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Autore: Alice Jane Raynor    26/10/2016    2 recensioni
Tutto questo poteva essere tradotto solo con una parola: Fatalità. Sorrideva triste, nella sua mente si rimescolavano i momenti felici. Per quanto cercava di trattenerli, questi sparivano velocemente, rimpiazzati nei torbidi eventi in cui si erano trasmutati. Sorrideva, ma in realtà sentiva tutto il tormento che agitava il suo essere, quella stessa afflizione che aveva reso nera e sporca la sua anima.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Claude Frollo, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Solo allora lui, che non aveva mai perso tempo a contemplare il cielo, l'immensità di Parigi o la grandezza di Notre Dame, prese a rimirare avidamente la gotica costruzione. Il sole sorgente lanciava una fulgida luce che si confondeva con le ombre, insinuandosi e intrecciandosi insieme in tutta la struttura imponente. Si confondevano negli spigoli, negli archi rampanti, creando un alternanza promiscua di sfumature e colori, fino a innalzarsi alle colonne polistili e le guglie appuntite. Poteva anche scorgere le bellissime torri campanarie, splendide, alte, irraggiungibili, distaccate dalla miseria umana. Il leggero ma pungente vento mattutino si insinuava calmo tra i doccioni e il suo sibilo ne usciva distorto e ringhiante dalle fauci di quei mostri di pietra. Tutto era minaccioso. Preso dai suoi interminabili studi, alla disperata ricerca delle tracce di Nicholas Flamel, non aveva mai goduto di quella sorprendente vista che appassionava il mondo intero. Conosceva quella chiesa così bene, i suoi portali, le sue guglie, la sua storia che l'aveva sempre analizzata con occhio freddo e calcolatore. Mai quindi l'aveva apprezzata nella sua bellezza, mai aveva lasciato da parte gli studi e gli affanni per osservare con occhio profano quella struttura, simbolo alto ma decadente di una società ormai sempre più minacciata dallo spirito laico. Ammirò la sua bellezza solo per un'istante, perché quella chiesa gli era stata nemica, come ostile era il passato che gli rievocava. Nostra Signora di Parigi, così spesso la chiamavano con superstizione gli abitanti, forse meritava davvero quel nome. Dall'alto della sua imponenza forse davvero aveva un certo potere ascendente sugli uomini. Non se n'era mai reso conto, non fino a quel momento. La sua vista sparì velocemente, sostituita da ben altro. Ora quei mostri apotropaici, arcigni, già gli preannunciavano dolcemente le pene che gli sarebbero toccate. Sorrise sbiecamente, sfidandoli con lo sguardo. Lui, arcidiacono Frollo, avevo osato volare troppo in alto, sfidare quel Dio che si era ripromesso di servire. Era stato come la mosca che felice era stata intrappolata dalla ragnatela, era stata la Fatalità a condurlo in quella tragedia. Conosceva la fine a cui poteva andare incontro, ma non si era fermato, ormai contagiato da quella pazzia incurabile, non avevo potuto fare altro che cadere in una dimensione terrena e vile. Aveva aspirato alla luce, alla bellezza ma poi era caduto nelle buie tenebre e il suo destino era stato segnato, ineluttabile.


Tutto questo poteva essere tradotto solo con una parola: Fatalità. Sorrideva triste, nella sua mente si rimescolavano i momenti felici. Per quanto cercava di trattenerli, questi sparivano velocemente, rimpiazzati nei torbidi eventi in cui si erano trasmutati. Sorrideva, ma in realtà sentiva tutto il tormento che agitava il suo essere, quella stessa afflizione che aveva reso nera e sporca la sua anima. Era a detta di molti intelligente, la sua stessa carriera ne era la prova, ma la razionalità non lo aveva protetto dalla follia né tantomeno dal desiderio. Ma forse una parola in sua difesa si poteva dirla, aveva provato a fare del bene, ma questo gli si era ritorto contro. Forse il bene già avvertiva il suo male futuro e scappava, scivolava dalle sue dita senza che potesse anche godere di una sola goccia di gratitudine. Il bene per lui era stata come la sabbia, piccola e sottile, evanescente che scorreva e spariva velocemente in una clessidra. Nulla erano valse le sue cure per Jehan, suo fratello minore, nulla la sua protezione per Quasimodo, nulla il tentativo di essere finalmente umano.


La debolezza per lui era stata fatale, avrebbe dovuto continuare ad agire nell'ombra per essere potente e temuto, ma tutto questo non lo soddisfaceva. Era stato sempre più rapito dall'insonnia e, durante i suoi studi, la sua mente volava lontano, lontano sul sagrato della chiesa o tra le intricate vie di Parigi. Richiuse gli occhi lentamente. Nella sua mente si delineò perfettamente quella figura danzante, leggera e fluttuosa. Odiava gli zingari e non si capacitava di come il destino lo avesse fatto innamorare di una di loro. C'era qualcosa di strano nella Esmeralda, che subito lo aveva attratto. Non riusciva a capire, quel ferreo uomo di scienza, forse era il suo volto sereno, allegro e sognante, forse era la sua ingenuità per quel mondo crudele. Forse era il suo stesso coraggio perché, nonostante fosse bella e avvenente, continuava a rimanere pura in quella contaminazione sociale. Forse lo aveva attratto perché era diversa dalle solite signorine parigine, superbe, altere e rivestite di gioielli e orpelli che appesantivano la loro persona. Forse era proprio quella semplicità selvaggia, quel sorriso schizzinoso ad averlo fatto cadere nella sua crudele trappola. L'aveva cacciata senza alcuna pietà, scacciandola dalla Chiesa che doveva accogliere tutti e poi si rinchiudeva nel suo studio, cercando di concentrarsi sulle sue ricerche. Ma a volte gli pareva di sentire in lontananza il suono dello strumento della gitana o il verso della capretta che si portava dietro. Istintivamente subito scattava verso la finestra, con impeto, ma spesso era solo un gioco della sua mente. Inizialmente pensava si trattasse di un gesto d'ira, perché non poteva sopportare la sua presenza, perché era un'insopportabile sedicenne che danzava senza alcun ritegno e dignità per la strada. Ma presto, nel mantello nero, camminando per Parigi, sperava di incontrarla e forse spesso usciva unicamente per questo scopo. Quando la incontrava esprimeva il suo dissenso, la spaventava con parole dure, cercando forse di convincere se stesso di non amarla o, forse ancora per gelosia, perché molta gente si accalcava a osservare la sua bellezza e lui, senza ammetterlo, voleva essere l'unico a goderne. Era stato spaventoso quel sentimento che piano piano lo aveva avvolto nelle sue spire, prosciugando ogni sua energia e pensiero. Si era ritrovata avvinghiato prima ancora che potesse liberarsi di quella sensazione sgradevole eppure terribilmente graffiante. Aveva tentato di divincolarsi, con forza, ma più si dimenava, più si era ritrovato stretto in quelle cinghie e allora non aveva potuto fare altro che arrendersi in quella disperazione di edonismo. Alla fine, stanco si era lasciato domare da quella tempesta insaziabile a cui non aveva saputo trovare una soluzione. Aveva tentato di rapirla, ma tutto era stato vano ed era stata salvata da Febo, quello sciocco millantatore.


Al solo pensiero del bel biondo soldato, il suo volto si tramutò in una maschera d'ira. Sentiva quell'odio e quella rabbia feroci che risalivano verso la testa, sconfiggendo il suo solito autocontrollo. Quanto vuota era la sua persona, quanto ridicola era la sua immagine. Forse era bello, forse era avvenente ma l'Esmeralda si era innamorata di lui e questo era stato un altro passo che lo aveva avvicinato nel baratro. Febo non aveva alcun rispetto e, per lui, stare con Esmeralda non aveva alcun senso, era un passatempo come un altro. 

Se soltanto avesse saputo del segreto della scarpetta di Esmeralda e quello che il suo gesto avrebbe portato con sé. Se soltanto lo avesse saputo, Frollo sarebbe completamente impazzito d'ira. Chiuso in quella stanza, osservava morbosamente la scena, le sue orecchie non sentivano, il suo respiro era silenzioso ma affannoso, il cuore palpitava, la testa scoppiava. Vedeva solo il nudo corpo di lei, lo guardava con avidità e si doleva alla vista di Febo. La gelosia lo corrodeva, gli fece ben presto perdere il lume della ragione. Scattò prima che potesse rendersene conto, mettendo fine a quella stupida farsa, che lo umiliava nel profondo. Era stato azzardato ma aveva sperato ardentemente di ucciderlo, purtroppo invano, ma in quel solo momento in cui assaggiò il sangue del suo avversario, si sentì soddisfatto. Aveva soddisfatto quella sete insaziabile che lo aveva corroso e fatto stare male, il gusto di quella violenza era incredibilmente dolce. In quel momento era scattato qualcosa di strano nella sua mente, se ne sarebbe accorto solo in seguito. Forse sentiva come lei fosse irraggiungibile o forse come lui fosse bello al suo confronto e che soprattutto godeva delle attenzioni dell'egiziana. L'invidia e la gelosia si intrecciavano saldamente, banchettando con Amore e lui, loro succube, aveva ceduto alla violenza. Forse era spaventato, sicuramente non era più calmo ma sentiva un'impellente desiderio di vendetta, non le bastava quello che aveva compiuto. Voleva retribuzione per quel tradimento ingiustificato. Fu per questo che denunciò la zingara, fu questo che la condusse irrimediabilmente in un tribunale. Forse voleva solamente allontanare la colpa da sé, farla scivolare via. Ma ciò non lo rese più tranquillo. Sentiva ancora l'immondo sangue di Febo sporcargli la nera tunica, sentiva ancora il corpo nudo di Esmeralda spettacolo di torture, sentiva ancora la sua sporca denuncia che avrebbe fatto soffrire colei che amava. L'avrebbe deformata, fatta urlare di dolore, avrebbe sofferto irrimediabilmente. Fortunatamente lei aveva deciso di confessare prima ancora di assaggiare le armi persuasive del boia. Sospirò di sollievo, ma nelle notti precedenti e quelle a venire, sognò spesso delle sue urla e lui sarebbe dovuto rimanere fermo e impassibile, cercando di controllare quelle immani emozioni che lo avrebbero sconvolto sin nel profondo. Sentiva così reale quella costrizione e così palpabili quelle immagini spaventose che non trovò la pace né giorno né notte. Camminava nervoso, rinchiuso nella stanza, cercando di dimenticare, cercando di concentrarsi su altro. Ma appena ripiombava a leggere e tradurre i polverosi testi, ecco che si alzava con violenza dalla sedia, aggirandosi come una fiera senza tregua.
Quanto male quest'amore gli aveva portato, senza che neanche per un istante potesse mettere tregua a quel mare in piena. Sballottato dalle correnti, non aveva avuto un attimo di tregua e appena tentava di respirare, veniva atterrato, affogando nella desolazione più nera.

La sua poi fu una disperata corsa contro il tempo, cercando di sbarazzarsi di lei. Disdegnato e denigrato il suo aiuto quando era accorso nella sua prigione, riducendosi a supplicarla con le parole più dolci e passionali che avrebbe potuto pronunciare, il rogo sarebbe stata la punizione ideale per quella zingara impertinente. Proprio per questo l'aveva affidata a quella sorte, sperando che il suo desiderio si sarebbe consumato come il suo debole corpo mortale. Ma la notte sognò ancora quel volto che lo guardava selvaggio. Il fuoco che avrebbe lambito i suoi fianchi, le fiamme che avrebbero ridotto in cenere il suo corpo perfetto... poteva impazzire. In quel momento avvertiva tutta la sua debolezza e la sua indecisione. Da una parte la sua mente esaltava la freddezza di quel momento, non riusciva ancora a comprendere la verità del sottile filo della vita. Al pensiero di non rivederla più, il suo cuore infuriava violento. 

La sua temporanea salvezza gli aveva portato poi solo ancora più disgrazia. Salvarla aveva solo portato distruzione. Fino all'ultimo non l'aveva potuto lasciare, fino all'ultimo momento aveva sperato di poterla convincere e proprio per questo era stato cieco alla passione crescente di Quasimodo, quasi suo figlio adottivo che l'aveva persino protetta quando tentò di violentarla, sulla sommità della chiesa, nella follia selvaggia della sua bruciante passione.
L'epilogo non aveva portato niente al suo amore, né aveva salvaguardato la vita della perpetua errante. Nel momento di più grande felicità, il suo respiro era stato troncato dalla corda dell'impiccagione. Frollo aveva guardato l'esecuzione dall'alto di Notre Dame, guardando fissamente lo sguardo, non guardando nient'altro se non quello spettacolo macabro eppure incredibilmente attraente, tanto da catalizzarne lo sguardo.

Il bene che aveva costruito con tanta fatica era stato spazzato via da quel folle amore. 


Quasimodo lo aveva tradito, mettendo fine alla sua follia. Non si poteva biasimare, Frollo era diventato non meno bestiale dei gargoyles.

Nulla gli aveva portato il conforto, nemmeno il suo amore.  Frollo aveva assaggiato la dannazione sulla Terra, non sarebbe stato difficile sopportare quella dell'Inferno. Era condannato senza aver assaggiato il frutto proibito, senza che potesse davvero soddisfare i suoi desideri.

Anche la Chiesa lo aveva respinto, ricacciandolo via, quando aveva tentato disperatamente di aggrapparsi alla sua vita e di combattere.

Frollo sogghignò ancora, guardando il cielo. Non ci sarebbe stata pace per lui nemmeno nella morte.


Continuò a cadere, rivivendo tutte queste emozioni, contorcendosi di dolore.


Infine giunse l'urto, il suo corpo rimase inerte, il volto orribilmente deformato nel suo ultimo sorriso d'amore.


Nessun conforto lo avrebbe mai salvato.

   
 
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