto in tempo per vedere Nármaitë gettare il pezzo di metallo nella tinozza d’acqua e sfilarsi in fretta il guanto che indossa.
Lo sfrigolio prodotto dal brusco raffreddamento, riporta Tyelperinquar alla realtà.
“Stai bene?” Domanda frastornato.
Il capitano, la fronte increspata e lo sguardo rivolto alla tinozza, immerge anche la propria mano nell’acqua. “Dovrei essere io a chiederlo a te, condo.”
Lui scuote il capo. “Mi sono distratto,” mormora. Un sospiro e subito aggiunge: “Ma sto bene. Io sto bene.”
Nármaitë gli lancia un’occhiata in tralice. Una di quelle occhiate che Tyelperinquar non sa bene come interpretare, perché non è mai certo che siano rivolte a lui o a un punto casuale, sospeso nello spazio. Oltre lo specchio dell’acqua, però, può vedere la pelle di lei arrossarsi.
“Perdonami,” bisbiglia allora.
Lo sguardo di Nármaitë si assottiglia per poi rivolgersi alla propria mano. “Dovresti scusarti meno e pretendere di più.”
Tyelperinquar sospira di nuovo, rimanendo in silenzio. Ascolta i rumori che provengono dai corridoi, larghi e affollati come strade; dalle fucine scavate accanto a quella in cui loro si trovano. Gli sbuffi dei mantici, i tramestii dei martelli e il ribollire dei crogioli, lo stridore del metallo piegato sui corni. Suoni famigliari, distensivi.
Focalizzati su questo presente, si dice Tyelperinquar. Ma il calore sprigionato dal forno riaccende il ricordo delle folate bollenti che s’alzavano da nord, spirando attraverso la gola di Aglon. L’odore delle braci si fa più mordace, soffocante, come quello dei fumi che avevano velato il cielo.




Il profilo spoglio della fortezza beccheggiava tra i vapori sospinti sin lì dal vento. Dinnanzi a Tyelperinquar i lancieri erano disposti in una fila compatta, una muraglia d’acciaio erta all’imbocco del valico.
Sotto i loro piedi la neve era divenuta fango e quella posatasi sulle rocce, sulle piastre delle armature, era stata annerita dai fumi.
Nell’aria, ora, volteggiavano fiocchi di cenere leggeri e sfagliati. E che speranze poteva mai conservare un mondo in cui il cielo piange cenere?
Lui strinse le briglie, lo sguardo puntato oltre lo schieramento di guerrieri, a vagliare le sagome che affioravano dal passo invaso dalla foschia.
“Vado a cercarli.”
La voce improvvisa di Ilwaráto lo fece trasalire. Si voltò e lo vide al proprio fianco, il viso irrigidito da un livore che illuminava lo sguardo di screziature smeraldine.
“Ha detto di attendere qui,” mormorò Tyelperinquar ed entrambi seppero a chi si stava riferendo.
Il capitano serrò i denti con tanta forza che lui poté udirne l’attrito. Le sue labbra si tesero in uno sfregio, mentre l’accenno d’una risata gli risaliva – roca – il fondo della gola.
“Vuole ritirarsi, lo so. Ma fintanto che sarà in vita io seguirò gli ordini di tuo zio.”
Tyelperinquar prese un respiro profondo – aria come fuoco nei polmoni. Guardò un frammento di cenere posarsi sugli spallacci di Ilwaráto per poi lasciarvi un alone grigiastro, e le sue speranze divennero parola: “Potrebbe volersi ritirare anche lui.”
Il volto di Ilwaráto sembrò pietrificarsi e Tyelperinquar temette di averlo provocato, ma quel suo sorriso ferino tornò ben presto a increspargli le labbra.
“Andrò ad accertarmene, allora.”
Prima che Tyelperinquar potesse obiettare alcunché, il capitano strattonò le briglie della propria cavalcatura e lo superò.
Lui pensò che avrebbe dovuto fermarlo, che suo padre non sarebbe stato affatto felice di quell’insubordinazione, ma non si mosse. Non avrebbe saputo cosa fare, cosa dire: lui non era suo padre né suo zio. E il valico dell’Aglon stava cadendo sotto i passi ferrati degli Orqui e le zampe mostruose dei Nauror; stava cadendo sotto la cenere e l’incubo infuocato di cui era testimonianza.
A un tratto il suono d’un corno si levò oltre il fragore del vento.
Ilwaráto non era ancora scomparso tra i fumi emessi dal valico, quando alcuni guerrieri vi affiorarono. Tra questi, Nármaitë cavalcava assieme con Curufinwë.
Tyelperinquar ne incontrò lo sguardo affilato – un vaglio gelido nell’anima – e non ci fu bisognò d’altro. Lo vide spostare la propria attenzione su Ilwaráto e poi chinare il capo per sussurrare qualcosa all’orecchio di Nármaitë.
Lei fece un cenno e spronò il loro cavallo affinché si opponesse all’avanzata dell’altro capitano. Le bestie, improvvisamente una dinnanzi all’altra, nitrirono e s’agitarono, ma i cavalieri che le montavano rimasero in silenzio.
Tyelperinquar li guardò fronteggiarsi, mentre attorno a loro i guerrieri andavano e venivano, trasportando armi e feriti e volute di fumo trapelavano dalla gola.
Poi un ululato echeggiò assieme al lamento del vento.
Huan emerse dalla foschia, seguito da Tyelkormo in una veste di sangue.
“Tyelko,” lo chiamò Ilwaráto, come Tyelperinquar sapeva che faceva quand’erano soli.
Lui alzò il capo e piantò il proprio sguardo buio, furente – lo sguardo d’un animale costretto alla catena – prima sul capitano e poi su Curufinwë. Sputò a terra e scosse il capo, riprendendo a camminare. L’Aglon alle spalle: un’agonia di fumo e cadaveri.
Fu in quel momento che Tyelperinquar ne ebbe la certezza: il passo era preso.













Note:

In lingua Quenya:
I termini Naucondi e Casári, indicano il popolo dei Nani. Il primo ha valenza dispregiativa e tradotto letteralmente significa “(popolo dei) rachitici”.
Orqui è il corrispettivo di Orchi, plurale di Urco (o Orco), mentre il termine Nauro significa Mannaro (sua forma plurale non attestata è Nauror).
Endórë è la Terra di Mezzo.
I Moriquendi sono gli Elfi Oscuri, coloro che non videro la luce dei due Alberi.
Condonya è traducibile come “mio principe/signore” ed è composto dal termine condo e dal suffisso pronominale –nya.

In lingua Sindarin:
I termini Yrch e Gaurhoth, indicano rispettivamente gli Orchi e i Mannari.

Il Valaróma è il corno da caccia del Vala Oromë.
Le Lampade a cui accenno sono le Lampade Fëanoriane o Lampade dei Ñoldor. Sono costituite da un cristallo al cui interno è imprigionata una fiamma in grado di emettere una luce blu.
Balan è il vero nome di Bëor il Vecchio.
Angrist è il nome del pugnale di Curufin (successivamente di Beren), forgiato dal Nano Telchar.

Nel pov dedicato a Finrod ho utilizzato una commistione di varie lingue perché ritengo il personaggio particolarmente propenso all'assimilazione di influssi linguistici, anche in considerazione delle sua vicinanza con altri popoli.

Il nome Quenya Nármaitë è composto dai termini nárë “fuoco” e maitë “mani”, “pratico”/“abile”. Ilwaráto, invece, è composto dai termini llwë “cielo” e arata “alto/nobile/altero” (più il suffisso maschile –o).
Aralótë, zia acquisita di Celebrimbor e moglie di Caranthir, è un personaggio originale. Il suo nome (sempre Quenya) significa “nobile fiore”.


Questo prologo è inusualmente lungo, ma mi è servito per introdurre le “voci” che struttureranno la storia, fornendone una chiava interpretativa. Da qui in avanti ogni capitolo tratterà il punto di vista di uno dei quattro personaggi qui presentati, e le loro introspezioni, assieme, faranno procedere l’intero racconto.


So che sarebbe buona norma scrivere i ringraziamenti alla fine della storia, ma mi sento in dovere di rivolgerli subito alle persone che, in questi mesi, mi hanno sostenuta.
Pertanto grazie a melianar e tyelemmaiwe con le quali ho intavolato infinite speculazioni e ragionamenti sul Nargothrond: è per merito loro che questo primo capitolo è stato pubblicato.
Grazie a Losiliel che si è prestata a svariati confronti e mi ha supportata con costanza.
E un altro, sentitissimo, grazie a melianar che mi ha aiutata a trovare il titolo della storia: si può dire che lei e Italo Calvino siano stati i miei punti di riferimento per il suddetto.

Infine un grazie a voi che avete letto.



   
 
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